Ramallah, sabato 14 giugno 2003. L’incontro con la città, e con la sua gente, è stato decisamente bello. Sono tutti più che accoglienti: ti danno davvero il benvenuto. Molti si affrettano a dirti “per qualunque cosa, chiamami”. Sanno che qui la vita non è semplice, e che ad essere stranieri può esserlo anche meno, oltretutto senza conoscere la lingua. L’aria che si respira in questa città, nonostante tutto (e anzi in barba alla situazione pazzesca di questo popolo), è un’aria di pace. Le persone sono sorridenti, tranquille. E c’è molta vita, tanti negozi sempre aperti, macchine che suonano di continuano, pedoni che camminano ovunque. Se si pensa comunque che questo paese deve andare avanti senza uno governo riconosciuto, e quindi senza potersi organizzare come qualunque altro paese, la calma e il relativo ordine che ci sono, penso siano senz’altro superiori a ciò che si troverebbe da noi se fossimo lasciati allo stato anarchico. La tradizione tribale, clanica, in questi casi è salvifica. Se non ci fosse quella, dove non esiste la legge nel senso occidentale, ci si potrebbe ammazzare per qualsiasi cosa. A parte ciò, una
cosa che apprezzo molto rispetto ai precedenti lavori internazionali è
che questo è “normale”. Nel senso che qui ho casa mia, e ogni
giorno vado in un ufficio o al campo profughi dove si svolgono le
attività con i giovani. Nelle situazioni precedenti, ci si trovava
sempre in quelle condizioni molto ambigue date dalla convivenza forzata
con persone tra l’altro mai viste prima. Ad ogni modo, fossero anche
state persone conosciute e amiche, credo che poche relazioni possano
salvarsi da una compresenza di quasi 24 ore al giorno.
Era così in Burundi, era così in Somalia, ed era così in
Sierra Leone. Infatti si arrivava a livelli di “odio” (qualcuno
quasi si menava a Berbera!). Non è pensabile, in situazioni già
difficili per sé, di trovarsi a lavorare, fare colazione, pranzo, cena,
e spesso passare anche i momenti liberi, sempre con le stesse facce, per
quanto belle possano essere!
In condizioni di normalità, quando si esce dal lavoro si chiude
una porta, e se ne apre un’altra, quella della vita privata.
Sono contenta di questa casa dove sto per conto mio, oltretutto
con la parabolica, così mi vedo la tv francese, inglese, italiana, e
anche quella portoghese (poi altre, mai di cui non capisco nulla!). Giovedì pomeriggio, dopo l’ufficio, sempre in compagnia di Yousef sono andata al villaggio di Ain Arik, che è vicinissimo a Ramallah. Qui vi è la comunità fondata anni fa da don Dossetti, la stessa che c’è a Monte Sole. Avevo mandato loro un’e-mail dall’Italia e sapevano quindi del mio arrivo. Come immaginavo, è un posto molto, molto bello. Siamo andati in
macchina, pensando di metterci dieci minuti. Yousef non sapeva che la
strada è bloccata. L’esercito israeliano ogni tanto costruisce delle
barriere (di terra, pietre, quant’altro) piuttosto alte, valicabili
solo a piedi. Così abbiamo dovuto lasciare la macchina, passare una
barriera, fare alcuni metri a piedi, passarne un’altra, e da lì
salire su uno dei tanti furgoni-taxi che ci ha portato al villaggio. E
poi siamo saliti a piedi fino alla comunità. E tutto sommato è stato
bello andare a piedi. Il villaggio si trova in una valle stretta, con le
pendici verdi di ulivi. E’ raro vedere tanto verde, questa è una
terra arida, e con la guerra lo è diventata ancora di più. Certo, io
ero lì in visita amichevole. Non avevo nessuna fretta. Ma pensate cosa
può voler dire vivere così. Immaginate che per andare da Mazzini a San
Lazzaro vi sia una sola strada. Sono pochi km. Eppure mentre la
percorrete, domani scoprite che l’hanno chiusa. C’è un’asta nel
mezzo, e non potete proseguire. Chi l’ha messa? Un altro governo.
Un’istituzione che non ha niente a che fare né con San Lazzaro né
con Bologna. E voi potete solo scavalcare l’asta, e andare a piedi.
(E se dovete fare un trasloco?). Almeno, qui la guerra sembra più lontana. Ci sono gli ulivi. Ci sono questi monaci, in questa bella chiesa tutta di sasso, semplice. C’è persino qualcuno che ha avuto la bella idea di costruire una piscina per la gente del villaggio: un giorno per gli uomini, uno per le donne. Grande idea! Visto che da qui non si può nemmeno andare al mare (ed è così vicino). I frati e le sorelle
ci fanno una bella accoglienza. Anche Yousef, che non è certo abituato
agli ambienti cristiani, ne è ben colpito. Fratel Giovanni poi, che è
in Medio Oriente da tanti anni, parla un arabo eccellente, e così i due
si fanno una bella chiacchierata. Ora che conosco la strada, tornerò.
Qui ci si rinfranca davvero lo spirito. Venerdì qui è la nostra domenica, come sempre nei paesi musulmani. E l’ho passata con A.S. sul mar Morto. A.S. è un fotoreporter palestinese, che fa foto in bianco e nero molto belle. Alcune, già anni fa, sono state pubblicate in molte riviste internazionali. Parla bene italiano, e questo per me è un bel sollievo, visto che al lavoro non lo parla nessuno! Non mi è facile la sua compagnia, e glielo dico. Perché sento molto la sua rabbia. La capisco, completamente. Sono d’accordo con lui su quasi tutto. Ma non posso assorbire aggressività. E non voglio essere coinvolta – da nessuno – in forme di odio verso gli uni o verso gli altri. Mi rendo conto sempre di più di quanto sono fortunati tutti quelli che – come me – sono nati in Europa, e vi sono nati nella seconda metà del ‘900. Noi abbiamo visto un intero continente LIBERO. Non abbiamo vissuto bombardamenti. Anzi, addirittura abbiamo visto crollare il muro di Berlino. La cortina di ferro! Qui le cortine di ferro sono ad ogni passo. I muri non solo non crollano, ma addirittura se ne alzano di nuovi all’improvviso. Molti palestinesi non possono neppure andare a Gerusalemme, o uscire dai confini della Cisgiordania. Se la mia generazione in Europa ha potuto toccare con la mano che “un mondo diverso è possibile”, perché siamo usciti dal KGB e mille altre forme di oppressione e miseria, qui il vissuto e la percezione sono esattamente all’opposto. Quindi mi rendo conto che per me è facile essere una persona sorridente. Esattamente come per lui è facile essere a dir poco “rabbuiato”. (… a me sembra che abbia l’aria sempre incazzata!). Mi è venuto alla mente un episodio vissuto tanti anni fa, ma che non avevo mai dimenticato. Credo che fosse in assoluto il mio primo incontro con la causa palestinese. Avevo circa 20 anni. Era luglio, c’erano i campi coperti di grano. E io ero a una delle classiche feste dell’Unità all’aperto, con un amico di 18 anni. Era davvero “un ragazzo”, ma un ragazzo in gamba. All’incontro organizzato con alcuni palestinesi, io a un certo punto – guardando uno di loro – dissi al mio amico: “Non mi piace: ha l’aria aggressiva!” E lui, senza neppure
pensarci: “Sai, lui aveva il fucile in mano, quando tu ti compravi la
cartella nuova”. Sono passati circa 20 anni, ma non ho mai dimenticato
quella risposta. E ora mi è tornata alla mente, rapportandomi con A.S.
Se da bambino hai avuto in mano un fucile, anziché giochi e
quaderni, e se poi sei cresciuto in una situazione così difficile, con
muri ovunque, è davvero difficile essere diversi.
Per essere solari, ci vuole il sole. Almeno un po’. A parte questo, il giro al mar Morto è stato molto bello. Che sensazione incredibile! Quasi ti ci puoi addormentare sull’acqua. E poi ci siamo fatti i fanghi. La pelle tira come quando ci si fa la maschera, e dopo è bella liscia. E che meraviglia fare il bagno in un’acqua così calda! La spiaggia di Ein Gedi è a 400 mt. sotto il livello del mare. La temperatura è notevole, ma proprio per questo siamo partiti la mattina presto, e verso le 10,30 siamo già in partenza. Sono tante in questa zona le cose da vedere. Siti archeologici, luoghi sacri, parchi naturali. Ci fermiamo al parco vicino alla spiaggia (ha sempre il nome Ein Gedi), dove si paga l’ingresso, ci danno una cartina, e ci raccomandano di prendere acqua e di non restare oltre le due del pomeriggio. Il sentiero percorre il wadi David, uno stretto canyon con punti di un fitto verde, e si inerpica su per la catena montuosa che si rompe sul mar Morto, di colore giallo chiarissimo. E’ uno spettacolo molto bello. Si sale, vi sono diverse cascate, un punto è pieno di gente che fa il bagno (tutti israeliani). Continuiamo a salire fino all’ultima cascata, che scende da una roccia alta e ampia ad anfiteatro. La vegetazione e l’aria umida creano una sensazione stupenda, specie guardando tutto il deserto intorno. Ci sono tantissimi uccelli, anche piccoli rapaci, aquilotti, e si sente un bellissimo concerto. La carta dice che vi sono anche stambecchi, ma non si fanno vedere. Saliamo oltre la cascata. Siamo molto in alto. In fondo, il mare e in lontananza, nella foschia calda, le montagne della Giordania. Mi piacerebbe
proseguire, ma ormai le temperature avanzano, e sono già le 13. Bisogna
essere ben attrezzati per venire qui: scarpe da trek, scorta d’acqua,
cappello in testa, e comunque non si cammina più nelle ore pomeridiane.
Torniamo indietro. Ci aspetta Gerusalemme. Mangiamo da Khaled, facciamo
un giro tra i vicoli. Ci sono gruppi di turisti francesi. Meno male.
Speriamo che facciano anche acquisti! E’ stato bello. Ma anche duro. Ritorno passando i soliti check point. Dovrò abituarmici, ma per ora non ci riesco. La sola vista di una persona che mi scruta con un grosso fucile in mano, mi mette angoscia, panico, e non so cos’altro. E i palestinesi queste file devono farle ogni giorno, anche più volte al giorno. Mi sento male. Arrivo a casa, e ho conati di vomito. Non sopporto la sofferenza. Non la sopporto in nessuno. Anche se si tratta di “estranei”. Non sopporto le ingiustizie. In preda a uno stato d’animo orribile, mi addormento che sono le 19.30. Mi risveglio, vedo le news, e mi riaddormento. La mattina, il peggio è andato. Rivedo le facce
sorridenti di Ramallah. Andiamo avanti. Sono qui per questo. |
© Silvia Montevecchi