…La foresta
primigenia, come un rito iniziatico
Patrizio
Roversi racconta Bologna. Intervista
di Silvia Montevecchi raccolta nell'estate 2002. E’ un personaggio noto al grande pubblico,
dunque non vi è granché da presentare. Il successo maggiore, sempre in
associazione alla moglie Maurizia, in arte Siusi Blady, è probabilmente
“Turisti per caso” che a mio avviso è un programma di una grande
bolognesità, nel tipo di ironia e di analisi
socio-politiche. Li vediamo poi in “Velisti per caso”,
ma anche … nelle pubblicità di un famoso detersivo! L’intervista avviene nella sede del loro
programma, in particolare nello “studiolo” di Velisti, che è
abbarbicato su una mansarda del centro città. Patrizio parla veloce
come un treno. Abituato al microfono, tiene in mano il mio registratorino, e io mi ritrovo a ridere anche mentre lo “sbobino”. E’ una persona molto gentile, di una grande disponibilità. Giusto un consiglio per gli acquisti: ha firmato lui la prefazione al mio libro “Realizzare i sogni. Storie di donne e uomini felici” (Unicopli, 2002). Silvia
Montevecchi: Patrizio, tu sei un bolognese di adozione. Com'è stato il
tuo incontro con la città, a quando risale? Perché hai deciso di
stabilirti qui? Patrizio Roversi: Guarda, per me Bologna è stato un amore sognato prima che
consumato. Io sono nato a Mantova, in questa bellissima cittadina di
provincia, dove in teoria si stava molto bene, ma in realtà un
adolescente secondo me ci stava molto male! O almeno, io. Perché certo
è molto bella, ma è una città anche molto chiusa, che almeno a me, 30
anni fa, non dava prospettive. Forse adesso è cambiata, non lo so. Sai
come sono le città piccole: tutto è molto protetto, ma è anche tutto
molto predeterminato. Ognuno ha un ruolo
sociale, è un personaggio, che recita, come in una commedia. Io almeno,
avevo la sensazione di avere un ruolo calato addosso, e doverlo poi
giocare tale e quale per tutta la vita. Ti ritrovi un giro di amicizie
ben preciso, un ambito preciso in cui muoverti e sei "collocato". Non
sei mai "un mistero" per i tuoi concittadini, sei sempre qualcosa di
definito, "quella cosa lì". Bologna
quindi mi stimolava, anche se non c'ero mai stato. Era
"il luogo degli universitari". Un luogo di crescita. Mi faceva pensare
alla foresta, in cui ogni giovane della tribù
deve andare, per subire l'iniziazione! Ecco, per me
Bologna era l'iniziazione. All'epoca era abbastanza bravo a scuola,
addirittura feci due anni in uno, stimolato da questa voglia di
andarmene! Mentre frequentavo la 2° liceo
classico studiavo le materie del 3° anno per dare l'esame da
privatista, e venirmene a Bologna prima possibile. Feci la maturità nel
1972. S.M.: quindi
era un bel periodo, anni caldi… P.R.: beh
sì, dipende. A Mantova il '68 si era sentito si e no. Certo il mito
bolognese era molto forte. Io avevo accarezzato l'idea di iscrivermi a
Lingue Orientali a Napoli o a Venezia, ma poi parlando sul lago di
Mantova con un amico, seppi che si era liberato un posto in un
appartamento di studenti a Bologna, e così dissi "va bene, vengo a
Bologna!". Perché in fondo il sogno era la città. Sì, mi interessava la
facoltà di Lingue Orientali, ma preferivo Bologna a Venezia, e così mi
iscrissi al Dams, ma fondamentalmente mi iscrissi a Bologna! Ricordo
perfettamente il giorno del mio arrivo. Era un giorno d'agosto, nel
'72, in giro non c'era un'anima! Venni 15 giorni dopo aver saputo i risultati della
maturità. Quell'appartamento mi sembrò meraviglioso. In realtà credo
che fosse di squallore totale! C'era un compagno di casa siciliano, che
è tutt'ora il mio migliore amico. Insomma,
Bologna è stato proprio un grande sogno. E non mi ha affatto deluso nel
tempo. La Bologna del '72-73 era una città con un tessuto sociale
estremamente flessibile e fecondo. Era davvero facile inserirsi, da
tutti i punti di vista. Sul piano universitario, il Dams allora aveva
circa 600 iscritti (io ero la matricola 609). Era un paradiso! I
luminari nel campo dell'arte e dello spettacolo insegnavano a 5-6
studenti alla volta, quindi era estremamente bello, coinvolgente,
entusiasmante. Poi era possibile concretizzare immediatamente le cose
che avevi in testa, lavorando. Io diventai
subito animatore teatrale all'interno di una compagnia bolognese, che
era il Teatro Evento. Immediatamente, grazie a Teatro Evento, trovai
lavoro nell'Arci, e cominciai a lavorare nelle colonie estive del
Comune. Insomma, lavoravo già prima di cominciare a fare gli esami! Usavo tecniche di animazione teatrale, per
insegnare ai bambini a fare teatro. Siusi insegnava cinema nella stessa
colonia, e così… S.M. …e galeotta fu la colonia…! P.R. esatto! Dopo aver
fatto gli animatori, Siusi ed io abbiamo cominciato a fare Teatro per
ragazzi. C'erano molti quartieri che promuovevano una serie di
attività, il Comune era estremamente recettivo nei confronti di nuove
idee culturali e coinvolgeva nuovi operatori. Così lavorammo subito, e
molto. Poi vi era un tessuto sociale che ti contestualizzava, in
termini generazionali, professionali, culturali, politici. Il
nostro approccio fondamentale fu attraverso l'Arci con il circolo
Cesare Pavese, di via del Pratello. Io, Siusi ed altri avevamo maturato
alcune idee da proporre, e al circolo ci accolsero schierati gli
"anziani" del consiglio direttivo, che erano
davvero "i babbi" e ci trattarono come tali. Insomma chiedendoci se
eravamo seri o cretini, e noi dimostrammo di essere seri! "Noi vi diamo
tutto quello che volete, ma voi dovete essere responsabili. Fare
attività che funzionino, pagarvi le bollette, perché non è che ve le
paghiamo noi..". Con questo atteggiamento
"burbero", ti costringevano ad assumerti le responsabilità, non erano
paternalisti e in realtà ti davano tutto. Ti davano un posto, un
ambiente, un contesto… S.M. Il
massimo che può cercare un giovane! P.R. Sì. Una
disponibilità, uno spazio, nel quale nessuno ti diceva cosa dovevi fare
ma dovevi saperlo tu. Erano ospitanti perfetti. Il Pavese era un
contesto con una sua personalità, dove noi abbiamo cercato di affermare
la nostra. Per 4 anni abbiamo fatto il Gran Pavese Varietà, il primo
anno 4 giorni a settimana, e negli altri 3 “i
babbi” facevano il liscio, nella stessa sala "doremi". C'era una
grande commistione tra pubblici diversi, generazioni diverse, livelli
sociali diversi. Al Gran Pavese venivano i miei amici che già
cominciavano a fare i magistrati, e venivano quelli che loro avevano
processato il giorno prima! C'era davvero di tutto, perché questo era
Bologna. Una grande duttilità, una convivenza di culture diverse che
tra loro avevano dei rapporti. Un altro esempio pazzesco secondo me,
tra i circoli Arci, era il circolo Spartaco: una costruzione a quattro
piani in cui tu trovavi il mondo! Al piano
terra gli anziani che giocavano a bigliardo o a carte, al primo piano
una bellissima sala per il liscio, al secondo piano gli immigrati che
facevano le feste, al terzo piano i poeti d'avanguardia che leggevano
cose incomprensibili,… insomma c'erano davvero tutti, che convivevano
nella stessa struttura, dividevano gli stessi spazi, prendevano il
caffè nello stesso bar. E c'era una contiguità generazionale, sociale
che secondo me era il segreto di una società ricca di comunicazione. S.M. Quali
sono i cambiamenti maggiori che hai visto in questa città? P.R. Mah,
sai, per me già è difficile capire i cambiamenti che sono avvenuti in
me! Ancora più difficile mi è capire quelli fuori. Diciamo che fino
all'84 ho vissuto principalmente di notte. Andavo a letto alle 5 del
mattino, lavorando al Pavese. Ero informato su tutto quello che
succedeva. Inoltre Siusi nel 75-76 aveva gestito un locale per sole
donne che sia chiamava La Tregenda. La parentesi del '77 per me fu
molto dura, e io la vissi estraniandomi dai casini della città. MI feci
venire un'influenza per cui rimasi a letto 20 giorni con la febbre! Era
chiaramente una malattia psicosomatica, perché io non ho aderito al
Movimento, non accettavo determinate forme antagoniste di quel
movimento. Io il Parmigiano l'ho sempre pagato, non l'ho mai
espropriato. Non lo so perché, per moralismo di centro-destra forse,
non lo so, ma mi dava fastidio quel tipo di rabbia, che avevano alcuni,
che si sentivano marginali. Io non mi sono mai sentito marginale in
questa città. L'Autonomia, quindi non l'ho mai vissuta, anche se ho
vissuto da vicino, con amici e conoscenti tutto il lavorio
intellettuale, culturale, mentale, che il '77 ha provocato. SI posero
allora le basi per il movimento del "demenziale", con gli Skiantos, che
poi è diventato demente…! Sai, nel '68
io avevo 14 anni. I sessantottini sono i miei fratelli maggiori, che
fondamental-mente non ho mai sopportato, e tuttora non sopporto! …hanno
fatto tutto loro… Il
demenziale che a Bologna ha preso piede, grazie
a Freak Antony e a tutti gli altri, in parte anche grazie a noi di Gran
Pavese, era una risposta ironica all'ideologia imperante del '68. Non era affatto disimpegno, ma era il rovesciamento
ideologico di determinate parole d'ordine e imperativi categorici.
Anche in termini umani e personali, era veramente il trionfo
dell'ironia, rispetto ad una seriosità insopportabile di molti
sessantottini (e che hanno mantenuto). Insomma,
Bologna era un po' in prima fila, recettiva e flessibile. Noi poi siamo
andati un po' in giro, anche a Roma. Nell'84 abbiamo cominciato a
lavorare in RAI e per un po' il mio obiettivo era fare delle cose il
cui referente era Roma. S.M. Infatti
questa era una delle domande. Avete vissuto a Roma. Non avete mai
pensato o sentito la necessità di trasferirvi stabilmente? P.R. I
referenti erano a Roma, ma tutto ciò che noi costruivamo, in termini
diciamo "creativi" nasceva comunque a Bologna. Per esempio: una serie
di trasmissioni che noi abbiamo fatto a Roma, come "Se rinasco" o "Politistroyka" che erano spettacoli di gioco collettivo, li abbiamo
fatti con le Coop e le Feste dell'Unità in giro per Bologna e l'Emilia
Romagna, per anni, e poi l'elaborazione trovava successivamente uno
sfogo in RAI. Quindi le radici e i rapporti con Bologna erano
strettissimi. Abbiamo abitato a Roma, ma sempre come pendolari. La
necessità di viverci stabilmente sì, l'abbiamo sentita. E abbiamo anche
provato, soprattutto dopo la nascita di Zoe, nel '97-98, ma non ci è
piaciuto. E' una città estremamente dispersiva,
difficile da vivere, dove ci siamo sentiti snaturati perché sentiamo la
nostra natura legata a Bologna. Anche adesso, ci ostiniamo
a lavorare qui. Con una fatica enorme, di carattere economico,
organizzativo, produttivo. Fare una trasmissione a Roma è mille volte
più facile, perché trovi le collaborazioni, le professionalità, perché
gli ospiti sono lì, … mentre qui ci siamo inventati questo studiolo, ma
certamente è un gesto eroico stare a Bologna a fare certi mestieri! Anche se gli
enti locali ci hanno provato, non sono riusciti a creare un contesto
adatto. E' difficile. Però, noi ci ostiniamo! Non per orgoglio
campanilistico, ma perché .. insomma, il contesto è tutto. Io non credo
a quello che si mette lì e scrive. Fa il suo mestiere e potrebbe essere
dovunque. Non è vero. Il contesto è l'aria che respiri. Le
collaborazioni, gli scambi, gli amici, i ritmi di vita che hai,
l'estetica che ti circonda,… Tutto ciò è fondante, rispetto a ciò che
fai. Qualunque mestiere tu faccia. A maggior ragione se fai il
tranviere, o il barista. Ma anche se fai l'asino come noi. Per
cui, assolutamente abbiamo deciso di rimanere qui e ci rimaniamo. Certo
sarebbe più facile emigrare. S.M. Però
forse sul profilo familiare, avendo una figlia, è più facile vivere a
Bologna, no? P.R.
Certamente! Anche se ho dovuto investire tutto quello che avevo per
stare in questa città. Ho investito in una
casa, collocata strategicamente, non lontana da dove lavoro. Mi sono
concesso dei privilegi a Bologna, per continuare a starci. Io e Siusi
abbiamo deciso di vivere vicini, in due case adiacenti ma separate, che
non è un privilegio da poco. Conoscendo il territorio, ci siamo creati
una tana più confortevole. Vivo senza la macchina, mi muovo in
bicicletta. Credo che sarebbe stato più difficile investire in un'altra
città, dove partire da zero. Quindi forse è stato anche un atto di
prudenza. Del resto, è importante anche il contesto linguistico. Senza
offesa, Roma è bellissima, ma per me era un po' un problema quando Zoe
tornava a casa dall'asilo parlando romanesco! Non credo che sia
campanilismo. E' un discorso di appartenenza,
di identità. S.M. Dunque,
parlami di questo. L'essenza della bolognesità. Qualcosa che io ho
sentito molto, che avverti soprattutto quando esci dalla situazione. Io
l'ho sentità molto forte quando ho vissuto a Roma e poi negli anni
all'estero, in Africa. Che cos'è per te la bolognesità? P.R. Okay,
faccio un passo indietro. Torno alla tua domanda di prima, su come è
cambiata Bologna. Secondo me è cambiata molto, e purtroppo non in
meglio. E quindi è cambiata anche un po' la sua identità. Mi fa
impressione, però devo ammettere di parlarne in maniera molto
nostalgica. Del resto non me ne vergogno ma anzi rivendico la mia
nostalgia! Ti parlavo
di questo tessuto sociale, collegamenti, rapporti, confronti… Quello
che a Bologna faceva "i cazzi suoi" era uno strano, una mosca bianca,
perché il sociale, lo scopo, il fine comune, era l'elemento
predominante. Era bello! Ma allora era così, poi questo anelito si è
perduto gradualmente. Secondo me perché si è persa anche una serie di
agenzie. Il fatto che l'Arci abbia chiuso i suoi circoli, per me è
stato gravissimo. Le Case del Popolo, sia nel centro come nelle
periferie, assolvevano ad una funzione fondamentale. Il fatto che il
Partito e il sindacato siano entrati pesantemente in crisi, comunque la
si pensi, ha significato la perdita di momenti di confronto. E poi si è
perso proprio il sistema nervoso della città. Io non sono mai stato
iscritto a nessun partito. Sono sempre stato simpatizzante della
sinistra e per anni ho trovato la mia collocazione non solo lavorativa
nei Festival dell'Unità, che erano cose importanti, belle. La
città insomma non era "molle". Era "muscolosa"
Se volevi lanciare un'idea, avevi dei referenti, sapevi a chi
rivolgerti. L'impressione mia, forse sbagliata,
è che ad un certo punto questo tessuto sociale si sia completamente
sfilacciato. Le categorie si sono in qualche modo corporativizzate. I
collegamenti tra le fasce sociali si sono sclerotizzati. Gli studenti
sono diventati una categoria a sé, che distingui, con i loro locali.
Non hanno profondi rapporti con la città, come avevamo allora. Insomma,
si ragiona di più per sé che per categorie sociali. Di conseguenza…
saltando qualche nesso, la gente ha cominciato a parcheggiare in mezzo
alla strada, non ci sono più regole comuni, non si tiene più alla città
in senso collettivo, come era anni fa, secondo me, ovviamente. I consigli
di quartiere ad un certo punto hanno interpretato il decentramento in
termini di “decentramento di piccoli poteri”, e non come “ascolto delle
istanze sul territorio”. Se viene meno la mediazione dei partiti,
secondo me viene meno una cosa importantissima. A
Bologna il partito era una cosa seria! L'impegno delle persone, la loro
capacità di capire, di percepire… era fondamentale. Veramente, tanto,
tanto di cappello! E' stato un patrimonio che una generazione non è
riuscita a trasmettere a quell'altra, e si è
totalmente perduto. Anche far politica è diventato estremamente
complicato. Non hai più un contesto omogeneo in
cui entrare. Hai mille referenti che si dibattono, e a me viene voglia
solo di mettermi alla finestra ad aspettare che si mettano d'accordo,
dopodiché partecipo. Posso partecipare ad istanze molto specifiche. Per
esempio sono molto coinvolto nei comitati antismog. La salute non è
tutelata. Non si respira a Bologna. Quando porto a scuola mia figlia,
vorrei parlare con lei ma non si riesce a farlo. Non
la sento! E ho fatto due prove audiometriche. Ci sento benissimo. E'
che c'è un casino pazzesco. Sotto i portici, non si respira, e non ci
si sente. Allora la gente partecipa ai comitati, ma per disperazione,
per tappare delle falle macroscopiche. Perché l'amministrazione non
tutela la salute. E quando è così, si perde totalmente la fiducia verso
coloro cui demandi delle responsabilità. Così, l'individualismo diventa
una bestia terribile. Ha preso il sopravvento, e non perché la gente
sia diventata cattiva. S.M. Del
resto, questo è ciò che è avvenuto in tutto il mondo. E' un processo di
tutta la società postmoderna. P.R. E'
successo in tutto il mondo. Bologna aveva degli strumenti per opporsi,
ma li ha persi per strada. S.M. E'
stata comunque un'invasione culturale notevole. I cambiamenti
generazionali dal dopoguerra ad oggi sono stati
pazzeschi. Era difficile pensare che Bologna potesse vedere ancora una
trasmissione di valori tra una generazione e l'altra, con mutamenti del
genere. P.R. Sì,
però secondo me ci sono anche stati degli errori fatti, che non bisogna
negare. Le televisioni locali per esempio, che c'erano e ci sono
ancora, erano degli strumenti di comunicazione importanti, ma sono
state superate dalle tv nazionali, che portano i valori che sappiamo.
Io credo che per una televisione davvero decentrata, almeno a livello
di RAI3 ci si poteva muovere meglio. Credo che i direttori locali (non
solo dell'ER ovviamente) dovrebbe pretenderlo, per far sì che la
televisione sia un soggetto attivo. Non dico che non lo sia, ma
potrebbe esserlo molto di più, e non solo in termini giornalisti. Bologna poi
aveva luoghi di aggregazione particolari, che a un certo punto si è
visti trasformare, o comunque non vi si è più investito. Per esempio,
il centro storico aveva una sua precisa identità. Ora, se dove prima
c'era un artigiano, adesso c'è una banca, questo certo non è privo di
significato! Dove c'era una bottega c'è una
boutique. O dove c'era un'altra bottega, adesso c'è un garage. Tutto
questo non è indolore! Sono cose che pesano, e
si pagano. Bologna era
all'avanguardia su tante cose, scuole, trasporti,… finché è riuscita a
coinvolgere nella giunta dei grossi intellettuali, che progettavano. E
si facevano progetti di lunga durata, perché vi
era un partito con 40 di storia. Ora, se un politico pensava un
progetto di lunga durata, poteva pensare di essere ancora lì per
vederlo realizzato, nel tempo. Se non c'è più nessuna sicurezza, e un
politico in quanto tale è lasciato solo, se deve brillare solo come una
meteora, non metterà più i suoi sforzi in una cosa che non sia pronta in
meno di due anni! Lo scopo ultimo sono diventate le elezioni, non la
progettualità delle cose. Si è anche smesso di investire sulle persone.
Prima un giovane promettente in politica faceva un determinato
percorso, dai quartieri agli assessorati. C'era un processo di
apprendimento e di identificazione. Tutto questo è saltato, anche a
Bologna. In
definitiva, i cambiamenti che la città ha vissuto sono stati notevoli,
e non tutti positivi. Parlare
adesso, quindi, dell'identità di Bologna, è ben diverso che parlare
dell'identità che aveva 20 o 30 anni fa. Certo, è rimasta nelle persone
che ci abitano. Quindi per me è rimasta la stessa, come un grande amore
che ti ricordi come era quando lo hai conosciuto, la prima volta.
Magari invecchiato. S.M. Ma come
vedi la vita culturale della città, adesso? Vi
sono molti gruppi, specialmente musicali. Lo senti ancora il fermento
che noi, più anziani, abbiamo vissuto, o la senti più spenta? P.R. Ma,
devo precisare una cosa se vuoi banale: per me ogni cosa è espressione
culturale. Per cui sì, è viva, nella misura in cui c'è gente che
respira! Poi, la moda di adesso delle signorine, pantaloni a campana,
vita bassa, ombelico fuori, è anche un'espressione culturale, anche se
a me non piace! Questo è un altro problema.
Certo è viva culturalmente. Ci sono decine di migliaia di studenti… S.M. Sì,
però le mode sono le stesse ovunque. Vita bassa, ombelico fuori, li
trovi ora dappertutto, non sono espressione di una bolognesità! Le cose
che dicevamo prima, facevano la differenza. Quella per la quale tu da
Mantova o uno da Foggia sceglieva Bologna per vivere e studiare.
Adesso, è l'omologazione. P.R. Sì, è
vero… Ma non lo so. Forse ci sono ancora aspetti di Bologna che sono
suoi specifici, ma che io non conosco. Per esempio fabbriche occupate e
affini, su cui non ho elementi. S.M. Secondo
te si potrebbe, e avrebbe senso, recuperare alcune delle cose che si
sono perse? P.R. Mio
padre era geometra, io da piccolo volevo fare l'architetto, e l'esame
che più mi ricordo del Dams è guarda caso quello di urbanistica! Per
cui, mi viene sempre da dire che i MURI più che le persone determinano
un modo di essere. Se mi chiedi cosa recuperare o se recuperare, io ti
dico: sì, degli spazi. Gli spazi sono opportunità, sono estetica, sono
cultura. Ci credo profondamente. A me hanno offerto tante volte di
rifare il Gran Pavese, ma questo no, non trovo che abbia senso. Non si
recuperano delle situazioni, ma si possono recuperare degli spazi,
fisici. Non farei mai qualcosa dal sapore
nostalgico, no, assolutamente! Però, cos'era in
fondo il Gran Pavese? Era una ricetta, anche piuttosto banale se vuoi,
di giustapposizione di storie, facce, personaggi, diverse tra loro. Era
proprio LA varietà, più che IL varietà. Noi mettevamo insieme un
intellettuale che faceva una miniconferenza, con un boxer che faceva
un'esibizione; una ballerina con uno spogliarellista, o un cantante,
perché era bello, aveva un sapore antropologico. Certo, quella ricetta
può essere ancora valida, ma dovrebbe avere altri contenuti. Ci sono
invece aspetti preziosissimi che sono rimasti, negli anni, come il
volontariato, che a Bologna è senz'altro molto forte. Sono cambiate le
agenzie. Io per alcuni anni ho seguito ad
esempio il lavoro della Coop per i soci, insieme ad Arcigola e Slowfood. SI parte da bisogni primari (la salute, quello che
si mangia) legati all'aggregazione (dove lo si mangia?), ad altri
bisogni (economici, spendere meno), controllare ciò che si mangia,
ecc.. Uno dei discorsi politici più interessanti che ho sentito negli
ultimi anni è stato proprio da parte di un presidente di Slowfood, su
globalizzazione, economia e politica, intorno al cibo, che era un
discorso completo, convincente. Insomma, bisogna inventarsi qualcosa di
nuovo. Se tornassimo ad aprire una sala di liscio, ci andrebbero in
pochi! E' difficile inventarsi nuovi modelli di aggregazione. L'osteria
resiste, ma è un modello vecchio come il cucco! Le latterie non ci sono
più, invece erano luoghi stupendi. Vere agenzie di assistenza sociale! S.M.
Purtroppo l'individualismo è arrivato anche nei luoghi pubblici. Ci
sono, ma ognuno ci va per conto suo. Ogni gruppo chiuso al suo interno. P.R. Non ci
sono più luoghi in cui incontrarsi. Quei posti in cui, finito di
lavorare, tu passi e io anche. E ci si ritrova lì. Ci sono locali molto
chiusi, che attirano persone e ne respingono altre. Una volta non era
così. Il bar del Circolo Pavese, era il bar di Guerre Stellari! C'erano
cinquanta tipi di mostri, di generazioni diverse. C'era la prostituta
di 60 anni insieme all'impeccabile manager. Quando io ero studente,
potevo incontrare gente di 50, di 70 anni. Oggi, io non riesco più ad
incontrare giovani studenti. Siamo tutte tribù separate. Via del
Pratello era un covo della gente più diversa, compresi grandi
intellettuali. C'erano grandi cacciatori, e la lega animalista!
Facevano grandi litigate, e andava benissimo. Quella società era un
progetto politico e culturale. Oggi tutto questo non c'è più, e non si
riesce più a mettersi d'accordo nemmeno su questioni basilari come la
salute, la chiusura o meno del centro storico. Tutto è rigidamente
diviso in destra e sinistra, come se non vi fossero altri parametri.
Questo è assolutamente pazzesco. I polmoni di uno di destra sono come
quelli di uno di sinistra! Certo, ci possono essere soluzioni diverse,
ma oggi non si riesce più a costruire un dibattito serio, e questo la
dice lunga sull'incattivimento delle relazioni. C'è una borghesia livorosa. Probabilmente quella che
in 50 anni
di governo della sinistra ha sofferto molto, e posso anche capirla.
Purtroppo, non è venuta fuori una buona dialettica, costruttiva. I
rapporti si sono irrigiditi su posizioni anche preconcette. Adesso c'è
un po' un'oligarchia decisionale, che evita i conflitti. E' saltata la
mediazione di un partito che aveva radici nel territorio, ed è venuto
fuori un bel casino! Secondo me le prospettive non sono eccezionali. Dunque, per
tornare alla tua domanda iniziale, su quali siano le caratteristiche
peculiari di una identità bolognese, mi vengono in mente più elementi
paesaggistici che culturali o sociali!
©SilviaMontevecchi
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