"Che ci faccio qui?”

 

Eccola qua: la domanda di rito. Negli anni, non so quante volte me la sono sentita fare. Anche da gente che magari aveva già letto libri miei, ma tempo prima, e aveva dimenticato…

Già il mestiere del pedagogista è sconosciuto a casa nostra, figuriamoci in Africa, o in Medio Oriente,… Molti poi pensano che io vada in giro a fare “l’insegnante”.

Ora anche mia madre mi ha chiesto “ ma cos’è che fai lì?!”. Qualche volta vorrei fare l’infermiera, o la fornaia, chessò?, qualunque cosa che non necessiti spiegazione (conseguente allo sbigottimento).

Il fatto è che poi da noi tante cose le diamo per scontate, ovvie. Queste no, non hanno bisogno di spiegazione. Le scuole per prime, naturalmente. Poi le scuole materne, i campi estivi, i centri sportivi, le piscine, le scuole serali per chi è rimasto indietro, i corsi di formazione professionali, le scuole tecniche (dall’informatica all’elettrotecnica…), l’integrazione degli stranieri, con corsi ad hoc, le attività culturali e interculturali, e via dicendo. Insomma, tutte quelle cose che per noi sono semplicemente “servizi pubblici”, necessari, e che come tali non hanno bisogno né di essere spiegate né – tanto meno – giustificate o motivate. Nessuno infatti mette in dubbio la necessità di questi servizi. (…Credo).

Quando si lavora per progetti in paesi in via di sviluppo o in guerra, succede invece che ogni attività, ogni volta, va rispiegata e rimotivata, financo quasi a rispolverare bibliografie psico-socio-antropologiche che chiamano in causa i massimi sistemi… per avere uno straccio di finanziamento!

“Perché fare l’attività X nel paese Y?”  E giù pagine di spiegazioni, rapporti, analisi di dati ecc. perché naturalmente bisogna essere convincenti.

“Quali sono gli obiettivi? Cosa si vuole ottenere? Quali sono gli indicatori misurabili per il monitoraggio? Chi sono i destinatari dell’intervento? Perché e come sono stati scelti? ….”

Mi suona come a dire che per certi popoli e paesi non è così “ovvio” avere anche solo un pezzo di campo da calcio dove fare giocare dei bambini (che peraltro sono magari sotto bombardamenti e con tutti i sintomi delle sindromi post-traumatiche). Se per fare un campo da calcio devi chiedere un finanziamento, prima passi 6 mesi a scrivere il progetto, e poi se ne parla.

Ok. Sto divagando. Sarà la stanchezza della sera. E anche un po’ la rabbia. Sì perché mi incazzo quando vedo queste cose. Comunque è così. Bisogna scrivere tante pagine, e bisogna che ogni attività realizzata sia ASSOLUTAMENTE TRASPARENTE, VERIFICABILE, INTERCETTABILE, smontabile, vivisezionabile… Soprattutto in un contesto come quello palestinese, dove i donors devono essere così attenti a non finanziare organizzazioni terroristiche, che tutto diventa triplicamente più complicato.

Insomma, buona parte del nostro lavoro è cartaceo. Soprattutto all’inizio, perché tutto è da impostare. Per non parlare poi della parte amministrativa, che è semplicemente certosina. Io non amo molto l’amministrazione, però mi piace far tornare i conti, e certosina invece lo sono davvero!

Per andare nel concreto: come vi ho scritto dall’inizio, lavoro su un progetto finanziato dall’Unione Europea, e “implementato” (come si dice nel gergo delle ong) da Terre des hommes Italia e Bisan. Entrambe sono organizzazioni che lavorano in ambito sociale e psicopedagogico. Terre des hommes Italia ha sede  a Milano e progetti in diversi paesi in Africa America Latina e Asia; Bisan è palestinese e lavora in molti campi profughi di Gaza e dei Territori Occupati.

Il progetto in questione si rivolge a ragazzi e bambini di un campo di Ramallah. Quando dico “campo profughi”, non bisogna pensare alle situazioni precarie e transitorie cui siamo abituati a pensare, e di cui io stessa scrivevo per esempio dal Burundi. Come un amico mi aveva detto prima della partenza, “Rispetto ai posti che hai visto tu, quelli dove vai adesso sono alberghi a 5 stelle!”. Infatti è così, nel senso che (purtroppo) la gente di questi “campi” è lì profuga non da qualche settimana, o mese, ma da decine di anni. Infatti, in questo campo sono ancora i profughi dalla  guerra del ’48, in altri dall’occupazione del ’67. Si tratta dunque di settori di una città che si presentano né più né meno che come “quartieri” della città stessa (con case di più piani, negozi ecc), solo che le loro caratteristiche (legali, culturali, quindi anche individuali) sono diverse.

Perché comunque si tratta di persone che hanno pur sempre lo statuto di profugo, e come tali hanno libertà estremamente limitate. Persone che hanno perso tutto perché mandate via da casa loro, e che quindi non accettano di non tornare – prima o poi – a casa loro. 

Il finanziamento dell’Unione Europea, su un percorso triennale, prevede lo svolgimento di attività per bambini e giovani nel campo di Al-Am’ari (pron. Alàmari).

Le attività previste sono 15, da realizzare progressivamente nei prossimi mesi, e per tutta la durata del progetto.

  1. corsi per insegnanti sui problemi dei bambini con disturbi postraumatici

  2. lezioni di sostegno per bambini in difficoltà (abbiamo 150 bambini che usufruiscono anche di una “adozione a distanza” da famiglie italiane.

  3. assistenza sociale a famiglie in difficoltà (psicologica ed economica insieme).

  4. preparazione al Tawjihi, cioè l’esame di maturità, che qui è molto sentito, come un volta pagina della propria vita.

  5. corsi di inglese per giovani

  6. incontri di educazione sessuale nelle scuole superiori maschili e femminili

  7. Training su competenze tecniche per giovani.

  8. Internet café

  9. Cineforums

  10. Workshops su tematiche scelte dai giovani

  11. Campagne di iniziative volontarie 

  12. Attività sportive per ragazzi e per ragazze

  13. Training di formazione alla realizzazione di progetti

  14. Concorso di progetti e realizzazione dei 3 vincenti

  15. Ricerca sociologica sulle conizioni dei bambini nel campo.

Per ciascuna attività, lavorano quindi parecchie persone, trainers, animatori, psicologi, ecc. Il lavoro da fare è tanto, su più livelli. Questa è forse una delle cose più stimolanti di questo lavoro, rispetto a ciò che faccio in Italia. Lavorando per progetti, chi ne è responsabile deve coordinare tutto: i contratti di lavoro con tutte le persone coinvolte, i  loro programmi delle attività, tutto il materiale di monitoraggio che forniscono, per ciascuna di esse, i rapporti narrativi, da fare a scadenza semestrale; le spese: la raccolta di ogni singola ricevuta, la contabilità mensile, i budget preventivi,… la documentazione possibilmente anche fotografica, ecc. E ovviamente: i contenuti psico-pedagogici. Vedere che agli obiettivi posti corrispondano i risultati che ci si era prefissati. Predisporre tutto il materiale necessario, dai computer, alla raccolta dei dati, ai materiali di studio, ai questionari di ingresso e di uscita a tutti i partecipanti,… E la lista potrebbe continuare. Bisogna che le cose siano impostate bene dall’inizio, il più possibile, perché se si perdono dei pezzi, diventa poi difficile recuperarli dopo del tempo.

Con lo staff di Bisan mi trovo molto bene. A parte il “big boss”, sono tutti giovani, ma molto professionali. In ufficio con me c’è Suzan, che è psicologa e lavora con le famiglie e i bambini più in difficoltà. Ha 24 anni, si sposa tra due settimane. Vive a Gerusalemme, quindi ogni giorno deve passare il check point all’andata e al ritorno, perdendo una marea di tempo per un percorso che si farebbe in mezz’ora. E meno male che avendo la residenza in capitale, ha diritto a muoversi. Gli altri, come Yousef (contabile, 22 anni) e Marwan (economista, 32 anni, appena sposato), essendo della Cisgiordania, non hanno - al contrario – nessuna possibilità di andare a Gerusalemme, infatti Yousef non ci va da anni. Marwan ha cercato con la neosposa di fare il viaggio di nozze all’estero, ma arrivati al confine con la Giordania, non li hanno fatti passare.

Ciononostante, in ufficio c’è un’aria stupenda. E mi chiedo come fanno. Sono persone sorridenti e positive. Stando con loro non mi sembra neanche di essere in un posto così difficile come i Territori Occupati della Palestina.

Il big boss – Izzat – mi ha fatto poi davvero un’impressione stupenda.  E purtroppo devo verificare ancora una volta che le persone con cui ho lavorato meglio nella mia ormai lunga carriera professionale, sono persone…non italiane. Ho un bellissimo ricordo di Michel Sidibé, maliano, che era il Rappresentante dell’Unicef quando vi lavoravo nella sede di Bujumbura. E poi ancora di Leo Schellenken, olandese, responsabile dell’Education per il Programma Somalia dell’Unione Europea, con cui per un anno ho lavorato tra Somalia e Kenya. Ora credo che anche Izzat finirà annoverato tra quelli per i quali provo maggior stima, e dai quali posso imparare di più,  soprattutto per quella rara capacità di combinare le competenze tecniche del loro lavoro, con la creazione delle giuste relazioni comunicative e interpersonali in tutto lo staff.

Questo aspetto particolare, dopo avere cambiato tanti posti di lavoro in Italia, credo di non averlo mai trovato in nessuno, ma anzi ho trovato (specie negli uomini, anche perché i capi sono sempre loro…) atteggiamenti che vanno dalla grande ignoranza tecnica, improvvisazione, alla assoluta noncuranza degli aspetti relazionali, anzi persino incapacità di de-centrarsi e di lavorare criticamente. Ho trovato più spesso arroganza, pettegolezzo (e mi riferisco sempre maggiormente a figure maschili), prepotenza, aggressività, maleducazione, per non parlare del consueto “fiato sul collo” che in Italia ancora si usa far sentire addosso alle persone.

Chi fa “il capo” da noi, si sente in diritto / dovere di controllare, quindi di stare addosso. E’ una cosa da medioevo, ma è così, in moltissime organizzazioni. Quando esco dall’Italia, trovo subito un atteggiamento diverso, che è quello del reciproco supporto. Izzat questa cosa l’ha messa subito in rilievo, e mi piace molto. Anche Michel e Leo avevano lo stesso approccio. Quando c’è una difficoltà, anziché criticare qualcosa o qualcuno, si fanno analisi razionali e ci si aiuta, partendo dal presupposto che siamo lì apposta. Per fare le cose insieme, che non è un criterio morale, beninteso, ma professionale ed economico.

A parte tutto ciò, rimane la mia fatica a lavorare tutto il giorno in inglese. Ormai credo proprio che questa lingua non mi sarà mai molto simpatica. Quando torno a casa e posso scegliere i vari canali del satellite, inevitabilmente preferisco quelli francesi. Non è solo perché questa lingua la parlo molto meglio, è proprio che provo “amore” per la lingua francese e per il suo suono, e al solo sentirla, provo nostalgia per la Francia!  E mi viene in mente la bellissima settimana passata a Parigi da Michel Arsenault, la scorsa Pasqua, quando ho potuto percorrere la città in lungo e in largo, sotto un sole meraviglioso… in bicicletta!  Quando invece vedo la BBC … non provo proprio niente! Mi guardo le news, punto. Non so se mi è antipatico l’inglese perché non amo particolarmente il mondo anglosassone, o viceversa. Comunque questa lingua mi fa sentire una distanza culturale enorme tra il mio essere latina/mediterranea, e il mondo anglofono.

Adesso comincio con l’arabo, ma che casino! E’ difficilissimo. Però ci provo lo stesso. Mi affascina troppo. A proposito, sto ascoltando un bellissimo cd di un musicista algerino, che un amico di qui mi ha portato poco fa. Con l’arabo, bisogna innanzitutto fare l’orecchio. E’ una lingua parlata in una zona così vasta di mondo, che a saperla almeno un po’ ti consente di comunicare con un’infinità di persone, di culture diversissime: dal Marocco al Sudan, dall’Egitto all’Indonesia, dalle coste della Giordania alle pendici del Caucaso e oltre, fino ad alcune regioni della Cina.

Bene, è mercoledì. Mi preparo già ad un altro week end (giovedì sera e venerdì). Forse vado a Gerico, o a Betlemme.

Gerico… mi fa ricordare quando ero in terza elementare, e si scopriva la città più antica del mondo…

Quanto mi piaceva la storia! E mi piace ancora… e sarei sempre in giro…  Ciao!

 

18    Ramallah, giugno 2003

  Silvia Montevecchi

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