TRA UN
HANDICAP E L’ALTRO… MODELLI
E MUTAMENTI DI UN’IMMAGINE Intervista
ad Andrea Pancaldi, della rivista ACCAPARLANTE Incontro
Andrea (che è giornalista, sposato, papà di 3 creature) tra gli scaffali del
Centro Documentazione Handicap, di Bologna. E’ l’autunno del 2002. Silvia
Montevecchi: Andrea, tu lavori da tantissimi anni nell'ambito dell'handicap. Mi
piacerebbe che mi raccontassi un po' la tua storia legata alla città, al tuo
lavoro, alle tue esperienze, e quindi anche a come è evoluta negli anni
l'immagine, la concezione dell'handicap, e come di conseguenza sono cambiati i
servizi per i disabili. Andrea Pancaldi: Non so da dove cominciare. Comincio dagli albori? Ma sì,
comincia dagli albori! Io sono
capitato al GAVCI, a fare il servizio civile nel 1981 circa: era un gruppo di
obiettori di coscienza che faceva riferimento ad un prete dehoniano, p. Angelo
Lavagna, molto conosciuto in ambito pacifista. Il mio esordio nei servizi
sociali era però stato già nel 1974, con un compagno di scuola che già al
liceo faceva volontariato alla Croce Rossa. Cominciai anch'io a fare
volontariato e mi misero in un centro di riabilitazione. Ero in quarta liceo,
andavo circa due pomeriggi la settimana e facevo attività in piscina. Adesso
sarebbe un po' un crimine pensare di far fare attività del genere a gente non
professionale, non del mestiere, ma allora funzionava così. Del resto, anche le
stesse utenze avevano nomi e diagnosi completamente diverse da oggi, alcuni
anche piuttosto strani. Quelli comunque sono stati i miei inizi. Era un'attività
che mi piaceva molto, mi prendeva. Dopo circa un anno mi chiesero un maggiore
coinvolgimento perché un responsabile era andato via, e io diedi la mia
disponibilità. Venne poi l'anno del terremoto in Friuli e io feci anche
quell'esperienza come volontario. Finito liceo mi iscrissi alla facoltà di
Agraria. Io amavo la montagna e pensavo che poi avrei fatto scienze forestali.
Mi immaginavo a lavorare nei boschi! Poi però mi resi conto che Agraria non mi
interessava, e la lasciai dopo tre esami. Non c'era feeling tra me e Agraria!
Pensai invece a quel punto che potevo fare il terapista della riabilitazione,
così l'anno successivo feci la selezione e mi accettarono. Eravamo nel 1977. A
quell'epoca vi erano molte lezioni di psicologia e sociologia e meno erano le
ore in reparto. A me quell'approccio piaceva moltissimo e per il lavoro che
faccio adesso è stata una fortuna avere quella base formativa. Rispetto
all'handicap non ho fatto un percorso solo sociale, e per me è stato un po' un
errore l'accento troppo sul sociale che è stato dato per molti anni ai problemi
delle handicap. Lo slogan di allora era infatti "l' handicap è un problema
sociale non privato". Questo è vero naturalmente, però resta comunque
anche il problema sanitario e quindi è un bene avere anche una formazione
sanitaria. Non si può non tener conto degli aspetti sanitari che poi investono
tutta la questione dell'apprendimento, della percezione di sé, delle
relazioni... quindi per me è stata una fortuna questa formazione così
trasversale, su entrambi gli aspetti. Finita la
scuola come terapista e tramite il centro in cui avevo continuato a fare
volontariato, avevo conosciuto persone sia del Giovanni XXIII sia dell'Aias. Ci
incontravamo ogni domenica quando portavo un ragazzo disabile con cui lavoravo
alle partite di basket al palazzo lo sport (devo riconoscere che in questo non
ero del tutto disinteressato, perché mi piaceva vedere le partite! ). Fui
invitato a fare le vacanze al mare, e lì conobbi un ragazzo che faceva il
servizio civile all'Aias. Fu lui a mettermi la pulce nell'orecchio. Da lì
conobbi il Gavci e decisi di fare l’obiettore di coscienza. Allora
era ancora una cosa piuttosto difficile. Beh sì,
durava venti mesi, ma per me fu una goduria! Uno dei periodi più belli della
mia vita. Avrebbe potuto continuare ad oltranza! Io non
facevo attività politiche quindi non ebbi difficoltà o conseguenze penali. Il Gavci
però non gestiva direttamente i progetti ma prestava gli obiettori ad altre
organizzazioni o enti, un po' come la Caritas o l'Arci. E io decisi di andare
all'Aias. E lì
quindi è cominciata la tua carriera... Sì,
quella fu la parte propedeutica. È cominciato un periodo di apertura a
360 gradi potrei dire. All'epoca la sede era in via delle Tovaglie, proprio
dov'era anche l'Anffas, la cugina-rivale. Erano considerate l'una più bianca
l'altra rossa... queste categorie per fortuna sono destinate a stemperarsi nel
tempo. Il
servizio civile si divideva quindi fra Aias e Gavci. Una cosa divertente del
Gavci era l'atmosfera da " ora et labora ". La mattina si gestivano
gli animali da cortile, il pomeriggio si studiavano trattati sociopolitici. Una
palla incredibile! Però era affascinante, sembrava un po' di essere a Barbiana.
Vi erano circa 50-60 persone, e poi vi era il gruppo donne, ex obiettori che
continuavano a frequentare... un bel clima insomma, una sede scalcagnata,...
ogni tanto si andava alla Loc (la Lega Obiettori di Coscienza), che era un po' là
dependance più di sinistra del settore, in un ex-negozio di macelleria,
in via Broccaindosso, con una fiochissima lampadina... Sembrava
un posto da carbonari! Si facevano belle riunioni con personaggi interessanti
come Davide Melodia, del Movimento Nonviolento, Vittoria Pallotti, del MIR ... e
poi si era sempre gli stessi! Tante sigle, 15 persone! Però era bello conoscere
tutti questi giri. C'erano quelli di Casalecchio, che facevano teatro, come
Paolo Predieri, don Arrigo Chieregatti, e poi tante ramificazioni... quelli che
lavoravano in carcere, e tanti altri giri bolognesi. Fu proprio l'ABC per me, e
si prendeva anche la minima paga mensile. Insomma non era male davvero! Alla fine
del servizio civile cominciammo a fare la biblioteca per l'handicap. Era
un periodo di boom nei servizi per l'handicap. Io allora rimasi a lavorare anche
dopo il servizio civile. Mi occupavo della biblioteca e quindi ero diventato
utile al progetto, poi dopo utile divenni “indispensabile”... e così via! Quindi
non hai mai lavorato come terapista? Sì, per
sei mesi, a San Pietro in Casale, prima del servizio civile, in un centro per
anziani soprattutto affetti da emiplegia. A
me del resto non interessava fare il terapista, mi interessavano di più le
questioni sociali e culturali relative all'handicap. Sono
quindi rimasto all'Aias per il “Centro documentazione handicap”, che nel '96
è diventato autonomo. Nel frattempo aveva cambiato varie sedi: era stato in via
San Mamolo, poi alla Lunetta Gamberini, e dal '96 siamo qui. Parlami
dell'attività del Centro, crescita, sviluppi, nascita della rivista,... La
biblioteca dell'Aias cominciò grazie ad un lascito, che durò qualche anno.
Anche lì cominciò con un'atmosfera tipo Barbiana: tutti facevano tutto.
C'erano i momenti per la lettura dei quotidiani, il giorno prefissato per la
catalogazione dei libri, il mercoledì c'era la riunione fissa... poi via via
l'attività è cresciuta e si sono differenziati i compiti: nel '83 uscì il
primo numero di Accaparlante. Ma come
sono cambiati, come sono evoluti in quegli anni, i modi di lavorare con
l'handicap, in generale nel contesto cittadino? L'aias, a
differenza dell'Anffas, non aveva professionalità interne, ed era restia ad
assumere servizi per conto degli enti pubblici. L'Anffas aveva già negli anni
‘80 molti educatori, pedagogisti e psicologi, al proprio interno. L'Aias era
più volontaristica. La presidente Enrica Lenzi diede nuovo impulso, più
professionale, all'Aias, decise quindi di prendere dei dipendenti e di avviare
il centro documentazione. Quello
della documentazione è un lavoro molto faticoso, che non viene riconosciuto
molto spesso. Noi adesso siamo in una posizione di autonomia, siamo datori di
lavoro di noi stessi, e non dobbiamo dimostrare nessuno se la documentazione
serve o no; ma questo spesso avviene, in altre situazioni che conosciamo. Spesso
è faticoso dimostrare a chi detiene le leve decisionali che la documentazione
serve. Sono percorsi lenti, lunghi,
a volte sotterranei. La
documentazione non è solo “avere dei libri”, ma è soprattutto un lavoro di
relazioni da intessere e tenere nel tempo; per esempio il nostro lavoro è fatto
in gran parte di relazioni con le biblioteche, con le associazioni di
informazione, con altri centri documentazione nel paese,... quindi spesso viene
messa in dubbio l'utilità di un centro di documentazione. Come vi
finanziate, e come è avvenuta la separazione? L'autonomia
dall'Aias è avvenuta in modo consensuale. Un tempo non vi erano problemi a
rinnovare anche solo con una telefonata i finanziamenti con l'unità sanitaria
locale. I problemi sono cominciati con l'aziendalizzazione delle unità
sanitarie e con l'arrivo del primo manager. E' cambiata la musica! Poi c'è
stato anche il grosso crac della Spep Coop, di Sasso marconi, e lì il
presidente si prese paura, cominciò a pensare e a temere eventuali tagli della
spesa pubblica, che in effetti poi ci sono stati. È quindi cominciata una fase
di riassestamento fra pubblico e privato. Noi del centro ci siamo riconosciuti
nelle leggi relative al terzo settore, mentre la presidenza non vi si
riconosceva. Avevamo insomma modelli diversi. In un periodo di paura
dell’affogamento, si è deciso di prendere ciascuno la propria scialuppa e
seguire la propria rotta. L'Aias ha fatto riferimento al Movi e Fivol, di
Luciano Tavazza. Noi ci siamo costituiti in associazione autonoma, l'Aias ci ha
aiutati molto, ci ha dato una sede, molti materiali e strumenti. Soprattutto ci
ha garantito una serie di convenzioni e di pagamenti per il primo anno. Certo
questo a noi è costato economicamente, perché passando dall'Aias al CDH
abbiamo avuto lo stipendio dimezzato! Però poi siamo tornati ai bilanci che
avevamo prima, circa 3-400 milioni l’anno che girano, e nove persone che ci
lavorano. Ci
occupiamo di documentazione, informazione e formazione sull' handicap. Abbiamo
quindi molti progetti e per fortuna sono tutti progetti che durano il tempo, ne
abbiamo alcuni ventennali. La
biblioteca che abbiamo è la più grossa a livello nazionale specificamente
sull'handicap. Al suo interno vi sono sezioni sulle politiche sociali, sul terzo
settore e volontariato, minori. La nostra fortuna è stata quella di cominciare
con molto anticipo. La documentazione nel campo sociale, in realtà si sta
diffondendo solo di recente. Quindi noi siamo stati fortunati a partire prima di
altri, cioè…un po' fortunati e
un po' bravi! Ora il problema non è tanto recuperare le informazioni, perché
anzi con Internet le informazioni sono tantissime. Il problema è soprattutto
selezionare e contestualizzare le informazioni. Per questo ci occupiamo molto
dei canali di entrata, che vuol dire contatti, rapporti con case editrici, con
giornalisti... organizzando su questo anche momenti di studio e convegni. Per
esempio nel '96 il convegno sulle riviste dal titolo "Handicap di
carta". Il catalogo del centro viene costantemente aggiornato, e per sei
anni abbiamo fatto la rivista “Rassegna stampa handicap”. Per quanto
riguarda l'informazione, in passato abbiamo pubblicato e lavorato molto con la
Comunità di Capodarco e il Gruppo Abele. Pubblichiamo la rivisita Accaparlante,
che ha più un taglio informativo monografico, e poi ora con i siti Web si fa
informazione anche via Internet. In campo
formativo abbiamo un gruppo che si occupa soprattutto delle questioni
relazionali, riabilitative. Per esempio il rapporto con le famiglie, le
relazioni d'aiuto, la sessualità legata all'handicap, l'aggressività,... tutta
una serie di temi generalmente poco affrontati. La
formazione si rivolge a operatori del settore e volontari. Tornando
al quadro dei servizi generali della città, l'Aias è poi diventata una realtà
molto grossa, con un bilancio in lire di circa 3 miliardi, più di 100
dipendenti. Adesso, un po' per necessità un po' per virtù, si è molto
ridotta. Ha perso diverse convenzioni per via della concorrenza delle
cooperative sociali, che hanno un contratto molto meno oneroso per gli enti
pubblici. L'Aias si è anche specializzata in ambiti precisi: oltre centro
documentazione anche la riabilitazione equestre, l'ausilioteca, il gioco e i
giocattoli per bambini disabili, ecc. Io credo
che anche se il lavoro dell'Aias è meno conosciuto rispetto a quello dell'Anffas,
abbia avuto il pregio di fare da cerniera tra due epoche: quella dello sviluppo
dei servizi sociali e territoriali materno infantili, e quella più riferita
all' handicap adulto, con l'entrata in scena delle associazioni, l'emergere
dell'informazione, del problema delle barriere architettoniche, quindi in
generale un po' il declino dell'approccio politico. Secondo me l'aias ha saldato
un po' queste due epoche, e anche questa per noi è una fortuna nel senso che
come centro documentazione non siamo solo nati in quest'epoca di autonomia ma
abbiamo anche memoria dell' handicap modello laboratori protetti, camice blu,
ecc... Rispetto
alla percezione che ho dei servizi, su cui non sono mai d'accordo con
molte analisi di altre persone, come per esempio Andrea Canevaro con cui
ho discusso molte volte, secondo me c'è stata un po' una cesura tra i servizi
per l'infanzia e l'handicap adulto. Se vi è molto collegamento nei servizi per
l'infanzia tra scuola e territorio, spesso non si prevede che poi quei bambini
diventano adulti, manca la dimensione del futuro. Vi è stata quindi come una
frattura tra gli interessi culturali riportati verso i bambini e l'attenzione
riportata verso le persone disabili adulte. Bologna poi a mio avviso è stata più
connotata da interesse verso l’handicap psichico e intellettivo, che non
fisico. Questo forse anche perché l'Aias stava un po' più nel proprio orto
rispetto all'Anffas, che si occupava di handicap psichico, e che si spendeva
molto di più nei servizi e nella sensibilizzazione rispetto alla presa in
carico sociale dell'handicap. Successivamente sono poi nate a Bologna altre
associazioni che si sono occupate di handicap fisico. Un tempo i servizi
pubblici erano più proiettati a gestire in proprio. Col tempo sono stati sempre
più delegati all'esterno. Quindi il rapporto pubblico-privato è cambiato nel
tempo. Negli anni
'80 sono emerse tante nuove realtà e tante nuove tematiche: le
tossicodipendenze, l'immigrazione, i problemi del debito pubblico... quindi la
fase propulsiva dell'handicap è finita ed è finito anche quello che era il
sogno bolognese, per il quale venivano a farci visita da tutta Europa. Anche
nell'area politica l'impegno su questi fronti era stranamente diminuito, si era
chiusa una stagione. Ad ogni modo, penso senz'altro che un'esperienza come la
nostra non potesse nascere che a Bologna, per quello che era stato l'humus
dell'epoca. La
vostra rimane in ogni caso la biblioteca più grossa in Italia su questo
settore. Si. Gli
altri centri sono più piccoli, ma oggi se ne contano molti specie qui in
Emilia-Romagna. All'inizio degli anni 90 è nata una rete dei centri
documentazione handicap, promossa anche da Andrea Canevaro, il quale aveva
risentito molto della chiusura di un'altra sua creatura: l'Irpa, Istituto
regionale per l'apprendimento. Andrea è stato bravo in questo, ha capito che le
dinamiche relative all'informazione e documentazione avrebbero permesso di
spendere su un terreno diverso tutta una serie di competenze e interessi
sull'handicap che altrimenti sarebbero andati in decadimento. Così soprattutto
a cura di assessorati all'istruzione, si sono costituiti vari centri, con la
collaborazione in gran parte di pedagogiste specialiste nell'handicap. Vi è
quindi questa rete che potremmo definire " handicappata" nel senso che
essendoci molte persone di enti locali e del mondo della scuola, hanno sempre
fatto una grande fatica nell'ambito dell'informazione, mentre erano più portate
per le questioni formative e documentative. In generale il rapporto tra scuola e
informazione non è mai stato molto forte. Quindi la rete, che pure esiste da
tanti anni, non ha iniziative informative, non dà notizie di sé. Diverso è il
caso per quanto riguarda la rete sulle tossicodipendenze, nata da persone più
giovani e non di estrazione scolastica. E’ un gruppo che fa meno fatica a
muoversi sulle questioni informative a organizzare convegni, un sito Internet,
un notiziario, ecc. tutte queste cose la rete dei centri documentazione e
handicap non le ha, neppure dopo tanti anni di vita. Comunque va avanti. Come
vedi adesso la gestione dell'handicap, dei servizi, dopo che tanto è stato dato
alle mani delle cooperative? Secondo me
non c'è un quadro chiaro, se prima c'era. Adesso il comune non gestisce quasi
più nulla direttamente ed è una fase di ristrutturazione grossa. Non si sa se
si farà una grossa ASL o meno, se si farà un consorzio tra aziende sanitarie
comuni per avere la gestione dei servizi all' handicap. C'è stato un ritiro del
comune della delega all'Usl per i minori, quindi anche lì c'è un grande
casino... è un periodo di grossi cambiamenti. Le associazioni perdono sempre di
più i servizi che sono tenuti dalle cooperative. Le più grosse attualmente
sono Cadiai, Nuova Sanità, Dolce. Non mi pare neppure che le dinamiche del
terzo settore a Bologna abbiano inciso particolarmente. Non conosco molto la
qualità dei servizi forniti, perché da molto tempo non ci sono più dentro. In
ogni caso, da ciò che si legge e si sente, mi pare che comunque a Bologna siamo
sempre in un'isola felice. Ci sono ancora tanti disabili e famiglie di disabili
di altre regioni che vorrebbero trasferirsi a Bologna perché pensano che qui
potrebbero avere più opportunità, specie se provenienti dal sud. Il
ventaglio è sempre molto articolato. Attualmente abbiamo appena finito di fare
una guida sulle risorse del comune per l'handicap e in effetti abbiamo trovato
più di 250 punti tra servizi, risorse, opportunità fornite: per lo sport, la
cultura, i servizi vacanze, l'arte, il teatro, l'accesso ai siti internet,
l'accesso alle biblioteche, ... per le persone disabili. Tutto questo è molto
interessante. Certo i problemi sono molti, specie per quanto riguarda le
barriere architettoniche. Rispetto
alle biblioteche e centri documentazione accessibili ai disabili, devo dire che
adesso noi cominciamo a raccogliere i frutti di un lavoro di vent'anni . Infatti
molti enti pubblici ci chiamano per consulenze da diverse parti d'Italia.
Inoltre viene molto più valutato in generale il lavoro di documentazione
e la fornitura di materiale a distanza. Questi sono servizi che oggi si
fanno pagare perché vengono riconosciuti, mentre un tempo poteva chiamare
chiunque, da ogni parte d'Italia, chiedere una marea di materiale, fotocopie,
ecc. e tu perdevi un sacco di tempo senza nessun ricavo economico. Quali
sono le sezioni del vostro centro documentazione? All'interno
dell'handicap abbiamo un po' di tutto (tranne la parte strettamente clinica) :
scuola, mobilità, integrazione sociale...
La frequentazione fisica non è molto alta. L'80% del pubblico è dato da
studenti. Ma l'aspetto più importante non è la presenza fisica degli iscritti,
che ora sono circa 4000, ma i contatti delle persone con le varie attività del
centro. In questo senso noi abbiamo
circa 200 contatti al giorno. Quindi bisogna distinguere la concezione classica
della biblioteca, ed una rete di rapporti e contatti. Generalmente la gente
ancora non concepisce il centro documentazione in questo senso, cioè come rete
di contatti ma come presenza fisica. Stiamo quindi cercando proprio di dare
un'informazione per spiegare la differenza tra questi due poli opposti nella
concezione di una centro documentazione. Del resto si usa sempre di più dire
proprio document/azione, nel senso che non c'è “documenta” senza
“azione”, e viceversa. Molto importante da questo punto di vista il Centro
risorse-handicap del comune di Bologna, che noi gestiamo ormai due anni. Al
Centro risorse c'è un Informa-handicap che consiste di uno sportello aperto al
pubblico per dare qualunque tipo di informazione sul tema dell'handicap. Abbiamo
poi una mailing-list con circa 200 iscritti ai quali mandiamo circa 60 notizie
tutti mesi, locali e nazionali, su tanti aspetti diversi, e molte associazioni
sia nazionali che internazionali si rivolgono a noi per avere questo tipo di
notizie. E’ quindi molto difficile per noi capire quale sia il giro effettivo
del nostro lavoro, perché in realtà abbiamo l'impressione che coloro che
beneficiano del nostro lavoro siano molti di più di quelli che conosciamo
realmente. Da noi naturalmente arrivano tantissime notizie ogni giorno e quindi
facciamo proprio il lavoro dell'agenzia di informazione, con otto persone che
lavorano part-time solo su questo più altre come consulenti. Fortunatamente
vediamo che in tanti settori diversi di enti pubblici c'è molta attenzione e
molto più curiosità verso l'handicap rispetto a una volta, e quindi si
rivolgono a noi molte persone che un tempo non avremmo immaginato, da
assessorati, dall'INPS, ecc. La
sensibilità è cambiata, è raro che ci siano episodi di discriminazione verso
l' handicap, anche se certo vivere l'handicap
è faticoso. Per questo, io non sono completamente d'accordo con la concezione
che considera l'handicap come un problema sociale. L'handicap è in gran parte
un problema privato che si svolge in famiglia, e che crea grandi disagi.
Addirittura a volte è apparsa la scritta " handicap è bello ",
oppure il discorso della "diversa abilità". Sono cose condivido solo
in parte: è vero che "disabili" è una connotazione solamente
negativa, ma anche "diversamente
abili " non è sempre vero. A volte si è completamente disabili e basta,
non diversamente-abili. D'altronde
questa dinamica delle parole c'è da molti anni, e secondo sono tutte un po'
delle coperte corte. Ma è anche giusto che vi sia questa dinamica,
questa ricerca di senso attraverso le parole, senza pensare che diventino
religioni.
©SilviaMontevecchi |