CRISTIANI CULTURALMENTE MUSULMANI.

Incontro con padre Ibrahim Hijazin,

 parroco di Ramallah, Palestina.

  

Questo colloquio avviene nel giorno di martedì 1° luglio 2003. Quest’uomo che parla arabo, ebraico, italiano, francese, inglese, shilluh (lingua del Sud Sudan) mi accoglie come una sua nuova parrocchiana: ovvero con il calore che si offre a chi si vuol far entrare in una nuova famiglia.

Gli chiedo un po’ della sua storia, almeno un po’ alla volta. E mi dice “eh, a proposito degli israeliani, ne ho da raccontarti! . Ne approfitto subito, ovviamente.

La sera poi, mi ritrovo con la comunità cristiana di Ramallah intorno ad un fornito barbecue, tante famiglie, persone di ogni età, ed un suonatore di oud (uno strumento a corde con cassa, tipo chitarra o grande mandolino) che canta canzoni arabe.

Padre Ibrahim fuma molto, come molti qui. L’ecologismo, il salutismo, non sono ancora granché diffusi.

Ha un sorriso convinto, caldo. Parla a voce bassa. E’ molto impegnato. E’ appena tornato da un giro tra malati in ospedale, e mi concede solo un’ora (…per cominciare).

Quella cristiana qui è una piccola minoranza. E il mondo arabo è fatto anche di questo.

*** ***

Silvia Montevecchi: Padre Ibrahim, lei è nativo della Giordania, ma vive in Palestina ormai da molti anni.

Padre Ibrahim: Sì, sono arrivato nel 1962. Ho frequentato il seminario qui in Palestina, e qui ho avuto l'ordinazione sacerdotale, poi ho cominciato a lavorare a Ramallah come assistente ad un sacerdote italiano che era don Luigi Fàvero. Poi sono andato a Birzeit, un paio d’anni, e ho lasciato la Terra Santa per andare in Sudan e altri paesi del mondo arabo, poi a Roma, e infine sono tornato qui.  Per 4 anni sono stato parroco in un villaggio vicino a Ramallah, e al contempo ero direttore della scuola che abbiamo qui. Da sei anni sono parroco qui in città, e sempre direttore della scuola.

In questa scuola, già molti anni fa avevamo cominciato un progetto di educazione alla pace. Volevamo creare una mentalità nuova nei giovani di qui, cristiani e musulmani. Abbiamo avuto rapporti con studenti israeliani. I nostri ragazzi andavano a Tel Aviv e in altre zone di Israele, per avere scambi con giovani ebrei israeliani. Facemmo un campeggio di alcuni giorni organizzato a Nevé Shalom, e raduni con maestri israeliani e i nostri maestri di qui, sia in Israele che in Turchia, dove andammo insieme. Però... non sono mai stati gli studenti israeliani a venire da noi, ma noi ad andare da loro. Facevamo tornei sportivi, di basket, ed altro, ma eravamo sempre noi a muoverci.

A settembre di due anni fa poi, è iniziata la seconda Intifada. Il 10 ottobre, dovevo andare in un villaggio vicino a Nablus per celebrare  un matrimonio. Si trattava del matrimonio di un medico di Ramallah che vive in Italia. Aveva un suo direttore spirituale, ma essendo io il parroco, dovevo essere presente.

In quel periodo, il primo mese di Intifada, le strade e le comunicazioni erano molto difficili. Andai con la mia macchina e loro andarono con due piccoli pulmini noleggiati. Io dovevo celebrare il matrimonio un po’ in fretta perché poi mi aspettavano anche le suore di madre Teresa, in un altro villaggio non lontano da Nablus. Poi dovevo tornare a Ramallah entro sera. Si fece il matrimonio, andai dalle suore della Carità, e mentre ero sulla  via del ritorno,  in macchina da solo, quando fui nei pressi dell’insediamento israeliano di Shilo, trovai un assembramento di persone. Pensavo ci fosse una qualche baruffa tra arabi. Quando fui più vicino, vidi che erano tutti israeliani, civili, armati, uomini e donne. Mi hanno fermato, mi hanno chiesto il passaporto: io ho dato il mio passaporto vaticano, loro lo hanno buttato dietro i sedili della macchina. Mi hanno chiesto dove vai?  A Ramallah, alla mia chiesa”. Da dove vieni? “Da una chiesa”. No, mi hanno detto, tu non puoi proseguire. “Perché?” Chiedo. Perché questa strada è solo per gli ebrei.  Conosco questa strada da più di trent’anni, rispondo, l’ho sempre fatta, sono passato di qui poche ore fa”. Niente da fare. Mi hanno puntato un fucile alla testa. “Va bene, dico, torno indietro”. Quando ho cercato di girare la macchina, dopo pochi metri, dei giovani sbucati dagli alberi mi hanno detto Shalom, io ho risposto Shalom! E poi… hanno cominciato a tirarmi delle pietre. Hanno distrutto la macchina, i vetri, i fanali, tutto!  Ho cercato qualcuno della polizia, ma non trovavo nessuno. Quando ho trovato una stazione di servizio, c’erano due israeliani e mi hanno detto che quella era la stazione di rifornimento per gli israeliani. Mi hanno offerto un caffè, io offerto delle sigarette. Poi uno ha chiamato la polizia, ma non è venuto nessuno. Sono rimasto lì fino alle 11 di sera circa. Ero senza le luci. E’ passata una macchina, volevo fermarla, ma non mi ha visto. E’ ripassata la stessa macchina dopo circa un quarto d’ora, e  a quel punto sono riuscita a fermarla. Era un palestinese, e andava a Ramallah. Era successa la stessa cosa anche a lui: la macchina colpita dalle pietre, ma almeno gli erano rimasti i fanali  funzionanti. “Ma, chiedo, c’è un’altra strada?!” Sì, mi dice, c’è una vecchia strada, seguimi. Sono andato dietro lui, piano piano perché seguivo le sue luci, e così dopo ore di viaggio, a notte inoltrata, siamo arrivati a Ramallah.

Il giorno dopo, andai subito a Gerusalemme per denunciare ciò che mi era accaduto. Mi dissero di venire alla polizia di Beitel . Ci andai, e il capitano mi disse che secondo la legge di Israele, se una macchina israeliana era distrutta dai palestinesi ci sarebbe stato un rimborso, ma se erano stati gli israeliani no! Dovevo vedermela con loro.

Tornai  in quell’insediamento, ma naturalmente non ci fu nulla da fare. Dovetti ripagarmi la macchina da solo, e furono molti soldi. Fu difficile per me.

Questa è una storia tra tante. E pensa che questa, dove io ho sempre lavorato, è stata la prima scuola in Palestina a fare attività di educazione alla pace con gli israeliani!

S.M. Certo, è il problema di migliaia di palestinesi, per milioni di dollari. Ora gli israeliani si stanno ritirando (pare) dalla striscia di Gaza, ma tutti coloro che nel frattempo hanno avuto la casa distrutta, le attività economiche distrutte, cosa fanno? Chi gliele ripaga? (silenzio).

P.I.: L’anno scorso, tra marzo e aprile circa, abbiamo avuto l’occupazione militare qui a Ramallah. Per 24 giorni! 24 giorni di guerra. Non potevamo muoverci. Hanno bombardato ovunque, di continuo, ad ogni ora. I militari non davano tregua, entravano in ogni casa.

Qui da me si erano rifugiati 18 giovani, cristiani e musulmani. Dormivano qui, nel piano di sotto. Alcuni di loro sono in prigione adesso. Non hanno commesso nessun reato, nessun crimine. Solo che appartengono al Fronte Popolare, sono contro una pace imposta dall’esterno. Vogliono una pace giusta. Per questo sono in prigione. Si sono rifugiati qui da me per un certo periodo. Un giorno, mi hanno detto “padre, sappiamo che stanno perquisendo tutte le chiese, ora verranno anche qui, noi ce ne dobbiamo andare”.  Io dissi di non andare via, che stare qui per loro era meglio. Andai a dire messa, come ogni giorno alla stessa ora, e quando tornai non c’erano più. La mattina dopo c’erano qui i militari israeliani, in sette, armati fino ai denti (hanno paura… e sono armati). Hanno cercato ovunque: nella scuola, in casa, in sacrestia, e poi volevano entrare in chiesa. Quando siamo stati all’ingresso, mi sono messo davanti al loro capo e ho detto “Mi dispiace, ma non puoi entrare con le armi in chiesa. Lui ha insistito. “Non posso farti entrare in chiesa, mi dispiace, a costo della mia vita.  Lui mi ha detto ironico, “Senti, ma Cristo è un ebreo come noi! Vedrai che mi perdona!”Sì, gli ho risposto, era un ebreo, ma non come voi ebrei di oggi! E non ti è permesso di entrare”.  Si è fermato sulla porta, mi ha chiesto se c’era qualcuno dentro  “C’è solo Cristo lì dentro, vedi? È lì. Non c’è nessun altro. Se ne sono andati.

Mah… 24 giorni di assedio! Non avevamo né luce né rifornimenti d’acqua. Cosa posso dire di più!  …E l’Europa? L’Europa è con Israele!  Sono solo gli interessi che contano.

S.M. Grida vendetta a Dio quello che i palestinesi sono costretti a vivere.

P.I. Gli ebrei hanno vissuto tutto questo, anzi ben di più, in Europa. Ma non hanno il diritto di fare quello che fanno.

S.M. Padre Ibrahim, mi parla delle attività di peace education che facevate?

P.I.: Le facciamo ancora! Noi continuiamo. Avevo cominciato ad insegnare in questa scuola anche l’ebraico, proprio per avere maggiore comunicazione con gli israeliani. Dopo l’Intifada però abbiamo smesso. Ma con la peace education continuiamo.

S.M.: Sempre a senso unico, nel senso che comunque nessun gruppo ebraico viene qui.

P.I. Sì, ma noi facciamo comunque tutto il possibile per creare nei nostri giovani una mentalità di pace.

SM: Nella vostra scuola sono sia cristiani che musulmani. Come sono i rapporti tra loro?

P.I.: I cristiani e i musulmani qui hanno lo stesso sangue, la stessa lingua, la stessa cultura, lo stesso paese. Solo la fede è diversa.

(Proprio mentre parliamo, si sentono in contemporanea la voce del muezzin e le campane della chiesa…)

Non dico che la relazione sia facile, ma comunque siamo la stessa razza e la stessa cultura. Sia cristiani che musulmani, siamo comunque arabi. Non è così per gli ebrei. Siamo cugini forse, ma non sono arabi, hanno un’altra lingua, un’altra mentalità.

SM: da noi, in Europa, in Italia, invece il problema del dialogo cristiani-musulmani è  un problema forte. Ci sentiamo molto lontani culturalmente. Il mondo musulmano in molti casi fa paura.

P.I. Sì, da voi. Ma non qui. Qui la vita tra cristiani e musulmani non è così diversa. I cristiani del mondo arabo, sono cristiani che culturalmente sono musulmani. La loro mentalità, è una mentalità musulmana.

La religione musulmana, ha creato una cultura, una mentalità musulmana: lo stile di vita, le abitudini. Questo, è ciò che respirano anche i cristiani. Qualche esempio? l’immagine della donna. Nel mondo musulmano, se una ragazza commette un peccato sessuale, la punizione è terribile, fino alla morte. Ora, anche per i cristiani molte volte questo è ritenuto giusto. Per voi è incomprensibile, ma qui è la mentalità diffusa. E questa è una caratteristica musulmana, non cristiana!  Non ci dice questo il Vangelo, certo. Un altro esempio? Il senso della vendetta. Sappiamo che è fortissimo, è “nel sangue arabo. E questo è molto forte anche tra i cristiani. E’ molto difficile essere cristiani qui. L’ambiente che si respira, è un ambiente musulmano.

SM: Ma secondo lei, questa è una sua analisi o è qualcosa di cui i cristiani di qui hanno coscienza?

P.I.: I cristiani di qui, sono cristiani in chiesa, ma fuori sono arabi. E arabi di una cultura musulmana.

SM: Sono affermazioni pesanti.

PI: Lo so! Perciò, lavorare in una parrocchia qui, evangelizzare, cambiare una mentalità, non è per niente facile.

SM: questa appartenenza culturale secondo lei è così forte qui in Medio Oriente, o in generale in tutto il mondo a maggioranza musulmana?

P.I.: Io non sono stato in tanti paesi, come il Pakistan o altri, ma ho vissuto in Quait, negli Emirati, e in Sudan dove però sono africani, non sono arabi. Comunque, la mentalità comune in questi paesi è quella araba musulmana. Certo c’è differenza. Le relazioni dei cristiani tra loro sono diverse. Lo stile di vita in molte cose è diverso, sono più aperti, è diversa la concezione che hanno della donna. E questo i musulmani lo sanno. Sanno che per molte cose i cristiani sono più avanti. Per questo mandano i loro figli nelle nostre scuole. La maggioranza dei nostri studenti è composta di musulmani.

SM: questo forse è tipico di qui, perché comunque i palestinesi sono molto aperti. In altri paesi, i musulmani più fondamentalisti vedono i cristiani con totale disprezzo e anche odio. Io stessa a volte mi sono sentita guardata e tirare epiteti con disprezzo.

  P.I.: qui lo vedono che i cristiani sono più aperti, che la donna è più libera. I rapporti fra di noi sono molto buoni, comunque l’influenza musulmana è molto forte su di noi. Un cristiano mediorientale non è come un cristiano dell’occidente.

SM. … e lei come si sente? Quanto sente la “percentuale musulmana in lei? Come ha fatto a diventare prete, essendo nato e cresciuto in Giordania?

P.I. Innanzitutto, la cosa più importante, è la vocazione. Perché la vocazione, è una cosa di Dio. Ho sentito da bambino il desiderio di diventare prete. La mia famiglia era molto cristiana, ricordo bene lo stile di vita dei miei genitori, fin da piccolo. Certo anch’io sento l’influenza arabo musulmana, soprattutto nello stile delle relazioni. Penso che un sacerdote in Europa o in America ha uno stile diverso, diverse relazioni. Non so, è difficile spiegare, sono cose sottili. Comunque, io cerco di seguire il Vangelo.

SM: beh, questo tutti i cristiani lo dicono, così come tutti i musulmani citano costantemente il Corano per dare giustificazione delle loro scelte e azioni.

PI: no, sorry, lasciamo perdere. Il Corano è il maggiore problema del nostro mondo arabo! Altro che libro scritto da Dio !  Il Corano è un insieme di cose precedenti messe insieme da Maometto. Ma l’islam è finito.

SM (lo guardo un po’esterrefatta) come sarebbe a dire l’islam è finito?! Tutti i problemi più grossi, i conflitti maggiori, sono nei paesi musulmani. Anche in Europa abbiamo spinte forzose dal mondo islamico, per diffondersi.

PI: ma sì, poco a poco l’islam sta andando a picco. Perché? Perché i paesi musulmani sono sempre in ritardo. E perché sono in ritardo? Perché lì non c’è libertà di pensiero. Perché non c’è libertà di pensiero? Perché ogni risposta va cercata nel Corano! 

E il Corano non si può discutere. MAI! Non c’è libertà di religione tra i musulmani. Se un arabo musulmano qui vuole fare un suo percorso personale, una sua ricerca del senso della vita, e vuole diventare buddista… non può! Un musulmano che cambia religione rischia la pena di morte! Non esiste una libertà di coscienza. Non c’è un paese musulmano in cui si possa dire di vivere bene. I diritti più fondamentali dell’uomo lì non esistono. 

SM p. Ibrahim, all’inizio mi ha accennato ai suoi incontri a Nevé Shalom. Non sono andata, ancora, in questo villaggio, ma lo conosco da lunga data, e avevo conosciuto il suo ispiratore e fondatore, molti anni fa, in Italia: padre Bruno Hussar. Come procede l’esperienza di Nevé Shalom?  

P.I. Adesso non ci possiamo più andare. Da quando è cominciata la seconda Intifada, non abbiamo più potuto organizzare incontri con giovani israeliani. Il dialogo si è chiuso. Ma prima, abbiamo avuto delle belle esperienze lì. I nostri ragazzi, dopo avere incontrato e conosciuto  “il nemicotornavano dicendo  “sono come noi! Sono persone come noi!Questo era lo scopo di Nevé Shalom. Avviare una nuova mentalità, una nuova generazione.

SM. E adesso come la vede la situazione? (segue una pausa lunghissima, in cui p.Ibrahim cerca il modo per esprimersi. Risponde lentamente, pesa ogni singola parola).

P.I. Il popolo palestinese, è un popolo crocifisso. Nel senso più profondo del termine.

Il mondo arabo non può far niente per lui, perché è già in terra di per sé.

Il mondo europeo, è un mondo di interessi.

Il mondo americano, è consumistico. E’ un mondo che ha la tecnologia, ma non ha una cultura sua propria, non ha una storia. Per questo, sarà sempre un pericolo per il resto del mondo.

Io capisco bene gli israeliani, come ebrei che sono sempre stati perseguitati in Europa. Capisco il loro bisogno, la loro nostalgia di tornare qui.

Il mondo europeo alla fine della II Guerra Mondiale voleva chiudere il problema ebraico, e li ha mandati qui. Ma questa non è una giustizia: è un interesse personale.

Ma un giorno, gli ebrei perderanno. Prima o poi gli arabi torneranno a casa loro. Il popolo ebraico, resta un mistero della storia.

Così come la Terra Santa, un mistero “geografico della storia”. Perché è sempre stata una terra di conquista, una terra distrutta.

Ciò che è veramente brutto, è vedere che l’Europa non si muove. L’Europa non ha la coscienza pulita nei confronti della Palestina. Se avesse la coscienza a posto, qui non ci sarebbe guerra. La guerra della Palestina, è il peccato originale dell’occidente. Tutto ciò che succede qui.

Adesso lavorano a questa Road map, la “Mappa della strada”. Potrà durare qualche mese, ma non di più. Perché in realtà, secondo me, è una strada senza mappa. Non si sa dove vuole andare, dove porta.

SM: Insomma, lei è negativo. A volte anche le strade senza mappa portano in luoghi favorevoli. Non sempre quando si parte si sa già dove si arriva.

PI: No, questo vale per gli individui, per vivere l’avventura, ma non per un popolo. Non c’è nessuna visione globale del mondo in questa Road map. Non c’è un senso vero della giustizia. Il positivo potrebbe esserci se vi fosse una vera volontà, da parte di chi ha il potere, di fare qualcosa. Ma questa volontà non c’è, da nessuna parte.

Dobbiamo salutarci. Ha già un altro appuntamento p. Ibrahim. Altre persone che lo aspettano. Proseguiremo, e naturalmente, spero che si sbagli! Per ora la  tregua regge, e il clima che si respira, a detta della gente, è diverso. Come se si aprisse un nuovo capitolo. C’è un bisogno VITALE di pace.

Certo, non vi è un senso globale della giustizia. (Basta guardare cosa avviene in Iraq… e lo si sapeva anche prima). Se si arriverà a qualcosa di buono, sarà forse per la forza delle cose, ma davvero non per l’intelligenza degli uomini.  

Saluti, Silvia Montevecchi. Ramallah.

 

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