Gaber
Kidane
Via dall’Africa, con un sogno nel cassetto
Gaber
Kidane è il titolare del primo (e per ora unico) ristorante
africano a Bologna, in via Vasari, dove si mangia meraviglioso cus-cus e altri
cibi del Corno d’Africa, spesso conditi con musica dal vivo. Quando ci siamo
conosciuti, siamo diventati presto amici, e io poi allo scadere dei miei
40 anni, ho voluto fare da lui la mia festa. Non poteva esserci altro
locale in cui mi sentissi simbolicamente e affettivamente “rappresentata”.
Fu una bella festa, con amici venuti da mezza Italia, e Kidane ci curò con
l’attenzione che dedica sempre alle persone che gli fanno visita. Per
questo, è difficile restare solo clienti, ma si diventa amici. Questa è la
sua storia di vita bolognese. Per conoscere meglio il ristorante e il suo menù:
www.ristoranteafricano.it Questa
chiacchierata è avvenuta nel mese di marzo 2003. Silvia
Montevecchi: Caro Kidane, intorno a questo piatto meraviglioso (che io mangio
mentre tu ti risollevi da una giornata stressante parlandomi di te!) mi
racconti a ruota libera la tua vita, il tuo incontro con Bologna? Quando sei
arrivato, come, perché… Kidane:
Sono arrivato nel 1983 come borsista. Avevo vinto una borsa di studio, (messa
in palio in Eritrea da alcuni enti italiani), per cui era previsto che
studiassi 2 anni ad una scuola tecnica, come elettricista, e poi ritornassi
nel mio paese. Quando
sono arrivato, in realtà, il mio sogno nel cassetto era di diventare medico,
e così anziché iscrivermi ad una scuola tecnica… mi iscrissi a Medicina! A
quell’epoca l’Eritrea era ancora parte dell’Etiopia, quindi per noi il
problema politico era molto forte. E la borsa di studio fu anche un pretesto
per lasciare il mio paese. Arrivato
qui, l’impatto iniziale è stato durissimo. Soffrivo enormemente di
nostalgia. Non sapevo per niente l’italiano, io avevo fatto la scuola
inglese, quindi le relazioni erano difficilissime. (La scuola italiana era
diffusa in Eritrea ma era privata, per ricchi). All’università
incontrai un ragazzo che mi propose lo scambio delle lezioni: io facevo
inglese a lui, e lui italiano a me. E così, piano piano, ce l’ho fatta. Ho
cominciato a frequentare solo italiani e pochi eritrei. L’impatto con le
persone è stato ottimo, ho fatto presto a integrarmi. In
quegli anni vi erano già molti eritrei in città? Soprattutto
c’erano dei lavoratori, ma studenti molto pochi. L’ambiente
universitario mi piaceva molto. Erano tutti giovani, come me, ed erano
curiosi. Mi chiedevano tante cose, e questo mi aiutava molto. Non
hai mai trovato razzismo? No
assolutamente. Piuttosto, trovavo situazioni di difficoltà e di paura, ma non
razzismo. Per esempio, se cercavo di lavorare in nero, facevo più fatica a
trovarlo rispetto a miei amici bianchi, ma questo era per la paura della gente
a mettersi in questioni legali, venire scoperti ecc. Non era perché non
volessero farmi lavorare in quanto nero. Almeno io l’ho sempre percepito così. I
proprietari di casa poi, pensavano che noi neri avessimo meno soldi, e non
potevamo dare nessuna garanzia, a parte la nostra borsa di studio. Quindi nel
cercare una casa in affitto, mi facevano un sacco di domande, ma anche questo
non l’ho mai percepito come razzismo nei miei confronti. Solo come una
normale diffidenza economica. In
tutti questi anni, non ti sono quindi mai capitati episodi di discriminazione? No
mai. Magari quando ci sono situazioni di tensione, o una discussione con
qualcuno, in quei momenti può capitare che uno ti dice “sporco negro” ma
credo che questo sia normale, quando uno si incazza ti dice qualcosa per
ferirti, come dire “stronzo” o cose simili! Non mi sono mai sentito
discriminato, e non ho mai sentito che tra il nero e il bianco vi sia un
meglio o un peggio. Ognuno ha suo colore e basta! Insomma,
sei venuto qui per fare l’elettricista, e hai finito col
fare Medicina! Sì,
però poi naturalmente alla fine della borsa di studio, cioè dopo i due anni,
mi hanno tagliato i viveri! E così ho cominciato a darmi da fare, a lavorare
per restare qua. Ho trovato lavoro in un albergo in Alto
Adige, nell’alpe di Siusi. Il posto mi piacque moltissimo, si lavorava molto
ma la paga era ottima. Facevo l’aiuto cuoco. Rimanevo su in tutti i periodi
delle vacanze, Natale, estate, settimane bianche. Solo che così, lo studio
rallentò, e io non mi sentivo né carne né pesce. Né lavoratore né
studente. Mi sembrava di fare male entrambe le cose. Non ero mai tranquillo.
E’ stato così che un po’ alla volta ho deciso di continuare quel
mestiere. Mi sono laureato in Medicina, ma trovare lavoro come medico, in
quegli anni, era già difficile per gli italiani, figuriamoci per uno
straniero. C’era un’inflazione di laureati in Medicina. Entrare in
specialità era difficilissimo. Così, già mentre studiavo, ho realizzato che
dovevo fare qualcosa di diverso, che mi desse da vivere. Fu
con mia sorella che decidemmo di fare qualcosa insieme. Lei aveva davvero due
mani d’oro, e in cucina faceva cose meravigliose. Lavorava già come cuoca,
in un seminario. Allora le proposi di metterci insieme e aprire un locale.
Cogliemmo al balzo l’occasione dei Mondiali del ’90, pensando “è il
momento giusto, o la va o la spacca!”. Aprimmo il locale
in luglio, pensando che se non veniva nessuno, era un periodo tranquillo per
farci le ossa. …Ci siamo ritrovati strapieni di gente!!! Nel
giro di 2 anni riuscimmo a rendere il debito fatto per aprire. Lavoravamo
tantissimo. E’ stato davvero una grande soddisfazione. Come
avete fatto a cominciare, a farvi conoscere? Sai,
mentre studiavo, io lavoravo anche a Radio Città del Capo, insieme ad un
altro studente di Medicina eritreo. Due ore a settimana, facevamo musica e
cultura africana, davamo notizie che non davano le altre radio e televisioni.
Utilizzavamo la biblioteca dell’Università americana, la John Hopkins, che
aveva riviste da tutto il mondo. Lui parlava francese e io inglese, così
leggevamo riviste da tutta l’Africa, traducevamo moltissime cose, e poi le
portavamo in trasmissione. Si parlava di tantissimi argomenti, e all’epoca,
ero ben più informato di adesso, leggevo di continuo, una marea di cose. Il
programma era sia in italiano che in eritreo. Insomma, sei mesi prima di
aprire il ristorante, ho cominciato a fare pubblicità per Radio, e ho
continuato, a prezzi amichevoli, per alcuni anni. Così, praticamente tutti
gli ascoltatori di Radio Città del Capo erano miei clienti! Come
avevi cominciato a fare la Radio? Si
comincia sempre tramite amici. Una cosa tira l’altra. Andai alla sede della
radio insieme ad un amico studente, e poi la cosa mi piacque, e proponemmo la
trasmissione. Così cominciammo. Poi avviamo anche degli scambi con la Radio
Eritrea Libera. Fu molto bello. Ad
ogni modo, tornando al ristorante, la cosa più importante è sempre il “tam
tam”, il passaparola dei clienti, più che la pubblicità. Noi
siamo partiti con una buona qualità, e costi contenuti. La cosa che ti dà
soddisfazione e fiducia, è quando vedi i clienti che ritornano. Allora sai
che sono stati bene, e quindi ti senti ok. Così il lavoro diventa più
un piacere che un dovere. Tante persone che vengono qui, mi dicono che hanno
l’impressione di entrare in una casa, non in un posto dove mangiano e basta.
Sì.
E’ stato un incontro incredibile. Lei capitò a lavorare nel mio stesso
posto, ma era molto più giovane di me, era una ragazzina. …Ha
passato la sua vita con te! Eh
sì! Kidane,
parlami del rapporto tra Bologna e la tua terra, l’Eritrea. Io sono sempre
stata molto felice, vado letteralmente fiera del fatto che la mia città abbia
ospitato per tanti anni, per tutti gli anni della guerra tra l’Eritrea e
l’Etiopia, il meeting degli eritrei in esilio[1]. Sì,
per 17 anni. Bologna da noi è veramente conosciuta! E’ un punto di
riferimento per tutti gli eritrei, non dico in Italia, ma nel mondo. Qui,
durante il festival, arrivavano 30mila persone, da tutto il mondo!
E c’era un business incredibile in quel periodo. Gli eritrei poi,
sono spendaccioni, proprio come gli italiani! Non sono quelli che viaggiano
mettendosi il panino nello zaino! Quindi quando venivano qui spendevano
tranquillamente. Quando partecipai la prima volta,
nell’83, mi sembrava di essere a casa. Era un mare di teste nere, ovunque ti
giravi. E poi cibo eritreo, musica eritrea, e conferenze, riviste, tutto ! Era
davvero troppo bello! Poi
sai, gli eritrei non è che andassero in vacanza. Se si pensava a una vacanza
si pensava ad andare a casa, ma a quell’epoca ovviamente era impensabile.
Quindi “andare in vacanza” voleva dire venire qui, ritrovarsi a Bologna! Quando
nacque l’EPLF (Eritrean Populary Liberation Front), che era di estrema
sinistra (il suo idolo era l’Albania!), cercò contatti con un’altra città
che fosse anch’essa di sinistra, per proporre questo meeting internazionale
degli eritrei della diaspora. E immediatamente i leaders di allora pensarono a
Bologna. Fecero la proposta alla giunta comunale, che era comunista. Non
fecero richieste a nessun altra città nel mondo, solo a
Bologna. E la giunta accettò, anche perché gli immigrati eritrei in Italia
erano già moltissimi. L’EPLF voleva organizzare tutti questi esuli anche
per avere dei contributi economici, di cui aveva estremo bisogno. Questo è
stato lo scopo iniziale di fondo. Ma dopo gli incontri dei primi anni, la cosa
era già diventata molto importante. Il Comune di Bologna si impegnò a
sostenere questi incontri fornendo gratuitamente, come solidarietà con il
popolo eritreo, gli spazi, le tende necessarie per i campeggi, il servizio
rifiuti, gas, la corrente elettrica… Ricordo
bene quando il meeting fu alla Lunetta Gamberoni, un giardino pubblico proprio
vicino casa mia. Era bellissimo! Tutto il quartiere era letteralmente invaso
da macchine provenienti da tutta Europa, e tende piantate ovunque. Andai con
un amico africanista, e ci trovammo lì alla Lunetta, ad essere praticamente
gli unici bianchi! Era davvero bello. Mi manca ora una situazione del genere! Nel
1991, quando è finita la guerra, il governo ha fatto un errore nel chiudere
questi meeting. Ha stabilito, nell’euforia del momento, con la conquista
dell’indipendenza, di fare il festival in Eritrea stessa. Tutti pensavano
che era bellissimo poter festeggiare finalmente a casa propria, e non dover
essere costretti a ritrovarsi all’estero. Però poi si sono pentiti di
questa scelta. Figurati che ora questo festival, che si fa tutte le estati, è
chiamato “Festival Bologna”. E c’è anche un ristorante, ad Asmara, che
si chiama Bologna! Il
Festival, in teoria, durava 15 giorni, ma in pratica tutto il mese di agosto.
Non c’è nessun eritreo che non conosca in qualche modo questa città.
Direttamente o indirettamente. Alla
comunità eritrea, al partito, fruttava moltissimo economicamente, per questo
si sono resi conto che è stato un grosso errore eliminarlo. Non è la stessa
cosa fatto in patria. Quando se ne sono resi conto, era
troppo tardi. Sono
ancora molti gli eritrei qui, o sono di più quelli che con l’indipendenza
sono tornati a casa? Io
ho sentito il desiderio di tornare, ma sai, è molto difficile. Non sai come
va, con un governo così giovane. E poi, ti ritrovi a vivere senza luce, senza
gas, dopo anni che ti sei abituato bene… Quando vivevo ad Asmara, mi
sembrava bellissima, una città grande, con tutte le comodità possibili! Poi,
quando vai altrove e vedi altre cose… Parlami
della comunità che vive ora a Bologna, della vostra organizzazione. Grazie Kidane! Si impara sempre tanto “ascoltando storie”. Ci si rivede per il prossimo cous-cous! [1] Si veda su questo il bel libro “Bologna. Testimonianze di lotta degli eritrei esuli in Europa.Per non dimenticare”. A cura di Agostino Tabacco, edizioni Punto Rosso, Milano, 2001. Pag. 328, euro 15.50.
©SilviaMontevecchi
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