13/8/2003
Ieri
non sapevamo ancora degli attentati e siamo andati al checkpoint di Beit
'Iba. Appena arrivati ci hanno detto che tutta Nablus era isolata,
nessuno entrava e nessuno usciva, gente mezzi e ambulanze.
Le
scene erano le solite, diverso questa volta il mio sentire. Invece della
solita rabbia ho provato una grande pena che mi ha accompagnato fino al
mattino.
Una
grande pena, vedere il soldato caricare il suo M16 e puntarlo su
un piccolo gruppo, composto in gran parte da donne bambini e tre
pacifisti internazionali.
Una
grande pena, trovarsi ad arretrare frettolosamente insieme agli altri,
insieme agli altri, senza paura ma con rassegnazione.
Una
grande pena, per Mohammad che ha 6 anni, per suo padre che lo
porta in braccio e ci mostra un foglio di dimissioni dell'ospedale di
Nablus. Sul foglio in inglese c'e' scritto che il bambino quella mattina
e' stato operato di ernia inguinale, e si prega chi di dovere di farlo
uscire da Nablus per ritornare al proprio villaggio.
Una
grande pena, per noi che ci avviciniamo sorridenti al soldato dicendogli
che sappiamo che il check point e' chiuso, che lui sta' facendo il suo
lavoro, che pero' forse almeno questo bambino e suo padre potrebbero
passare...
Una
grande pena, tornare indietro con la coda tra le gambe e spiegare al
padre che prima di sera non potranno ...
Una
grande pena, vedere persone trattate come animali: venite avanti /
andate indietro / adesso accovacciatevi nella polvere / porgete la zampa
con la vostra I.D. card...
Una
grande pena, anche per quel soldato giovane, sorridente e gentile nei
nostri riguardi: "mi dispiace ma sono ordini" ... "il
Napoli era una grande squadra quando c'era Maradona"; una
bestia quado si rivolge ai palestinesi.
Che
gli hanno fatto a questi giovani Israeliani? Come hanno fatto a
convincerli che i Palestinesi non sono esseri umani? Come hanno fatto a
trasformare ragazzi e ragazze all'apparenza normali in spietate macchina
da guerra?
I
kamikaze? La paura? Una strategia politica?
Io
non lo so, guardo e mi interrogo.
Vedo
dei ragazzi palestinesi: alcuni sono i ragazzi dello youth center,
allegri e giocosi, altri li incontro per strada e mi mostrano le loro
foto mentre imbracciano enormi fucili mitragliatori e sono sorridenti
anche loro. Gli auguro buona fortuna e dentro di me spero che le loro
foto non finiscano su uno dei tanti manifestini di martiri che
tappezzano i muri di Nablus. Le foto sono uguali, le armi anche,
cambiano solo le facce.
Vedo
dei ragazzi israeliani: purtroppo la maggior parte di quelli che
incontro sono militari armati di tutto punto, ma ho visto anche figli di
coloni che aspettano l'autobus all'uscita degli insediamenti, ragazze in
minigonna per le vie di Gerusalemme, addetti alla sicurezza con
giubottino antiproiettile blu, all'uscita dei supermercati di Tel Aviv,
adolescenti ingelatinati e tamarri nei bar di Jaffa road, ultraortodossi
vestiti di nero con cappello e treccine.
Vedo
dei ragazzi, non tanto diversi dai nostri. Non tanto diversi da me.
Li
vedo e penso che forse domani saranno uccisi, o forse uccideranno
qualcuno.
E
provo una grande pena. Per loro. Per noi. E per il resto del mondo, che
finge di non sapere, che preferisce guardare altrove.
Alle
volte penso che il dio di tutta questa gente si e' dimenticato del suo
popolo e della sua terra.
Nathan
N.
|