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Marzo-aprile 2008 Sierra Leone nove anni dopo. Un viaggio di Riconciliazione. Quando venni a Freetown per la prima volta, era il 1999.
Eravamo ancora nel pieno di una guerra che ha visto violenze indicibili.
Io ero venuta a lavorare per l’emergenza dei bambini soldato, che poco a
poco erano rilasciati e venivano inseriti in un programma di disarmo e poi
recupero, coordinato dalle Nazioni Unite con la partecipazione delle
confessioni religiose, delle Ong e altre agenzie. Vi rimasi tre mesi, durante i quali
non si poteva uscire dalla capitale, alle 8 di sera c’era il coprifuoco,
e settimanalmente gli incontri degli organismi di sicurezza ci tenevano
informati sull’andamento degli scontri, e su dove correre a prendere
l’elicottero in caso di fuga improvvisa. Vidi migliaia di bambini che erano
stati rapiti e torturati. Drogati, e costretti a compiere atti di violenza
per anni e anni. Bambini cui erano stati uccisi i genitori davanti agli
occhi, violentate le madri, o i cui parenti erano stati mutilati agli
arti, e ora camminavano per la città con braccia o gambe mozzate. Tornai da questo paese sentendomi
KO. Con l’impressione di non riuscire più a divertirmi, a pensare le
cose che fanno la nostra vita di ogni giorno, dopo avere conosciuto
l’orrore. Avere toccato l’abisso del mondo. Per mesi, o forse anni, mi sono
chiesta se da un tale abisso si può risalire. Se si può costruire una
vita “normale”, dopo essere stati in un punto di non ritorno. Lavoravo
con quei bambini di 10, 12,
16 anni, e mi chiedevo “ma cosa sarà di loro? Cosa potranno diventare?
Come potranno ritrovare la capacità di vivere in società, in pace, di
farsi una famiglia, di amare,…???” E ora eccomi qui: marzo 2008. Non potevo aspettarmi sorpresa
più bella dalla vita, che questo ritrovarmi qui, a chiudere un cerchio
rimasto in sospeso tanti anni fa. Partita da qui con l’impressione di
essere stata in un girone dell’inferno, posso tornare a vedere, toccare,
annusare, cosa è stato di… “quei bambini”. Sono incredula nel vedere i
cambiamenti di un paese in così pochi anni. La pace è stata firmata a
fine 2002, ma sinceramente non potevo davvero essere ottimista sul
dopoguerra. E invece… ora sono qui a girare queste strade, queste
colline, queste foreste, come se nulla qui fosse mai stato. Niente check
point, niente coprifuoco, niente paura. Sembra un altro mondo. Gente
sorridente che ti accoglie col cuore in mano ad ogni villaggio. Bambini
che ti strillano i loro saluti correndo dietro al pick up. Tantissime le
scuole ricostruite. Celtel ha messo le grandi antenne per il
cellulare anche qui, come in gran parte dell’Africa, e almeno tra le
città più grosse “siamo connessi”. “Com’è possibile?” viene da
chiedermi ora, “come ha fatto la gente a dimenticare?”
Certo, nessuno ha dimenticato. Ma “la gente era stanca”, mi dicono in
tanti. Stanca di una guerra assurda, fratricida, importata dall’estero,
per i diamanti, e durata dieci anni. Il punto è, fortunatamente, che non
si trattava di una guerra etnica. Non vi erano etnie contro altre,
altrimenti sì, sarebbe stato ben più difficile. Le parti in lotta erano
trasversali ad esse: vi erano rappresentanti di etnie e religioni diverse
tanto tra i militari governativi, quanto tra i ribelli del RUF. Quando si
è attuato il programma di deposizione delle armi, la gente ha
ricominciato a vivere come prima. Sotto lo steso cielo. Gli ex ribelli e gli ex militari,
si sono ritrovati a vivere fianco a fianco, negli stessi villaggi, nelle
stesse strade. Ma la volontà di vivere una vita normale, e di
ricostruire, è stata più forte di una continua ricerca di vendetta. Certo, le difficoltà ci sono, è
evidente. E mi sento profondamente felice quando riesco ad incontrare, a
Makeni, padre José Maria Caballero, detto Chema, missionario saveriano
con cui avevo condiviso momenti fortissimi e stupendi in quei tre mesi del
lontano 1999. Lui è il mio anello di congiunzione. Lui è rimasto qui,
tutti questi anni. E tanti di quei ragazzi che erano bambini spauriti e
violenti cresciuti in foresta come criminali,
lui li ha portati per mano tutti questi anni, li ha visti crescere.
Lui può ora rispondere alle mie domande. Padre Chema, è un avvocato, prima
di essere un missionario saveriano. Ed è stato chiamato a deporre in
tribunale come testimone, durante i processi di Verità e Giustizia.
Processi non ancora finiti, ma che proseguono anche sul piano
internazionale, con l’imputazione di Charles Taylor al Tribunale
dell’Aia per crimini contro l’umanità, accusato di essere
l’iniziatore della guerra a partire dalla Liberia. “Ne ho visti così tanti, di questi ragazzi e uomini che sono stati bambini soldato, che ormai li riconosco, anche quando non so niente di loro. C’è una luce nei loro occhi, che a volte mi dice quello che hanno passato. Mi è capitato di avere qualche impressione su qualcuno, e poi ho avuto conferma che era stato un combattente. I segni sono rimasti nel loro volto, e sono visibili da chi sa guardare. Certo, adesso vivono gli uni accanto agli altri. Ma la Riconciliazione, quella è ancora tutta da costruire. Nello stesso villaggio convivono spesso vittime e carnefici. Una donna magari vede ogni giorno colui che gli ha ammazzato il figlio, o che l’ha violentata anni prima. E deve convivere con la realtà che non è stata fatta giustizia. Era impossibile avviare un percorso di giustizia
vera. Sono state troppe le persone coinvolte, e in un territorio così
vasto… Non è pensabile che una povera donna contadina, per esempio,
dalla sua casa nella foresta faccia magari km e km a piedi per andare a
testimoniare ad un processo. Non lo fa. Tanti sono i casi che sono rimasti
così. Impuniti. La gente da mettere dietro le sbarre sarebbe stata
tantissima. Si sono processati i casi più gravi, e vanno avanti i
processi internazionali. Per la gente semplice invece, il percorso è
ancora aperto. Si deve convivere spesso con l’ex nemico, quasi gomito a
gomito”. Per questo, p. Chema lavora proprio
alla costruzione della Riconciliazione. Fa attività con i giovani che in
tempo di guerra erano in parti avverse: chi tra i ribelli, chi tra i
governativi. Oppure tra chi era un aguzzino, chi perpetrava le torture, e
costringeva i bambini a prendere droghe e commettere efferatezze. …Ma si può nascere di nuovo?
Cosa sono diventati ora quei bambini, che uomini e donne sono? E’ una domanda molto vasta, che
meriterebbe ricerche approfondite. Ma la breve chiacchierata con Chema, mi
offre almeno qualche spiraglio di interpretazione. “Molti di loro ce l’hanno fatta, sì – mi dice Chema –
specie quelli che sono riusciti a riprendere la scuola quando furono
liberati, o a inserirsi nel lavoro. Certo, resta una percentuale (ma
minore) che non ce l’ha fatta, che rimane in balia di droghe e vita ai
margini. Alcuni si sono sposati e ora hanno dei bambini piccoli. Ciò che
mi preoccupa, è quando vedo che vivono un problema per cui rischiano
reazioni aggressive. Magari un incidente in auto, una discussione, o cose
del genere. Fatti su cui hanno ragione magari, ma in loro scatta quel
vecchio meccanismo di aggressività, per cui rischiano di passare al
torto. La ricostruzione, è un processo che forse non finisce mai. Come
per la pace, è qualcosa su cui occorre lavorare sempre, vigilare. Senza
sosta!”. Il paese cresce. Va avanti. Tanti,
tantissimi bambini sono nati in Sierra Leone in questi anni. Bambini che
per fortuna non possono neanche immaginare l’orrore che è avvenuto in
quelle stesse strade solo pochi anni prima. Loro ora vanno a scuola,
possono correre e giocare con gli amici, con i oro genitori. La vita sì, ha ripreso il suo
corso. Tutto potrebbe quasi essere dimenticato. Eppure, il bisogno della
Memoria ci ricorda che non bisogna mai dimenticare. Perché qualunque
tragedia potrebbe ritornare, qualunque
eccidio. La Riconciliazione non è una meta:
è il cammino. Torno a casa con la gioia di avere
visto un paese rinascere, di avere incontrato persone che stimo moltissimo
e a cui sono profondamente legata. E al contempo con la consueta consapevolezza
che mai, MAI, possiamo allentare la guardia, se vogliamo vivere nella
PACE, nella libertà (di tutti), nella bellezza. Silvia Montevecchi, aprile
2008. *** *** Per saperne di più:
Qui sotto: io, p.Chema, il giovane Alpha, e il traghetto per Lungi.
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