Sì lo so, non scrivo da giorni. Ok, non vi arrabbiate! E’ che davvero mi sto sommergendo. Un po’ il lavoro, un po’ le tremila cose che aggiungo per i fatti miei. Un po’ che le cose da scrivere sarebbero così tante… sai, come quando hai davanti tante persone che ti chiedono un’offerta, e nell’indecisione non la fai a nessuno… troppe cose da scrivere, da raccontare, da farvi entrare nella pelle. Un gliela fo!

Dunque, vediamo: partiamo dalle cose che mi emozionano. Ho fatto altre interviste, che prima o poi leggerete. Ma sono lunghe da sbobinare, un paio in arabo, con la traduzione. L’altra in inglese. E’ quella del direttore dell’ong palestinese con cui lavoro qui, ve ne ho parlato all’inizio. E’ un fiume quel benedetto uomo! Sbobinare un C90 suo vuol dire non annoiarsi per settimane! Oltretutto questa devo farla nelle due lingue: sbobinarla in inglese, per lui, e poi tradurla in italiano. Bah, forse entro Natale… E poi ci sono i filmini, che ogni volta “devo” montare: la gita a Nablus, coi ragazzini; un matrimonio ortodosso… E come al solito le mille foto. Quelle che vedete nel sito sono una minimissima parte di quelle che ho fatto. Sono qui da poco più di due mesi, e un album è già pieno, ho iniziato il secondo. E’ bellissimo rivedersi i posti. Ogni volta, si rivivono le emozioni. Certo, è anche un “lavoro”. Passo le ore tra incollare e sistemare il tutto.

Altra cosa che mi emoziona: un mio articolo tradotto in arabo!

Sto organizzando un’attività per i giovani da realizzare attraverso l’uso dell’autobiografia, così prima devo preparare del materiale, che ovviamente va poi tradotto, anche perché io scrivo in italiano. In inglese posso scrivere lettere e rapporti tecnici, ma una cosa bella, profonda, da scrivere in lingua colta, devo pensarla in italiano. Mi aiuta a tradurre un amico palestinese. Bello. (non l’amico palestinese. Il fatto di tradurre il mio articolo!). 

In Somalia, a proposito di pedagogia attiva, feci tradurre in somalo dei pezzi dai classici di Mario Lodi. Qui, il mio ispiratore è Duccio Demetrio. Certo… quanto è lontano l’uso dell’autobiografia che possiamo fare noi, rispetto al contesto in cui mi trovo a lavorare. Ho portato qui “Il gioco della vita” e già nelle prime pagine,  si parla di “…guardarci alle spalle con un po’ di leggerezza e ironia”…  Già: vagliela a spiegare “la leggerezza” a chi l’anno scorso ha avuto la casa bombardata, a chi ha vissuto l’assedio di Ramallah, di Betlemme, di Nablus, con i carrarmati che ti circondano la vita. A chi deve chiedere il permesso, ogni giorno, tante volte in un giorno, per andare da un posto all’altro, anche solo all’università…

La leggerezza, il gioco, giocare con la vita… tutti concetti occidentali, che ci possiamo permettere quando stiamo bene.  Magari abbiamo vissuto tragedie: malattie, morti, violenze familiari. Ma siamo in un contesto vitale, libero. E questo ci consente di elaborare i nostri pensieri. Fino, in molti casi, all’autoironia. Qui, mi sarà più difficile. Ma è una buona meta. Del resto, l’ironia storicamente è molto forte proprio nelle situazioni che in maniera prolungata sono profondamente drammatiche (es.  …i ghetti ebraici). Diventa a volte l’unica strategia di sopravvivenza.  Noi italiani, pur con notevoli differenze regionali, non siamo molto autoironici. Non abbiamo neppure l’equivalente inglese del take it easy. Frase da ripetersi, quando si comincia a prendersi troppo sul serio.

E poi vi racconto di un bellissimo concerto. Certo, lì non le dicono queste cose. Peccato. Ma ci sono tanti israeliani in gamba, e bisognerebbe parlarne di più, anche in Europa.

E’ stato un evento importante. Daniel Barenboim, grande pianista e direttore d’orchestra, tedesco, israeliano, ebreo. Da anni viene qui periodicamente, sfidando il governo israeliano (dato che agli israeliani non è consentito passare i checkpoint ed entrare in Cisgiordania, perché ritenuto “pericoloso” per loro), e suona per i palestinesi. In questo caso, il concerto era abbinato anche ad un altro evento importante: la consegna di un bellissimo pianoforte a coda, per questa sede teatrale di Ramallah (la Friends boys school’s), offerto -mi pare- dalla città di Amburgo.

Non so se potete immaginare cosa significa sentire musica classica, suonata da dio, in un posto del genere. Mi capitò tanti anni fa la stessa emozione, nelle Filippine. Ero in una casa che era un tugurio di mattoni e legno, a due piani. Io col mio zaino, e molti anni di meno. Fuori la pioggia, le montagne, le risaie, il freddo, animali da cortile, e tante altre case contadine una addosso all’altra.

E improvvisamente… come un miraggio. Il suono di un pianoforte. “Non ci posso credere!” Musica classica. Suono perfetto, sublime. Non era un disco. Era un ragazzo di lì, bravissimo. Passò tutta la sera a suonare per noi, poi con la chitarra classica e una bella voce che cantava in tagalog. Non l’ho mai dimenticato.

E ora? Ramallah. Territori occupati. Checkpoint ovunque. Tanta rabbia. Tanto dolore. E improvvisamente… Chopin, Mozart, Beethoven, Shubert,…

Ripenso all’incipit di un libro letto anni fa: Jane Goodall Le ragioni della speranza.  Scienziata, studiosa degli scimpanzé in Tanzania. Che entra in chiesa e sente Dio attraverso le canne di un organo che suona Bach. 

Le onde musicali sono onde divine.

E’ esattamente ciò che penso mentre sono qui, Ramallah. Teatro gremito di palestinesi importanti: ministri, gente di cultura. E questo piccolo grande uomo, ebreo. In una folla di musulmani e cristiani. E mentre ascolto quelle dita (dono senza fine) penso che in momenti simili, non si può non sentire il sacro. Allora? Allora come si fa ad avere tutto ciò come nemico? Come si può pensare di bombardare la cultura, un teatro, la musica, Chopin…? E’ come bombardare Dio.

Eppure è ciò che avviene. Ancora oggi, nella storia a noi contemporanea.

E il piccolo uomo si ferma, racconta aneddoti. “Ogni volta che vengo qui, in Palestina, imparo delle cose. L’ultima volta, parlando con una bambina, mi disse una frase che non ho mai dimenticato: tu sei la prima  cosa che viene da Israele, che non è né un soldato né un carrarmato”.

Ci vuole così poco!

Ci vuole così poco ad essere dei costruttori di pace. (…Invece di essere costruttori di muri!!! Di nemici, di sindromi da attacchi terroristici!!!)

Sono tante le ciliegine che ci regala nella serata, oltre alle sue mani, ai suoi aneddoti, due sorprese bellissime. La prima: chiama a suonare con lui, a quattro mani, un giovane palestinese di Israele che è in platea, un altro maestro-mago del pianoforte. Non è la prima volta che suonano insieme. Un israeliano, un palestinese. Quattro mani. La stessa tastiera. A Ramallah!

Perché deve essere tutto così difficile, quando basta così poco. Davvero, la vita, il destino del mondo, sono una questione di volontà. Quanta stima si esprimono, quante strette di mano, con i fotografi che si accalcano sotto il palco, con i loro obiettivi giganti. Perché tutto il mondo non può essere così?

Ma arriva poco dopo la seconda ciliegina. Baremboim non è venuto solo: ha portato con sé il giovane figlio, anch’egli musicista, ma suonatore di violino. E così il duetto si allarga, e il gruppo diventa transgenerazionale, oltre che interreligioso.  Giovane israeliano al violino (dovrà fare il servizio militare, se gli interessa conservare la nazionalità; anche lui, fare il guardiano ai checkpoint…?); padre e amico palestinese al piano.

Pochi momenti di vita vera. Tutto il resto, è l’incubo che l’uomo si crea da solo, perché non sa discernere.

Vi lascerò con un’altra bella immagine, che avrei voluto fotografare, ma non avevo la macchina. Probabilmente, non mi sarei azzardata.

Una donna anziana, sfiancata dal caldo sotto i suoi pesanti abiti musulmani, ferma al checkpoint per entrare a Ramallah. Penso che abbia avuto qualche grana, ma quando passo… invece no.

Si sentiva male per il caldo. Il militare israeliano, sui 50 anni, le ha dato la sua borraccia.

La sua borraccia militare. La stessa che beve lui.

Lei lo sta ringraziando, sorride, in un mare di sudore.

Le loro salive si mescolano in quella bottiglia verde rivestita di panno. 

Sono questi i “nemici” ?

Perché  non possiamo abbattere i muri, i checkpoint, i confini, le paure… Perché, senza retorica, non possiamo vedere nell’altro solamente gente semplice, che ha fame e sete come tutti noi?

 

Ramallah. E’ passata anche la notte di San Martino.

Se non me lo diceva Chiara, chi ci pensava?

Baci. Silvia

© Silvia Montevecchi