Ramallah, lunedì 23 giugno 2003. Nei giorni scorsi ho visto tante cose meravigliose! Una domenica mattina sono stata a Gerusalemme, nella zona che i cristiani chiamano Betania perché lì vi era il villaggio di Marta e Maria. E’ lì che avvenne il miracolo di Lazzaro, e come in molte altre zone della città, anche in quella sola strada si susseguono una dopo l’altra la chiesa greco ortodossa, la moschea, la chiesa cattolica. Vicino a quest’ultima, si trova la tomba di Lazzaro, in fondo ad una scala che scende stretta e ripida sotto terra. Bello. Anche qui, sono riuscita a ritrovarmi da sola. Un cospicuo gruppo di pellegrini italiani era appena uscito, portando via la confusione inevitabile di 30 persone comunicanti, per quanto di pellegrini si tratti. A Betania c’è la casa delle suore comboniane. Le conosco dall’Italia, e sono andata a trovarle. Mi raccontano che la loro grande casa in tempi di pace era sempre piena di gente. Ora invece… Ci sono quasi solo loro. Il loro giardino si trova su un colle nel quale anni fa una loro sorella, andando nel pollaio a fare un buco in terra… si è trovata un paio di metri sotto, tuffata in un antro in mezzo a una serie cospicua di ossa di cadaveri. E’ così che si è scoperta un’importante zona archeologica, antichissima, comprendente sia la necropoli sia –più in alto, dove ora sono i bellissimi ulivi dei padri passionisti- l’acropoli. Le tombe aperte sono state poche, ma sufficienti per trovare molte terrecotte anche di 2000 anni a.C. Gli archeologi hanno poi stabilito che praticamente tutto il grande giardino copre un vasto villaggio, che sarebbe probabilmente l’originale Betania di Marta e Maria. Dati però i motivi politici esistenti, si è ritenuto più utile per quel patrimonio lasciare che stia ancora sotto terra. Sono poi
stata a dormire in un’altra bella casa di accoglienza: Abraham House.
Anche questa non lontana dal Monte degli Ulivi, con un giardino
bellissimo, fitto di pini, e un terrazzo sul tetto da cui si gode un
panorama mozzafiato verso la Città Vecchia. E’
davvero stupenda Gerusalemme, e sono felice di essere qui “senza
fretta” e di poterla scoprire piano piano. Ti conquista questa città.
Forse un po’ anche per la sua follia. Dove tutto si mescola. Sacro,
business, traffico urlante, rabbia, odi ancestrali, macchine che suonano
e inquinano,… ma con quella cupola d’oro della moschea a farla
comunque sempre da padrona, con una bellezza che sembra davvero a
gridare a Dio, in ogni momento. E
nonostante tutto. E poi sono andata nel Deserto di Giuda. Volti a destra dalla strada statale, e in un attimo sei in un altro mondo. Cammelli, beduini, colori pazzeschi per chilometri: poche sfumature di bianco e giallo chiarissimo, un sole accecante. Meraviglioso. Cerco nel computer un colore simile. Vorrei metterlo come sfondo a questa pagina. Ma non lo trovo. Forse è irripetibile, il colore del deserto. Lo può ripetere solo il pennello di qualche artista, purché lo abbia amato profondamente. Io e l’amico palestinese che letteralmente mi scarrozza (ama talmente la sua terra, che lo vedo davvero felice di farmi da guida) arriviamo alla moschea di Nebi Musa. Un tempo luogo di ristoro per i pellegrini che dai luoghi santi d’Arabia arrivavano fino qui, in lunghe carovane, per toccare anche quella di Gerusalemme, dopo le moschee più importanti di Mecca e Medina. Mentre io visito questo luogo ahimé decadente, dove i musulmani ritengono sia la tomba di Mosè, il mio amico chiacchiera con un ragazzino palestinese con due occhi bellissimi, e una radio scassata. Non sapevo fosse esperto di radio, e dopo un po’ riesce a farla funzionare. Gli occhi neri del ragazzino brillano sorridenti, e ci saluta con un “shukran” che per me è sempre molto bello. Ho scritto più volte, su libri miei, quanto ami la parola “grazie” (anzi, un’intera poesia su “Le cose per cui ringrazio”). Ci sono così tante occasioni per pronunciarla, ogni giorno. E se la dicessimo di più, saremmo più felici. Quando poi un ragazzino ti dice grazie perché lo hai aiutato ad aggiustare una radio, in quella sua vita nella sabbia arsa dal sole, pensi che è stato proprio bello passare da lì, e dividere con lui un po’ del nostro tempo. E’ la relazione,
il motivo più profondo di ogni viaggio. Come sempre, è solo lo
scambio, il darsi, che ci può arricchire. Qualunque altra cosa, in
fondo, la puoi trovare in libreria. Il nostro giro di venerdì finisce davanti all’immagine del monastero greco ortodosso di S. George. Il mio amico alla guida conosce ogni curva della sua terra, e quando siamo al preludio di una visione sconvolgente mi dice “chiudi gli occhi!”. … “Ecco, adesso apri!” E in effetti… rimango senza parole. Me lo ha fatto già con Nebi Musa, che vedi in lontananza, con le sue cupole tra le dune, e le sue palme attorno. E ora, questa costruzione incastrata dentro un canyon, che si raggiunge solo a piedi, lungo un sentiero roccioso sotto il sole. Pochissimi vivono lì, come eremiti, per anni. Qualcuno regolarmente porta loro le provviste. Che
mondo. …Quanti mondi. Ad ogni passo. Dimensioni di vita assolutamente
non-percepibili per chi ne è fuori. Neppure immaginabili. Se fossimo
capaci di amare il mistero… Forse qui, è proprio il mistero che si percepisce di più. Questa terra ti pone una quantità infinita di domande. Di risposte, forse neanche una. E il bello, è proprio lì. Lasciarsi andare. Perdersi, nella meravigliosa consapevolezza del non-sapere. E’ il sentire che conta. Non il sapere della ratio. Il
deserto, con il suo vuoto, con il suo vento, mi fa sempre questo
effetto. Ti perdi nel vuoto, ti ricordi di non essere nessuno, e così
sei un po’ meno arrogante, di quanto ci fanno diventare le nostre città. Torno a Ramallah. Mi sto anche abituando ai check point. Non so neppure se provare più rabbia o più pena, per questi ragazzi così giovani, che passano al sole i loro giorni, con il fucile in mano, perché proprio per sfiga sono nati nel posto sbagliato. Fossero nati in Olanda… andavano in giro in bicicletta, e non sapevano neppure cosa volesse dire fare “i coloni”, o andare su un autobus col terrore di saltare in aria. Cosa
strana, il “destino”. Nasci in un posto così… e tanti auguri! Qui sto bene. Sono riuscita a far funzionare anche la lavatrice! Ho cominciato a stampare le foto e a fare i miei soliti album,… il lavoro va bene. Spero solo di cominciare al più presto le varie attività, per essere così “sul campo”. In mezzo alla gente. A proposito, per chi è interessato e legge l’inglese, inserisco un link del Washington Report con un articolo interessante sulle conseguenze della guerra nei bambini di qui. Un abbraccio. Silvia.
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© Silvia Montevecchi