Silvia Montevecchi

 

IL SOGNO OSTINATO[1]

 

 

 

 

Introduzione all’edizione di Terre di mezzo

 

Quando rileggo le mie lettere dall’Africa, spesso ritrovo una felicità incredibile. Ritrovo i volti, i colori, gli odori, gli affetti.  Se non avessi i miei tanti scritti e le migliaia di fotografie, chissà quante cose avrei dimenticato.

E la nostalgia si fa inevitabilmente sentire. Ritrovo gli eucalipti meravigliosi nei quali a volte 

avrei voluto penetrare fino a scomparire. Ritrovo i volti di migliaia di bambini, con i quali ho giocato e riso. Ritrovo tante donne, tanti contadini. La gente semplice che ti offre il suo sorriso, le sue semplici cose da mangiare. 

Come le donne somale che mi preparavano il tè al cardamomo, e in una cameretta poverissima

mi mettevano tappeti, tende, e il fornelletto dei profumi vicino alla stuoia su cui dormivo.

Potevo toccare il cielo. E’ incredibile la capacità che hanno molti poveri di farti sentire “curata”. Ti accudiscono, ti coccolano.

E mi chiedo se poi queste lettere possono offrire anche solo una parte di tutto ciò che io ho provato.

Passare anni in Africa, cambiare i propri ritmi di vita, gli alimenti quotidiani, la temperatura corporea, ed entrare in altre dimensioni di spazio e di tempo, è stata per me una fonte 

talmente grande di gioia, di vita, di sofferenza anche, che a volte ancora adesso – al solo pensarci – mi sento scoppiare. E vorrei ripeterlo ancora. Vorrei rivivere ancora questo trauma continuo che costantemente ti strazia, ti rivolta, distrugge ogni tuo riferimento, ti frantuma buttandoti nella solitudine più lacerante, per ricostruirti come una persona totalmente nuova, con sfaccettature che non avresti mai potuto prevedere né ipotizzare. E tu sei costretta ad acquisire riferimenti e conoscenze sempre nuove, in un apprendimento senza fine.

Ho amato moltissimo stare dalla parte dei poveri. Era ciò che volevo da tempo. “Da sempre” mi verrebbe da dire: con il “pallino” dell’Africa ci sono cresciuta.

Ho un ricordo buffo e stupefacente a un tempo: quando ero piccola, e facevo le vacanze sull’Appennino in un posto che amo moltissimo, a volte con gli amici si andava “lontano”, penetrando nel bosco fitto e umido, fino ad un torrente in cui la vegetazione era ben più ricca 

e lussureggiante di oggi. Vi erano grandi foglie acquatiche e felci…  Io ricordo che già allora, a 10-12 anni, saltavo tra i sassi qua e là imponendomi una sorta di “allenamento”. Tra me e me dicevo “ce la devo fare! Perché voglio andare nel rio delle Amazzoni, e nello Zaire. Voglio esplorare il mondo!”

Leggevo libri d’avventura e mi proiettavo tra le foreste fluviali e le meravigliose savane. Mi incantavo davanti ai documentari di Folco Quilici, o davanti alla gabbia di daini che era allora 

nei Giardini Margherita, della mia città. Li guardavo… e sognavo il giorno in cui avrei visto i grandi, magnifici erbivori delle savane d’Africa liberi, nei loro spazi sconfinati.

Quel giorno arrivò prima e più facilmente di quanto non avessi osato sperare[2]. Avevo vent’anni, e non mi sono più fermata!  Conoscere il mondo e popoli diversi è stata, e spero 

sarà ancora, un’avventura meravigliosa. Lo è a condizione che ci si ponga con molta umiltà e capacità di ascolto, senza gli atteggiamenti colonialistici e di superiorità che sono ancora così tanto, vergognosamente diffusi.

In fondo, in ogni situazione, anche la più difficile, ho sentito che bastava amare tanto la vita

per essere felici, e così tirarsi dietro l’amicizia degli altri, di qualunque paese o cultura. 

Un sorriso è un sorriso, ovunque.

Sono felice quando penso che amo e sono amata da molte persone in molti paesi diversi e lontani tra loro. Scendo da un aereo, e mi sento a casa.

Si invecchia certamente più in fretta con questo tipo di vita. Tutto è estremamente intenso,

ma proprio per questo di una grande ricchezza.

Sarò felice se questi scritti potranno servire a qualcuno per uscire dal guscio, per superare le paure e aprirsi al nuovo. Non è necessario salire su un aereo e andare lontano. Quello che conta è il modo di sentire e di vedere.

 

Bologna, gennaio 2001

 

Prima parte

 

 

L’UNIVERSO DEI SEMPLICI

 

  Sulle colline, tra i Grandi Laghi

 

 

 

 

 

 

Lettere dal Burundi, 1996-1997

 

 

  

 

E un mercante domandò: Parlaci del Commercio.

Ed egli rispose dicendo:

La terra vi concede il suo frutto, e basterà, se voi

Saprete riempirvene le mani

Scambiandovi i doni della terra

vi sazierete di ricchezze rivelate.

Ma se lo scambio non avverrà in amore

E in benefica giustizia, farà gli uni avidi

E gli altri affamati

.

…E prima di lasciare la piazza del mercato,

badate che nessuno sia andato via a mani vuote.

Poi che lo spirito supremo della terra

Non dormirà pacifico nel vento,

finché il bisogno dell’ultimo tra voi

non sia saziato.

 

Gibran, Il profeta

 

   

 

Bujumbura, 20.11.96

Carissimi,

riesco a scrivervi due righe tramite qualcuno  che rientra in Italia, dato che con l’embargo la posta non parte dal Burundi.

Questo paese è stupendo, ma la povertà è incredibile. Per quanta puoi averne vista prima, non ti ci abitui mai. Soprattutto perché qui la cosa più agghiacciante (benché non mi stupisca) è il divario pazzesco tra i bianchi e che lavorano  per gli  aiuti umanitari  e la gente.  C’è una 

marea di occidentali  (cooperanti e volontari) che scorrazzano tra un locale e l’altro, tra un festino e l’altro.  Gente che in Italia sarebbe disoccupata, qui fa vita da nababbo. 

E per quanto riguarda gli stipendi dei cooperanti... ero rimasta indietro,  ai 6 / 7 milioni.  Mi dicono che il responsabile della cooperazione italiana ne prende 18.  Al mese, evidentemente.

Il nostro stipendio di un anno.

E intanto una piccola suora indiana che lavora con gli handicappati non riesce ad avere due educatori in più perché non ha i soldi per pagarli : 200.000 L. in due, al mese.

La gioia per essere qui si somma al dolore per le immagini che continuamente ti attraversano la strada, e poi alla rabbia, nonché allo schifo per come vanno le cose. E come spesso accade, ti vergogni di essere bianco.

Un caro saluto a tutti. Insh' Allah.

 

21 Novembre 1996

Dopo Nairobi e Bujumbura, sono arrivata finalmente a destinazione.  Il paesaggio tra queste montagne è davvero splendido, come mi avevano detto.  Ed è bellissima la sensazione che dà 

la stagione delle piogge: tutto è vita, rigogliosissimo, di un verde intenso.

Dopo un attesa più o meno lunga del volo PAM (=Programma Alimentare Mondiale dell' ONU. 20 posti, bimotore; insomma, di quelli che ogni tanto ne cade uno, e ti senti bene solo quando arrivi a terra) abbiamo sorvolato praticamente tutto il Burundi per portare a destinazione due esponenti (...niente male) di  Medecins sans frontières . Sono arrivata con lo stomaco in 

mano.

Pero  è stato bello. Si sorvola un lungo pezzo del lago Tanganyika, bellissimo, con montagne 

da tutti i lati. E sotto di te lo Zaire, Uvira, dove la gente s’ammazza.

In genere quando si vola sull'acqua si ha l’impressione che un eventuale caduta potrebbe 

essere più morbida. Su questi laghi dell' East Africa invece hai un’idea un po’  più terrorizzante: quella di finire a sguazzare tra le fauci  di ippopotami e coccodrilli!!!

L’aereo ci scarica a Ngozi perché a Muyinga la pista non c'è. (Ebbene sì, siamo proprio in un angolo dimenticato da Dio! Niente posta, né telefono!). Quindi ci sono circa 70 km. di strada, immersa in un susseguirsi fantastico di saliscendi, tra enormi eucalipti, acacie, piantagioni di banane e tantissime altre piante di ogni tipo, verdi, inebrianti.  Questa zona di mondo ha un clima eccezionale. Si potrebbe davvero vivere come in paradiso. E ti chiedi perché l’essere umano debba sempre rovinarsi l’esistenza anche quando ha la fortuna di vivere in posti così.

Lungo i saliscendi, un’ infinità di biciclette. Il mezzo di trasporto più diffuso in Burundi. 

E ne vedi di stracariche, con casse di bibite, enormi fascine di erba o pezzi di legno.  E sulle salite vedi quei poveri cristi, con le ciabatte di plastica, che spingono a piedi quei carichi incredibili.(E noi sulle nostre Toyota, Suzuki, Cherokee, e quant' altro). 

Nel pomeriggio, con Paolo, ho cominciato il primo giro tra i campi di sfollati (la sola differenza con i campi di rifugiati è che vi sono unicamente burundesi, e non profughi del Rwanda. 

Sono sia tutsi che hutu, in rari casi sono misti. No, c'è un altra differenza, di fondo : dei 

rifugiati si occupa l'HCR dell' ONU, degli sfollati non si occupa nessuno, perché non ‘godono  dello status di rifugiati !).

 

Muyinga, 22 novembre, venerdì

La mattina qui ci si sveglia con un concerto incredibile di uccelli (tantissimi, splendidi), zanzare e muezzin.

23 novembre,  sabato

Ho iniziato il lavoro. Ho fatto vari giri nei campi  più vicini: sono tredici quelli seguiti da noi, anche molto lontani tra loro, a varie ore di fuoristrada.  Fortunatamente con Paolo mi trovo benissimo e passiamo un sacco di tempo a parlare. Ho conosciuto l’esigua fauna bianca di Muyinga :  oltre a noi tre italiani, 4 donne canadesi, una californiana, un ragazzo australiano.

Oggi pomeriggio abbiamo fatto uno splendido giro a piedi fuori  la città, tra capanne che sbucano in mezzo ad una fitta coltivazione di banane. La sensazione è inebriante e le casette non sono male.

Niente a che vedere con quelle dei campi, fatte solo di foglie e ricoperte con i teli blu dell' Onu.  Alcune sono talmente  malconce che noi non ci terremmo neanche gli animali da cortile.

Il nostro collaboratore,  Prospèr, mi ha portato in una, piccolissima, con una famiglia di cinque persone. Erano così  felici della mia visita! La donna, come al solito, intimidita. E io volevo parlare proprio con lei e lei, inevitabilmente, mi ha posto le classiche domande africane : dov' è tuo marito e quanti figli hai  (sob ! Con i miei quasi 35 anni, in Africa sono ormai una vecchia, 

e avrei potuto mettere al mondo una decina di marmocchi). Le ho spiegato che non ho né l’uno né gli altri e lei si è messa a ridere dicendomi «Perché ? ! E’ così facile sposarsi e fare bambini ! »

 

Domenica 24

Non ho la minima idea di quando questi miei scritti potranno partire, dato che dipende tutto da quando c’è qualcuno che lascia il Burundi. Spesso qualcuno va in vacanza a Nairobi o transita per il Rwanda, e tutti allora lo usano da postino. Però intanto scrivo. Mi serve. Mi piace. Mi manca molto il fatto di non poter comunicare con l'esterno, di non poter ricevere posta.  Insomma, è un po’ come essere in un eremo. Sono in una casa bellissima, con il prato davanti. A volte mi metto lì a leggere, e guardo lo splendido paesaggio di colline che si apre davanti : è 

già la Tanzania.  Mi manca solo un amaca, per il resto mi ricorda molto Cereglio!

 

Giovedì  28

Sto entrando poco a poco nel ruolo (non è facile capire qual è). Il lavoro che devo fare è 

molto bello ma anche molo vario e complesso, e devo imparare un sacco di cose.  A grandi linee, si tratta di due ambiti: da un lato c’è il lavoro di formazione per gli insegnanti, già cominciato dai miei due colleghi, nei campi di sfollati.  Questo è molto simile a ciò  che faccio 

in Italia solo che qui la formazione è estremamente di base. Gli educatori sono stati scelti nei campi, hanno a loro volta una scolarizzazione molto bassa, non parlano francese, e sono 

anche loro, come i bambini, traumatizzati dalla guerra.  Se non ci fosse questa attività da 

parte nostra, i bambini dei campi sarebbero totalmente abbandonati al loro destino, perché 

sono qui ‘provvisoriamente , quindi per loro non c è nessuna struttura, neppure l'assistenza sanitaria. Questa provvisorietà poi, potrebbe durare anche a lungo, dipende tutto da come si evolve la situazione del paese. Dunque il punto è: trasformare in educatori competenti delle persone che non hanno alcuna esperienza. E solo quando si lavora in condizioni cosi  ci si 

rende conto di cosa vuol dire, a livello intellettivo, per un bambino, crescere con una deprivazione incredibile di stimoli.  Per esempio non sapere cosa sia uno specchio, per cui non conoscere la propria immagine, non avere nessuno strumento che stimoli l'intelligenza astratta, quindi rimanere a forme di ragionamento molto concrete, che ti impediscono di apprendere per simboli e di pensare cose che non ci sono. Se qui chiedi  a un bambino cosa vuol fare da grande, nessuno ti dice il medico o l'ingegnere. Sono mondi per loro del tutto inimmaginabili. Utopie. Dunque: come si può aiutare un bambino a costruire qualcosa che non sa che esiste ? E se si tiene conto che le persone scelte come educatori sono molto probabilmente cresciute nelle stesse condizioni, il lavoro da fare è enorme.

Non ero più abituata a situazioni di privazione così grave. Mi ero abituata bene in Senegal :

una classe di intellettuali, impegnati socialmente e politicamente. Qui, soprattutto gli hutu, 

sono stati da decenni tenuti ai margini, oppressi, senza nessuna assistenza. E il risultato non potrebbe essere diverso.

 

L'altro lato del lavoro comprende invece la gestione generale del progetto : il coordinamento delle attività per i casi vulnerabili dei campi, con la distribuzione di cibo, coperte, prodotti 

per la cucina e per l'igiene di base. Tutti prodotti forniti dal PAM e dalla Croce Rossa.  

Quindi a nostra volta dobbiamo fare periodici rifornimenti e rapporti dettagliati sulla distribuzione. Poi c’è la gestione della contabilità, con i salari per tutti i collaboratori impiegati, gli insegnanti e gli animatori dei campi, i cuochi delle cucine, i sarti che riparano gli abiti dei bambini.

Insomma, un bel po’  di roba. Abbiamo due collaboratori molto in gamba, Prosper e Nestor, che fanno ormai di tutto : contabili, formatori, interpreti.

Le serate a Muyinga sono ‘tranquille'  nel senso più totale del termine. Non si fa proprio nulla, passo molto tempo a leggere, studiare, scrivere. A volte ci si dimentica di essere in un paese 

in guerra, perché non ci sono bombe, sparatorie, feriti. Puoi andare tranquillamente a fare passeggiate tra le colline. Però  l'atmosfera generale è piuttosto triste e pesante. Non si sente, come nel resto dell' Africa, la gente ballare e fare musica fino a notte fonda. Non si ha tanta voglia di festeggiare qui. E poi, ci sente un po’  in prigionia. Molte strade del paese non si possono fare per via degli scontri, e anche se si possono fare, c'è il problema del gasolio che costa molto caro, al mercato nero, per via dell'embargo. Insomma, è un esperienza bella, ma certo non facile.

Vi abbraccio tutti. Silvia.

 

***

Domenica 1  dicembre.

E’ trascorsa una settimana senza che avessi neppure il tempo di accorgermene. Ogni giorno abbiamo  sempre una marea di giri da fare. Ore e ore di pista, e si arriva a casa distrutti.

Per fortuna troviamo le buone cose fatte da quel fantastico cuoco che è Melkyor. E  un tipo dolcissimo, molto attento, che ci coccola amorevolmente facendoci trovare le cose che sa 

che ci piacciono (dolci, verdura, pizza, succo di maracuja...).  

Ieri sera finalmente c’è stata una festa in città. Ormai credevo proprio che non se ne 

facessero per niente. Che situazione buffa ! Per darvi un idea della scenografia: un cortile interno, grande, quadrato, e ai quattro lati un edificio a due piani, desolato e un po’  decadente, stile vecchio west, o tipo quei posti sperduti e un po’  distrutti da film di Zorro in bianco e nero. Ma non è finita: l'edificio è la sede della polizia, e il « motivo » della festa

(aperta a tutti), era il cambio di un responsabile che passa di grado e se ne va a Bujumbura. C’erano quindi i vari saluti di commiato a lui, e di benvenuto al nuovo arrivato (naturalmente tutti in kirundi).

All’inizio le sole donne eravamo noi MUSUNGU (bianche) che come al solito rappresentiamo il cinema per l'intera città. Come quando vado a spasso con Rocky, il nostro cane (nel senso 

che ormai appartiene alla casa ; lui e Paolo si sono reciprocamente adottati) e tutto il mondo sembra fermarsi a guardarci, con i bambini che ridono come matti. Una musungu con i capelli dritti come spaghetti, con un cane al guinzaglio, generalmente piuttosto incazzato, non è spettacolo da tutti i giorni !

La festa è stata divertente. Ho ballato un sacco con un ragazzino di 17 anni, di origine araba. Era così  contento! Comunque se per cinque minuti ti fermi a prendere fiato, ti trovi intorno dieci maschioni preoccupati che ti chiedono cosa succede, perché non balli ? !

Carissimi tutti (Giuseppe, Alberto, Paola, Maria, Valeria, Maurizio, Bianca, Giorgio, Nadia, nipoti, Andrea, Pippo e Patti, Anna, Alessandra , ...)  mi piacerebbe potervi scrivere uno ad uno, e avere la vostra posta. Sapere come vanno i vostri casini quotidiani, le vostre storie amorose 

(le mie al momento sono OUT. Non c’è nessuno di sconvolgente qui, né tra i bianchi né tra i neri !).  Ma mi è consentita solo questa comunicazione molto a largo raggio, e a senso unico, 

a meno ché non vogliate farmi dei fax (ovviamente sempre graditi ).

Tenetevi dunque, per il momento, le mie elucubrazioni mentali.

 

Punto n. 1. Sono immensamente felice di essere qua.

Sono immensamente felice di essere qua. Avevo bisogno di questo bagno africano, dopo tanti anni di amore per l'Africa, vissuto da lontano. Mi sto godendo e assorbendo ogni giorno, ogni momento, come uno splendido regalo della vita. E se ho ancora degli anni davanti a me, mi chiedo quali altre incredibili sorprese mi aspettino.

Sono felice di essere tra questa gente, tra queste facce nere e queste donne colorate. Sono felice di essere da questa parte del mondo, quella degli sfigati.

Quando ero a casa, a settembre, alla vigilia della partenza, e passavo tutte le sere allo stand alla Festa dell'Unità, pensavo che non ne potevo proprio più della nostra opulenza, di vedere gente obesa che continua ad ingozzarsi, che pensa solo a mangiare e a comprare. Per non parlare di quando ci si stressa nel casino degli ipermercati.

Dio che bello sentire di essere andati in culo al mondo !  E non vedere più le facce dementi 

dei nostri politicanti, falsi e mediocri, e nemmeno le chiappe di quelle centinaia di donne 

stupide che imbrattano gli schermi televisivi, e neppure l'arroganza di intellettuali e giornalisti che si sentono sempre di essere l'ombelico del mondo, quelli che ne sanno di più !!! Ma perché i bianchi non sanno godersi la vita con più umiltà?!?!

 

Sabato 7 dicembre

In questi giorni non sono più riuscita a scrivere, perché non ho avuto tempo. Quando avevo tempo non c’era  la luce per il computer. Quando avevo tempo e c’era la luce non funzionava il computer. In compenso, il numero delle elucubrazioni è cresciuto a dismisura. (Fatti vostri!).

Punto n. 2 : a proposito di bianchi e neri.

Più volte, nel corso degli anni, mi sono chiesta se il mio profondo  antirazzismo fosse dovuto o meno al  fatto che non ero mai stata a lungo in Africa. Mi chiedevo se vivendo in maniera 

totale all’interno di una cultura diversa potesse capitare anche a me, come a molti, di 

diventare razzista.  Ebbene, per i pochi giorni che ho passato da quando sono qui  credo che 

la risposta (peraltro prevedibile) sia : Sì: verso i bianchi!.

In particolare, in questo periodo, c'è un soggetto preciso che mi stimola un certo odio verso alcuni meccanismi appartenenti alla mia razza.

Vi ho detto che a Muyinga di italiani siamo in tre, ma vi ho nominato solo Paolo, che per 

fortuna « si salva ». La terza persona non l'ho citata perché sta talmente sulle palle a molti 

(me compresa) che se potessi la cancellerei dalla vista. Per fortuna il suo contratto sta per scadere, e pare ormai certo che non glielo rinnoveranno, dato che i rapporti su di lei non 

hanno potuto essere molto favorevoli. Sinceramente, se fosse rinnovato e se io fossi costretta a lavorare (nonché convivere) con lei, come ho detto a Paolo metterei seriamente in discussione la mia permanenza qui. Per un motivo molto semplice: non sono venuta in Africa (abbandonando tutti gli affetti e le cose belle che ho  a casa mia) per sopportare una pazza isterica, che urla tutto il giorno con gli africani e che si sente un genio indiscutibile.

In questi giorni ho cercato di  stare calma  e fregarmene, ma solo perché so che se ne va. Diversamente non potrei accettarlo. Al di là del fatto che è una persona con atteggiamenti oggettivamente poco gradevoli, ciò  che più mi manda in bestia (e su cui non accetto mediazioni) è il suo comportamento con gli africani, con le persone che lavorano in ufficio con noi. Io non arriverei mai ad usare il suo tono neppure a casa mia, figuriamoci qui !  Li tratta come i suoi schiavetti, naturalmente deficienti. Li rimprovera di continuo, per cose inesistenti, anche per come si muovono. E  totalmente incapace di ascoltare quello che altri hanno da dire, e sul lavoro fa un sacco di stronzate, ma naturalmente si sente una gran manager, in grado di gestire chissà ché e quindi di insegnare a questi incompetenti come fare a vivere.

Ora, la mia etica professionale mi porta letteralmente ad odiare persone simili. Non le sopporto più, non le tollero. Ed è un odio del tutto razionale. NON VOGLIO sopportare o comprendere persone del genere. Sono persone che non dovrebbero stare qui.

Se noi possiamo permetterci (...possiamo ? !)  di essere schizzati e nevrotici a casa nostra, 

non possiamo permettercelo qui. Noi siamo qui per le necessità di questa gente, non siamo 

qui in vacanza. Gente che vive il dramma della guerra, della miseria, di un quotidiano senza rubinetti in cui lavarsi, e senza soldi per comprarsi nulla. Non possiamo permetterci di fare critiche. Non abbiamo niente da spartire.

Che cosa può avere da insegnare una ragazzetta bionda, che si è laureata in Italia senza nessuna fatica, è cresciuta tra le discoteche e nella sua vita avrà lavorato si e no un anno!?   Cosa può  avere da insegnare un bianco simile, a gente capace di farsi 40 km. a piedi, scalza, su strade sterrate, sotto il sole, carica di taniche di vino di banana, per sperare di venderle al mercato e fare quattro soldi?

Se io fossi in grado di dominare il mio corpo al punto di fare solo un decimo di questo sforzo, allora mi sentirei in grado (forse) di dire qualcosa. Ma schiatterei dopo un km., fatto naturalmente con le scarpe.

Noi, noialtri bianchi, abbiamo solo il nostro intelletto, di cui ci diamo tante arie, come se fosse un merito. Ma non lo è. Se sappiamo delle cose, se abbiamo delle competenze, è solo perché abbiamo avuto il culo di nascere in un paese ricco, che da decenni non conosce guerre, dove abbiamo potuto crescere con una marea di stimoli e conoscere miliardi di cose, qui nemmeno immaginabili.

Se fossimo cresciuti in quattro pareti di fango, e se tutto il nostro mondo conosciuto fosse costituito dalle colline che si possono raggiungere con lo sguardo ... non ci daremmo tante 

arie da manager !

Non abbiamo nessun diritto di criticare. Se un bianco che lavora qui non è in grado di 

accettare gli africani per quello che sono, perché (secondo lui) sono lenti e non capiscono 

certe cose, perché non se ne torna a casa sua ? !

 

Purtroppo, mi rendo conto che è ancora così  tanto vera una considerazione che ricordo dall'autobiografia di Nelson Mandela: per quanto un nero potesse salire in alto, era sempre considerato inferiore al più mediocre dei bianchi.  Un bianco, per quanto possa essere idiota, stronzo, incapace, trova sempre il modo di vendersi bene e, soprattutto qui, è un ricco, ha potere. Un nero, per quanto possa fare bene, al minimo errore è aggredito perché “vedi, è il solito africano, sono sempre così, NON IMPARANO!”

Ho costruito la mia vita e il mio lavoro sul tentativo di far comunicare culture diverse, di far amare la bellezza della diversità. Ma se mai sarò  razzista verso qualcuno, credo che sarà a causa dell'arroganza bianca. Di questi bianchi stronzi che dopo secoli di indecenze e di soprusi, continuano a non capire. Qui se ne vedono tanti. E sono stanca di far parte di una razza cosi .

 

Punto n. 3 : a proposito del Burundi, dei militari, della guerra.

My God.  Sto cominciando a capire cosa vuol dire vivere in un paese con un regime militare. 

La pesantezza che si respira è terribile. La gente ha paura.

Non sai mai bene a chi è che stringi la mano. La stessa gente a cui porti i viveri e altri aiuti, a sua volta è piena di odio e ha ammazzato chissà quanti altri. Non puoi parlare più di tanto, 

non puoi fidarti di nessuno. Devi essere attentissimo a fare foto. Ovunque ci possono essere militari pronti a dire che volevi fotografare chissà ché, e quando ho chiesto il permesso di fare foto ai bambini dei campi, mi hanno chiesto quale fosse l'obiettivo. (Credo che in realtà sarebbero stati ben contenti di mettersi in posa con le loro divise e i kalashnikov, ma non gliel'ho proposto).

Mi è venuta in mente la stessa aria di diffidenza che si respirava quando lavoravo in Sicilia, e per fare corsi per insegnanti mi trovavo a fare i conti con sindaci e assessori che poi sapevi implicati in giri di mafia anche pesanti, e ti chiedevi allora con chi è che avevi parlato.

Le facce sono sempre gentili, educate, persino aperte al progresso. Anche lì  c'era la stessa pesantezza, quell'aria da « senza via d'uscita » che ti opprime il futuro, e qualunque sforzo di miglioramento e di positività.

E mi sono ricordata di Falcone, quando si domandava  “Perché la Sicilia è così? Perché non 

può  esserci anche qui  l'atmosfera tranquilla dell'Umbria?”.  Ecco, diciamo che la Sicilia sta all’Umbria quanto il Burundi   ad un paese normale, in cui sia possibile vivere, sognare, 

costruire.

La presenza dei militari - indipendentemente dalla razza - è terribilmente oppressiva. E  una presenza ricattatoria. “Stai attento a come ti muovi. Attento a quello che fai”.  Ricorda un po’  il Signore medievale, che poteva liberamente gestire degli uomini (e ancor più delle donne) dei suoi possedimenti.

Non so quanto dispongano delle donne africane, ma delle donne bianche sono certamente affamati. Devi essere gentile e sorridente per averli dalla tua parte. Non troppo  sorridente se non vuoi trovarti le loro mani dappertutto.

Tra l’altro i Tutsi, cui appartengono tutti i militari burundesi, sono anche molto affascinanti. E  una bella razza, inutile negarlo, anche se può  darci fastidio per via della pulizia etnica che hanno intrapreso nei confronti degli Hutu (in Rwanda, è stato il contrario: la decimazione dei Tutsi da parte degli Hutu). Una popolazione del 15 % che riesce a tenere in mano il restante 

85 %. Ricordatevelo quando ridete e ballate al ritmo dei mitici « Vatussi ». Sono loro, sono proprio loro : i  BATUTSI. Ogni giorno, ne fanno fuori a decine dei loro conterranei.

E del resto, non mi riesce di provare solo schifo o rancore neppure per questa gente. 

Purtroppo, in qualunque parte del mondo (in Burundi come in Sicilia, nei bassi napoletani o 

nelle vie delle grandi metropoli dei paesi poveri) vale un principio tanto vero quanto banale: se un bambino nasce e cresce in un ambiente da schifo , non potrà essere altro che un adulto ... da schifo.  

Dubito che potrò scrivervi di nuovo prima di Natale, e soprattutto che ricevereste in tempo. Dunque : carissimi auguri. In particolare a Matteo, che fa 18 anni. Matti : spendi bene la tua vita ! Te lo dice la tua « vecchia » zia.

***

9.12.97  Bujumbura.                                                                                                    

Carissimi tutti, come state? Questa mia vi arriverà molto dopo le feste. Chissà come le avete passate ? ! Quanto vorrei avere vostre notizie !  Io... sto benissimo, e vi racconto un po’  di me.

Quando ho deciso di partire per questo paese, tra le varie cose ho pensato che sicuramente 

mi sarebbe mancato tantissimo il mare. E mi dispiaceva molto, dato che già mi manca quando sono in Italia, e lo vedo così poco.

Invece ho avuto una sorpresa stupenda, che me lo fa sentire meno lontano: il lago 

Tanganyika.

E  qualcosa di fantastico e quando ci si mette qui in contemplazione, su questa spiaggia di sabbia fine e queste dimensioni cosi  grandi, la  sensazione non è molto diversa. Il rumore delle onde, che amo, specie al tramonto, è lo stesso.

Ieri ci sono stata con un piemontese che lavora qui da circa due anni. C'era un vento incredibile, la sabbia veniva spazzata via ed è stato bellissimo fare foto.

Oggi ci sono tornata, a rilassarmi dopo la giornata di lavoro alla festa per i 50 anni dell'Unicef (abbiamo uno stand sul lavoro che facciamo tra i campi. Ci sono molte foto mie esposte). 

Viene una gran voglia di fare il bagno, l'acqua è calda. L'unica cosa (non piccola) che trattiene è la presenza di ippopotami e coccodrilli.

Pensare che è così grande, che tocca la Tanzania, giù, giù, fino allo Zambia... per uno spirito nomade fa venire una gran voglia di andare. Con una piroga. O anche solo con le tue gambe. 

E incontrare sempre nuovi mondi, e i nuovi sorrisi di questa gente stupenda.

Il viaggio... è peggio dell'appetito, che vien mangiando. Più vai e più andresti, perché più 

scopri e più ti rendi conto di quante altre cose ci sono da scoprire. E nessun timore, nessun « rischio » potrebbe valere una resa.  Timore di cosa ? Di una disavventura ? Quale rischio, di morire ? Oh, ma quello c'è sempre.  Con la differenza che 10 minuti di contemplazione su un 

lago Tanganyika al tramonto, valgono almeno 10 anni di pantofole !

Ci sono quei brevi momenti, magici, in cui senti la  vita in un modo cosi  incontenibile, che 

pensi che anche se morissi in quel momento non te ne importerebbe nulla, e saresti felice per quello che hai avuto.

Torno a casa, e mi metto a scrivere. Forse a voi fa piacere, ma sappiate che vi sto brutalmente  usando! Siete diventati peggio del mio diario, sceso decisamente al secondo posto! Ho un bisogno incredibile di comunicare: le sensazioni sono fortissime, e non posso telefonare a nessuno, scrivere lettere personalizzate a nessuno  e tanto meno riceverle da nessuno!!! Non mi resta che inondarvi con questi monologhi (lo so che un giorno vi vendicherete!).

Qui a Buja comunque va un po’  meglio.Qualche telefonata col resto del mondo si può  fare, e c'è persino il fax. In casa siamo io, Paolo (che non sta quasi più a Muyinga dato che da dicembre è diventato il coordinatore nazionale. Poveretto!) e Johnny. C'è un'atmosfera molto carina, a volte buffa. Spesso manca la luce per parecchie ore al giorno, cosi  siamo costretti a lavorare la sera, e siccome è la stessa casa in cui mangiamo e dormiamo (a Muyinga casa e ufficio sono separati) c'è qualcosa di diverso dall'essere colleghi o amici. Mi sembriamo… i 3 porcellini.

Johnny (= Giovanni) è un tipo abbastanza simpatico. Scherza sempre, è molto ironico. 

Mi fa fare delle figure ! Per esempio, alla festa dell'Unicef, allo stand per l'informazione contro l'AIDS, dove distribuivano volantini e pacchi di profilattici, arriviamo lì  e (senza preavvisarmi) fa : « Vorremmo provarli ! » Loro lo guardano un po’  increduli, e lui insiste convinto : « Sì, li vorremmo provare, qui, io e lei, per vedere se sono di buona qualità! ». Poi dopo un po’  si capisce che hanno a che fare con uno un po’  sui generis.  Un collega cosi  ci vorrebbe 

sempre. L'unica cosa che mi rompe un po' è la sua mania di parlare di sesso, ma si sopporta.

Paolo invece è davvero un ottimo compagno di viaggio. L'altra sera, mentre si stava cucendo 

un paio di cose, ne ho approfittato e lui... mi ha cucito una cosa mia che aspettava da un po’  !

Mi piace molto quando si riesce ad instaurare relazioni del tipo « prendersi cura dell'altro », scambiarsi le piccole cose che fanno piacere. E'  una cosa molto bella, che rende più dolce il quotidiano.

Per oggi vi saluto : vado a dormire ! Ciao.

 

***

Lunedì  16 dicembre. Muyinga.

E'  passato un mese esatto dalla mia partenza, ed è davvero volato.  Che bello essere qua, 

con calma. Poter stare con la gente, conoscerla poco a poco. Mi rendo conto che è così difficile, che certo non ci si riuscirebbe con un breve viaggio.  Per esempio, solo ora comincio 

ad andare a casa dalle persone, a fare visita, ad essere invitata a pranzo nelle case della 

gente di qui. Solo ora cominciano a fidarsi un po’.

 

Punto n. 4 : a proposito dei rapporti con i locali

Delle relazioni tra bianchi e neri un po’  ve ne ho già parlato, ma sarà sicuramente un tema ricorrente delle mie elucubrazioni, sia perché mi sta particolarmente a cuore, sia perché è complicato.

I rapporti tra bianchi e neri non sono certo uguali in tutta l'Africa. In Senegal, ad esempio, hanno imparato sicuramente a prenderci molto di più per i fondelli, a fregarci. In ogni caso, 

non è quasi mai un rapporto semplice, lineare, paritario.

Qui è terribilmente difficile, probabilmente perché dei bianchi ce ne sono relativamente pochi, 

e hanno soprattutto rapporti di lavoro (di gestione), non di turismo. Fatto sta, che si avverte un atteggiamento ancora di profonda sudditanza, e la cosa mi dà un fastidio da morire, e sto cercando di venirne fuori, con le persone con cui lavoro.

Per esempio, qui quasi non esiste darsi del tu (nemmeno fuori dal lavoro, tra gente della stessa età). Sono abituati cosi  dalla scuola, da quando sono piccoli. Solo che in francese il LEI diventa VOI, e sentire un collega che mi dà del voi... aiuto ! Non esiste proprio.  Bisogna insistere per farsi dare del tu, sia perché non ci sono abituati sia perché, soprattutto, ti 

vedono comunque come il Patron, per il solo fatto che sei bianco e che gestisci il lavoro.

E’ un bel casino!  Anche Paolo mi ha detto di averci messo parecchio per far capire che lui non è il Patron di un bel niente. (Non si sa se c è riuscito, dubito). Sto cercando di far capire, soprattutto a Prosper e Nestor, che dovrebbero imparare a rapportarsi con noi come persone normali, invece di avere sempre un atteggiamento come se dovessero stendere tappeti al nostro passaggio (c è poi il nostro contabile che è di un servilismo fastidiosissimo). E gli ho anche detto che dovrebbero imparare a mandare a quel paese un bianco che se lo merita, invece di stare sempre zitti e incassare.  Non si rendono conto che se i bianchi li trattano cosi  è anche perché loro glielo consentono, e non riesco a capire perché accidenti glielo consentono !

Io non sopporto rapporti non paritari, mi piace lo scambio. E poi qui ... c’è una marea di cose che non so, per cui posso solo chiedere il loro parere e avere fiducia. Pare che questo li sconvolga. Non sono abituati a persone (n.b. bianchi) che chiedono il loro parere, ma solo a eseguire quello che dice il capo, anche se dice stronzate (e non ascolta).  Naturalmente il mio comportamento li destabilizza un po’, sembra che io sia un animale strano (sono proprio un bianco?). Ma un po’ alla volta si lasciano andare. C'è il rischio che se ne approfittino un po’,

ma non mi preoccupa; poi si ritorna nei ranghi. Il rapporto paritario non è facile, neppure da noi (anzi ! Quanta gente c'è che preferisce essere caprona, piuttosto che prendersi 

responsabilità! La democrazia …è la più difficile delle relazioni).

Insomma, tutto questo per dire che avere rapporti di amicizia qui non è per niente facile. Molti bianchi se ne stanno in gran parte per i fatti loro, così  evitano lo sforzo.  

Siccome io di bianchi ne avevo già tanti a casa mia, non sono venuta qui per farmi un ghetto dorato.

E finalmente tra sabato e domenica sono andata con Prosper a visitare i nostri collaboratori, a casa loro, a conoscere i figli, le mogli, il modo di vivere, (erano cosi  emozionati, specie le donne. Peccato non parlare la loro lingua, poche sanno il francese) e uno degli autisti ci ha invitati a pranzo il giorno dopo, e finalmente mi sono fatta un bel pranzo africano, di quelli con le mani che tocciano la polenta di manioca nel sugo !  Naturalmente, tutti nello stesso piatto.

 

Punto n. 5.  A proposito della vita, della natura, della fertilità.

Questo ve lo racconto un altra volta, anche perché ho finito la pagina.  Ciao !

 

******

21.12.1996  Muyinga.  E  quasi Natale

Già, è quasi Natale. E’ la prima volta che lo passo al caldo, in genere sono partita subito dopo. Caldo si fa per dire. Qui siamo in alto, e a volte fa un freddo cane,  specie  durante gli acquazzoni equatoriali.

 

Vi racconto un po’  di « Piccole osservazioni quotidiane », tanto per darvi un idea delle mie giornate qui.

* Le zanzare che sbattono il muso contro la zanzariera  fanno un ronzio terribilmente 

incazzato. Non ti pungono, ma sembra provino un piacere immenso nel sapere che ti svegliano con un gran nervoso.

* Ho visto un posto bellissimo, il fiume che segna il confine con la Tanzania. Che voglia di andarci in piroga! Durante la fuga dei burundesi hutu, file interminabili di persone 

attraversavano intere colline per arrivare fino qui e passare dall'altra parte (su una barca condotta dai soliti strozzini), dove ora sono rifugiate e da cui un po’ alla volta stanno 

tornando.  Siamo stati colti da una  pioggia torrenziale e ci siamo trovati in una posizione un po’  alla Camel Trophy, ma le quattro motrici ce l'hanno fatta.

* E’ un’esperienza terribile essere sempre i diversi della situazione. Non posso andare da nessuna parte senza avere mille occhi addosso. Per strada, al mercato, a una festa, allo stadio... tutti ti guardano come un animale raro. Perché in effetti LO SEI ! Sei l'unico bianco 

(o ce ne sono altri due o tre) in mezzo a 1000/2000 neri. Sei tra i pochi con la macchina. 

Io poi sono l'unica con la macchina fotografica. Se metti insieme le tre cose, hai un cocktail esplosivo, e il risultato è: cortei di bambini che mi seguono ogni volta che mi muovo. Se voglio fotografarne uno, impossibile: 45!  Ieri mi sono resa conto ancora meglio della situazione di questa cittadina, fino a poco tempo fa. Mi hanno detto che non c'era praticamente nessuno 

di fuori. Non dico bianchi, ma nemmeno stranieri in generale. Tutto è cominciato con i rifugiati, per cui è arrivata la prima organizzazione internazionale, l HCR, poi sono arrivate le ONG, l'Unicef, e con loro gli stranieri e i bianchi. Insomma, come sempre sono le guerre che portano movimento ...e “innovazioni”(?).

* A volte sembra che i bambini mi guardino come la fata turchina ; altre volte, specie i più piccoli, hanno paura. Allora io mi diverto a dire che « è vero, i bianchi mangiano i bambini » 

(...si dice esattamente ciò  che noi diciamo dell'uomo nero...). Poi gli faccio le boccacce, li rincorro, loro giocano a scappare e si divertono come matti. Non sono abituati a questo tipo di rapporto con gli adulti, qui c è una fisicità molto diversa e quando li tocco ridono tantissimo.

* La rompiballe di cui vi avevo parlato qualche lettera fa (che è riuscita ad essere incazzata praticamente sempre da quando io l’ho vista, anche la sera della sua festa), è finalmente partita per il rimpatrio. DEO GRATIAS ! Finalmente si respira. In ufficio persino gli autisti non ne potevano più. Quando lei guidando prendeva le buche, urlava perché loro non l'avevano avvertita !!!

*  Ho saputo via radio di Marcello Mastroianni, e  mi è dispiaciuto molto. E’ un pezzo di cultura che se ne va. E dalle nostre parti di Cultura  ne è rimasta cosi  poca! Pensando a lui, ho 

entito un po’  la mancanza di un cinema. Di sedermi a vedermi uno di quei bei film che ti arricchiscono la giornata. Come quando (lo ricorderò  sempre) me ne andai da sola, a Roma, a vedere Schindler's list.  Che bel film !

*  Possiedo finalmente un’amaca!  Questo significa una svolta al mio quotidiano (...quando 

finirà la stagione delle piogge, dato che naturalmente piove sempre quando uno esce dall'ufficio...).

*  Non so cosa sia, forse l'aria di montagna, ma so che da quando sono qui ... mangio continuamente !

*  Qualche settimana fa abbiamo avuto una grossa donazione della Croce Rossa, quindi negli ultimi giri di formazione degli insegnanti, abbiamo portato tra i campi parecchia roba, e anche 

la copia delle foto che avevo fatto. Non se l'aspettavano. Dio che gioia hanno avuto nel vedersi, sia i grandi che i piccoli !  Beh, mi sono sentita tanto la Befana.  In fondo, portare 

aiuti umanitari non è molto diverso che fare di mestiere la Befana. Solo che hai un Toyota al posto della scopa.

Riprendo dal punto in cui vi avevo lasciato qualche tempo fa.

 

Punto n. 5.  A proposito della vita, della natura, della fertilità.

Io... non so come spiegarvelo, però  questo paese sembra un infinito giardino. Ci sono zone in cui le colline sono tappezzate di coltivazioni, metro per metro.  Banane, ortaggi, patate, 

legumi, caffè. e siccome gli appezzamenti sono piccoli, sembra di vedere tante innumerevoli aiuole, per chilometri. E poi ci sono file di eucalipti altissimi, vallate umide con distese di papiri, e acquitrini con le ninfee. Fai km e km senza vedere asfalto, né pali della luce, né alcunché di inquinante. Solo gente intenta al proprio lavoro, che al tuo passaggio alza lo sguardo, sorride, 

e saluta con la mano.

A un certo punto dietro una curva ti trovi una donna con i vestiti di qui: questi abiti lunghi, svolazzanti, lucidi come il raso e di colori intensi, magari giallo dalla testa ai piedi.  E tu allora rischi di sbandare davanti a questa apparizione. E ci si segue con lo sguardo. Lei ti guarda perché sei bianca (in macchina, su una pista dove magari non passano auto da mesi).Tu la guardi perché è fantastica. Con il suo giallo addosso e questo verde tutto attorno. Lei e nient'altro.

Non so come si possa spiegare, ma qui nonostante la guerra, la miseria, la vita dura che si fa, tutto sembra scoppiare di vita.  La natura come le persone, che sono sempre sorridenti, piene di gioia.

Tutto sembra dirti che la vita, pur con tutte le sue sfighe, è splendida. E per questo si fanno tanti bambini.  Il mondo intorno sembra dire « è cosi  bello fare bambini ! ».

E’ come se non vi fosse soluzione di continuità tra la rigogliosità dei boschi e delle coltivazioni, e i corpi di queste donne, con queste tette sempre piene di latte, questi bei sederi abbondanti,

e i bambini sulla schiena, tutto il giorno.

La vita quotidiana segue ritmi molto naturali.  Si va a letto presto, con il sole. Ci si sveglia presto, con il sole.

Si lavorano i campi, si va a prendere l'acqua (ed è lontana...), si mangiano cose semplici, 

senza prodotti chimici. Le cose coltivate con le proprie mani. Si fanno km. e km. a piedi, o in bicicletta. Si curano i figli. Nient'altro.

Eppure, sembrano sempre molto più felici di noi. Mi piacerebbe capire se lo sono davvero. A volte mi domando se non siamo noi che abbiamo sbagliato tutto, e che per superare la fatica 

di una vita così, paghiamo prezzi molto maggiori.

 

24.12.1996 Muyinga.  E’  Natale.

Tutti i giorni qui sono belli, ma oggi mi è piaciuto particolarmente, perché abbiamo fatto una cosa un po’ strana.  In uno dei campi, uno di quelli più lontani, siamo andati appositamente 

per costruire i banchi della scuola materna, con la gente.  In questa scuola i banchi sono più 

o meno tutti uguali, ma da quando c è il campo degli sfollati (e gli insegnanti regolari sono scappati o durante la guerra sono stati ammazzati) i bambini che frequentano sono misti, tutti insieme, di tutte le età, dai quattro ai dodici anni.

E siccome c'erano molti banchi un po’ rotti e malandati, ho chiesto all’amministratore locale il permesso di ridurli per farne banchi piccoli, unendoli tra loro per farli quadrati, come nelle 

nostre materne. Alla gente sembrava una cosa un po’ strana.  Volevano essere pagati e io ho fatto la parte di quella che si incazza: “Porca miseria ! E' per i vostri bambini che lo fate, 

mica per i miei! Con tutto quello che vi passiamo gratis, adesso volete dei soldi per una cosa del genere!? E tutte le coperte, il cibo, il salario degli insegnanti...? !”. Volevo che capissero l’importanza di lavorare per la scuola dei loro bambini (purtroppo spesso ho l'impressione che 

non si dia molta importanza alla scuola, perché i genitori stessi non ci sono andati e perché comunque gli hutu sono sempre stati oppressi, e anche se andavano a scuola per qualche 

anno, poi sapevano di non avere nessuna possibilità di cambiamento e di ascesa nella scala sociale). Comunque: il primo banco è stato fatto, con tutti i bambini intorno che guardavano, 

(e guardavano anche me mentre facevo la dovuta documentazione fotografica dei lavori;

 ormai sanno che poi le foto le vedranno),  con i più piccoli  che venivano usati da misura, e quando finalmente il lavoro è arrivato alla fine, con tanto di panca, tutti hanno visto quanto quei piccoli erano buffi e belli sui loro banchetti !

Sono banchi un po’ sbilenchi, fatti con seghe a mano, pochi chiodi, nessun metro. Ma sono banchi, e sono fatti dalla gente. E, insomma, mentre li guardavo lavorare, pensavo a quegli uomini e a quelle donne che, a Reggio Emilia, subito dopo una grande guerra mondiale si rimboccarono le maniche, per costruire in pietra le scuole dei loro figli, perché loro dovevano lavorare. E quella scuola è diventata col tempo un esempio pedagogico per il mondo intero. Speriamo che questi bambini possano almeno crescere in pace.

 

Comunque, oltre a questo, oggi è anche stata la prima volta, da quando sono qua, che ho avuto voglia di piangere.  E non è perché è Natale (grazie a Dio, credo che per me sia Natale quasi tutto l'anno).  Diamo piuttosto la colpa alle mestruazioni in arrivo. Noi donne almeno una volta al mese ci “inventiamo” un buon motivo per piangere. Cioè, non è un motivo irreale, solo che magari nel resto del mese ci conviviamo, poi per qualche giorno esplode.

E oggi è esploso perché questi bambini è da otto mesi che non vedono un medico.  Perché alcuni sono talmente malnutriti da avere i capelli biondi.  Altri hanno delle infezioni sulla testa con delle bolle che a guardarle ti prendono allo stomaco. Perché hanno vestiti che non sono vestiti, ma sono buchi con qualche striscia di stoffa.  Perché qui se ti rompi un braccio te lo tieni rotto. Perché... perché qui qualunque sfiga hai,  te la tieni.  Non hai nessuno, assolutamente nessuno a cui  rivolgerti.

 

26.12.96

Ho passato il Natale con Paolo e il responsabile locale dell'Unicef. Prima Paolo ed io siamo 

andati a messa in una bella chiesona di campagna, gremita di gente (dio quanti occhi puntati

 su di noi, appena entrati ! Avranno pensato “e questi due da dove sbucano?!”.  Due ore di messa senza capire una parola, ma è sempre Natale). Poi con due camionette dell' Unicef 

siamo stati a distribuire  quintali di biscotti, caramelle e casse di Fanta a centinaia di bambini 

di due grossi campi di sfollati.

Come direbbe Freud “ho realizzato un mio desiderio primordiale”. Mi sono ricordata che è più 

o meno da quando ero piccola che volevo partire per l'Africa e fare le cose che sto facendo. (...E Freud sosteneva che solo realizzare i desideri infantili porta la felicità!).

 

Oggi abbiamo cominciato la giornata con la notizia che c’era tutto un quartiere di Muyinga in mano alla polizia per delle perquisizioni. Pare ci siano degli  infiltrati, rientrati dalla Tanzania, 

con delle armi. Ne hanno arrestati diversi. Chissà che fine fanno.

Pochi giorni fa, in una prigione, hanno ammazzato 30 persone perché si erano lamentate delle condizioni dentro la cella (la vita nelle prigioni qui è allucinante). Hanno trovato il modo di fare spazio.

Qualche settimana fa, 500 persone ammazzate dentro una chiesa. Le nefandezze delle 

guerre si ripetono nel tempo e nello spazio, con una particolarità di dettagli che non ha 

bisogno di apprendimento.  I massacri nelle chiese infatti, mi ricordano tanto quelli di Marzabotto, 50 anni fa.

Da questa terra meravigliosa e triste, tutti i miei auguri per un  97 di pace. Per tutti. 

E come si dice in kirundi : AMAHORO !

 

***

Muyinga, 4 gennaio 1997

 

Carissimi tutti:  BUON ANNOOO !!!!!!

E grazie a tutti coloro che mi hanno mandato fax per il Natale. Mi avete fatto sentire un gran calore, di cui avevo bisogno. E poi così sono riuscita a sapere un po' i vostri spostamenti, i vostri progetti. Vedo che non sono l'unica a zonzo.  Ho passato tutto il Primo dell'anno in posizione orizzontale.  E non è (...ahimè) perché abbia trovato un focoso amante burundese!  Ero, altresì, in stato semicomatoso, raffreddatissima, dolorante dalla testa ai piedi. Rocky mi   ha fatto compagnia, dato che è rimasto anche lui acciaccato tutto il giorno, sdraiato fuori   dalla porta. "Primo dell'anno acciaccato" speriamo non equivalga ad un "acciaccato tutto l'anno". Paolo è stato affettuosissimo e mi ha raccolto fiori e scaldato con il brodino (...sa che ne ho una predilezione).  Ora mi ritrovo qui sola sola, per la prima volta, senza neanche tante cose da fare, dato che anche qui le scuole sono in vacanza. Ho saputo da mio fratello che   non tutte le lettere che ho spedito sono ancora arrivate. SIG!  Non so se avete idea di quanto tutto ciò possa essere frustrante per chi è qui!  Uno non ha quasi altri mezzi per comunicare con l'esterno che questo computer. Fa acrobazie da equilibrista per spedire la posta quando   c'è qualcuno che esce dal paese... e poi impara che il tutto non ha alcun esito!  Che la posta che ha spedito invece di metterci dieci giorni si è persa, oppure arriverà tra due o tre mesi. SOB!  Motivo per cui... da oggi le lettere LE NUMERO! Così mi saprete dire se arrivano o no (magra consolazione...). Non riesco a capire comunque perché non siano arrivate lettere spedite dal Rwanda, e neppure dal Kenya. Prima dell'embargo, in Burundi il servizio postale funzionava molto regolarmente.  Bueno :  vi racconto altre piccole osservazioni quotidiane.

* Ho ereditato uno zoo!  Il 2, Paolo è tornato a Bujumbura, lasciandomi qui con questo cane distrutto, una micia e tre piccolini di un mese e mezzo. La micia è fantastica. L'ho battezzata Rompina perché non fa altro che venire a rompere, strusciandosi tra le gambe per chiedere  cibo. Però è stupendo guardarla quando nutre i suoi piccoli. Disperata, come tutte le mamme, finché non le do qualcosa. Allora, se ne sta in disparte, lascia che i tre pargoli si riempiano la pancia, li guarda tutta contenta, e alla fine prende quello che rimane.  Ho una casa splendida tutta per me! 

* Non vi ho parlato bene di questa casa: è molto particolare. E' senz'altro la più  bella di tutta Muyinga! Anche le altre sono belle, con dei bei giardini, balconi... Questa però è particolare perché non è bianca, come la maggior parte. E' interamente di mattoni, di quelli a forno a   mano che si  trovano qui, idem le piastrelle del pavimento. Insomma, è di quelle case che da  noi si definirebbero rustiche o stile antico e costerebbero alcune centinai di milioni. E’ tutta color mattone e legno naturale e ha la mansarda e belle finestre. Ma qui costa poco, per lo stesso motivo per cui da noi varrebbe tanto: l’essere tutta fata a mano.  Mi hanno detto che   è stata costruita anni fa da un’impresa edile e doveva rappresentare il «prototipo», la loro vetrina. Motivo per cui vi hanno condensato il meglio delle loro  proposte. E' forse l'unica casa della  città che non ha mai problemi d'acqua, neppure durante la stagione secca, perché l'hanno corredata di un ottimo sistema di raccolta. Insomma, "sono cascata bene". L'affitto in Burundi non è molto alto (a Bujumbura comunque di più che qui).  Ciò che fa salire molto il costo  mensile è la necessità di guardiani, 24 ore su 24.  Tutte le case degli espatriati li hanno. Naturalmente sono disarmati, ma una certa protezione te la danno. (O almeno... te ne danno l'impressione!).

*  Qualche settimana fa è ritornato a Muyinga l'HCR, il Commissariato per i Rifugiati, che se ne era andato quando erano stati rimandati in patria i profughi rwandesi. Ora stanno preparando il rientro di centinaia di profughi burundesi dalla Tanzania. Abbiamo con loro incontri periodici soprattutto per il discorso sicurezza. Sto imparando tantissime cose, e questa collaborazione tra Ong, agenzie dell'Onu e istituzioni locali è molto interessante. Nota di colore: con l'HCR è arrivato anche il telefono satellitare, così adesso qualche chiamata si può fare, ma costa un sacco. (50 $ per venti minuti).

*  Ho saputo che finalmente mia madre... sa esattamente dove mi trovo. Fino a pochi giorni fa sapeva che ero in Africa, ma le avevo nascosto il Burundi, onde evitarle un infarto. Non sopporto di mentire, mi sembra un tradimento allucinante. Voglio dire: tutti potevano leggere   le mie lettere... tranne lei! Facevo veramente fatica a sopportarlo. Per fortuna l'ha scoperto   da sola, comportandosi come sempre alla tenente Colombo.

* Passo dei bei pomeriggi con Patricia, la californiana, quella con cui mi trovo meglio tra i bianchi di qui. Parla inglese e swahili, ha quasi 50 anni ma gliene dai 10-12 di meno, due figli grandi, separata da anni. Prima del Burundi "s'è fatta" l'Armenia, l'Iran, i campi profughi in Tanzania. E' infermiera e qui fa dei bei programmi per i formatori di educazione sanitaria. E' una misantropa, come me. Probabilmente per questo c'è un bel feeling. Una cosa che le invidio parecchio è la sua capacità di disegnare. Ha deciso di farmi dei ritratti, così quando abbiamo   un po' di tempo ci mettiamo in poltrona in questo bel giardino, io guardo l'Africa, lei cerca di disegnare me che guardo l'Africa, ed entrambe ci ascoltiamo, a seconda dei momenti, da   Tracy Chapman al Serse di Haendel. Una cosa incredibile di questo lavoro è come di colpo fa entrare nel tuo quotidiano persone mai viste prima. Diventano i tuoi punti di riferimento locali. 

Si mangia spesso insieme, ci si racconta il mondo... E poi... altrettanto di colpo te le toglierà, 

e ciascuno proseguirà la propria storia.

*   Tutte le sere alle 7 abbiamo "RAI International", un'ora di programma italiano. L'unico TG, dura circa 20 minuti, così distribuiti: i primi 5 per sapere cos'ha fatto e detto il Papa, 8 per le solite bagarres  dei politici italiani (chi ha litigato con chi) e la cronaca, 5 per le partite di calcio. I restanti due ci condensano: guerre in Africa, bombe in Algeria, ostaggi all'ambasciata giapponese in Perù, processo di pace in Palestina, uccisioni da parte francese in Ciad, Cecenia. Il resto dell'ora italiana (durante la quale generalmente spengo) sono riusciti una volta a 

farcelo passare con Rosanna Fratello, un'altra con Gino Latilla, e poi con Mina che canta La Banda, e altre ciliegine di questo tipo. Per fortuna captiamo la radio francese e la BBC, che ci fanno sapere cosa succede nel mondo.

*  Tutte le sere alle 8 abbiamo il radio-check : contatto tra molte delle Ong italiane in Burundi e alcune missioni in Zaire. Ci diciamo cosa succede, parlando in codice. Quando "piove" vuole 

dire che si è sparato. Ci scambiamo notizie sulle zone e i momenti di tensione, su cosa fanno i lunghi e i corti, ma anche sui sacchi di fagioli da portare in un posto, o il cemento in un altro.

Le osservazioni quotidiane potrebbero continuare, ma ho sonno. BACI. E  'notte.

 

9.1.97  Muyinga.

Ricordate che vi avevo detto dell' "acciaccamento" mio e di Rocky ai primi dell'anno?  Beh, Rocky era da un po' che stava male e Paolo lo aveva anche portato dal veterinario. Ma non ce l'ha fatta, non si sa cosa sia stato (subito alcuni hanno parlato di magia nera). Uno dei guardiani lo ha trovato, ormai senza fine, in un angolo un po' nascosto del giardino. Mi ero abituata alla sua presenza, e poi mi sentivo più protetta da lui che dai guardiani. Ora sono proprio da sola. Lo abbiamo seppellito. Quando l'ho comunicato a Paolo, che era a Buja, si è sentito davvero affranto.

In questi giorni sto leggendo un libretto di un autore mozambicano, che comincia con una frase bellissima, che vi voglio riportare, perché corrisponde esattamente a ciò che sentivo, ma che non sarei riuscita assolutamente ad esprimere così bene.

 

 

Ciò che più duole, nella miseria, è l'ignoranza che essa ha di se stessa.

Messi di fronte all'assenza di tutto,

gli uomini si astengono dal sogno

disarmandosi dal desiderio di essere altri.

Esiste nel nulla un'illusione di pienezza

che fa fermare la vita e imbrunisce le voci.

 

Mia Couto, "Voci all'imbrunire"

 

 

Ed era proprio sul sogno che le mie elucubrazioni stavano transumando.

 

Punto n. 6. Della magia dell'utopia

Astenersi dal sogno. Credo che sia la fine di una vita.

Se non hai la capacità, la possibilità di proiettarti, di immaginarti altro, sei sconfitto.  Ed è esattamente ciò che pensavo quando vi scrissi in una lettera (chissà se vi è arrivata...) a proposito dei bambini di qui, che non hanno minimamente la possibilità di immaginarsi diversi da quello che sono, e che sono e sono stati i loro padri.

Ognuno di noi coltiva un sogno, ed è quello che lo fa andare avanti.  Un ragazzo che dà esami all'università, una madre che aiuta i figli a fare i compiti, anche l'imprenditore che gestisce una

società, e che si crede concreto e materialista. Ognuno segue la propria proiezione, il proprio progetto. Non sa minimamente se lo realizzerà. Potrebbe morire il giorno dopo o avere mille altri impedimenti. Ma ha un progetto nella testa, ed è come avere un motore.

Mi viene in mente un'altra frase, terribile, da un altro libro, che lessi anni fa, sui bambini di strada in Brasile.  Una bambina di 10-12 anni, già da tempo avviata alla prostituzione, chiedeva al giornalista "Ma non si può proprio nascere di nuovo?". Aveva già assimilato la sconfitta. La sua vita non poteva essere che quella, "per l'eternità". Non era più possibile pensare un cambiamento. Per questo, per i bambini, il sogno dovrebbe essere un diritto.  Senza,  puoi solo lasciarti morire, come una foglia priva di energia, in balia del tempo.

Qualche giorno fa, ho visitato una missione di padri italiani (veneti, tanto per cambiare), in un posto molto bello, vicino al lago Rweru, ai confini col Rwanda. Mi è sembrato per un attimo di essere tuffata nel Nordamerica del XVIII secolo. PIONIERI.  E' incredibile quello che sono riusciti a fare, stando qui da più di vent'anni. Ed è davanti ad esempi simili che ti rendi conto di quello che può fare un uomo (o una donna)  che crede profondamente, fermamente, nella propria UTOPIA.

Avere fede nelle proprie convinzioni è l'unica strada che può darti qualche possibilità di successo. Niente e nessun altro te la può dare. Come dire (parafrasando ad un tempo Gandhi, Cristo e Maometto) che davvero la fede fa camminare le montagne.

 

Punto n. 7.  Della sacralità

A proposito di Maometto: proprio oggi, 9 gennaio, giovedì, è cominciato il Ramadan. Per me, a volte tendente al mistico, c'è un'atmosfera sublime.  La dimensione del sacro aleggia nell'aria. Provo una stima profonda - e non poca attrazione - per questa gente che si alza presto ogni mattina e se ne va alla  Moschea, e poi ci torna a mezzogiorno e poi alla sera, e resta un mese mangiando una volta al giorno, astenendosi da ogni tipo di divertimento, dalla danza ai rapporti sessuali.

Mi piacerebbe molto andare alla Moschea, mescolarmi, anonimamente, con un velo in testa come le altre donne. Ma è consentito solo ai musulmani, e io certo non passerei inosservata, inoltre non capirei una parola. Se sapessi un po' di swahili ci proverei, dato che le preghiere sono in arabo ma il resto delle funzioni in swahili.

Quello dei musulmani qui, è un mondo a parte. Non nel senso che vivano chiusi o separati, al contrario. Nei paesi musulmani dell'Africa "nera" non ci sono fenomeni di fondamentalismo. Ma nel senso che hanno una cultura loro, loro tempi, loro tradizioni, loro musica, loro cibi. (E dunque più livelli di diversità si intersecano: quella etnica tutsi e hutu, quella religiosa cristiani-musulmani. Sul piano religioso, tutsi e hutu convivono tranquillamente, e vanno insieme alla Moschea). Vivono per la maggior parte nel quartiere Swahili, che occupa tutto un lato, molto vasto, a ovest della città. Ed è il più particolare. Mi piacerebbe molto abitare lì, anche se ci sono problemi d'acqua. E' una somma di città e villaggio, con le strade di terra, tutte un buco, e le case tipiche con in cortili interni, abitate da più famiglie, che fanno da mangiare insieme, all'aperto, nei fornelletti bassi a carbone, e stanno sempre insieme.

E' molto povero, ma mi dà l'idea che un giorno finirà come tutti i quartieri poveri, che poi diventano i più ambiti, proprio perché i più "caratteristici". Come Trastevere a Roma, i Navigli a Milano, la zona del Pratello o la Cirenaica a Bologna. Un tempo erano tutti ghetti fecciosi e puzzolenti, ottimi nascondigli per delinquenti e belle di giorno.

Chissà perché i ricchi, a un certo punto, finiscono per volere ciò che era dei poveri, e che un tempo denigravano.

Alle sei del pomeriggio, comincia la preghiera. Fuori dalla Moschea, banchetti gremiti di cose semplici, orientali, per i credenti che hanno digiunato tutto il giorno. Tutti accorrono al richiamo del muezzin, una porta per gli uomini, una per le donne. Ed il sole tramonta proprio dietro il tempio, cosicché il quarto di luna simbolo dell'islam troneggia davanti ad un sole infuocato, e sembra richiamarti alla potenza di Dio.

Sento molto la dimensione di sacralità che si respira a Muyinga. Un po' come quando giri per Assisi e ti sembra di sentire S.Francesco nei muri delle case. I musulmani praticanti, sono molto più coerenti dei cattolici praticanti. Plasmano la loro vita, il loro quotidiano con le regole coraniche, dunque non puoi separare nettamente religiosità e laicità. Ed il sacro permea ogni momento della giornata.

E' qualcosa che mi colpisce molto, essendo quella sacra una dimensione che amo profondamente, giacché è l'unica davvero inviolabile del nostro essere. Quella in cui nessuno, per quanto ci provi,  può entrare, sondare, giudicare. E' tua e solamente tua, e qualunque cosa ti succeda o altri ti facciano, almeno quella ti appartiene fino alla fine!

Sono qui da neppure due mesi e vi ho già tediato con 7 elucubrazioni, che fa una media di circa una a settimana.  Immagino cominciate ad augurarvi che io non stia via troppo a lungo !

Ad ogni modo, so già che la prossima volta vi parlerò del mio lavoro, perché sto facendo un sacco di cose splendide.   Certo… mi piacerebbe che qualche lettera vi arrivasse !

Anyway : Happy  97 !

Venerdì 31/1/97 - Muyinga - h.18

Ci sono giorni particolarmente fortunati. E ci sono ORE particolarmente fortunate! E proprio poco fa, in meno di un'ora, ho avuto DUE buoni motivi per "fare festa". 1, il più importante: LA FIRMA DEL CONTRATTO CON L'UNICEF. L'aspettavamo dall'inizio dell'anno, dato che il progetto per cui io lavoro finiva a dicembre e doveva essere rinnovato fino alla fine dell'anno scolastico. Si sapeva che sarebbe stato rinnovato ma aspettavamo la fatidica formalizzazione, ...senza la quale non arriva un soldo!  E io mi sentivo sprofondare perché non avevamo più una lira (anzi: un franco-bu) per pagare tutti gli stipendi. E andare ogni settimana nei campi, dove la gente è poverissima, e dire ai collaboratori "Non abbiamo i soldi per pagarvi" mi faceva stare da schifo. Mi sarei vergognata da morire.

Naturalmente pagheremo in ritardo, dato che è già il 31, ma almeno si intravede la scadenza!

Appena Paolo me lo ha detto, al telefono pubblico, ho sentito il bisogno di "brindare" e tornando a casa... ho trovato il    "motivo di festa": dopo due giorni di buio... è tornata l'elettricità!!  WAW!

Qui la luce l'abbiamo sempre solo per poche ore al giorno, e ti devi organizzare le cose da fare in funzione di quelle ore. Ma essere completamente senza vuol dire essere senza strumenti di lavoro, senza acqua calda, senza  contatto radio, senza carica batterie per le radio portatili (che noi dobbiamo avere sempre dietro, per motivi di sicurezza) senza niente! Naturalmente abbiamo il generatore, ma non è sufficiente e consuma troppo, e la benzina ha prezzi assurdi, per via dell'embargo... insomma, è un casino!

Dunque: mi sono trovata a casa CON LA LUCE, che mi ha consentito di sentirmi una bella cassetta di Whitney Houston a tutto volume, e mi sono potuta concedere alcune di quelle cose che eviti quando devi fare i conti al minimo: birra e formaggio!  (Qui il formaggio è introvabile e costa caro).  Probabilmente la tensione per gli stipendi da pagare mi aveva fatto consumare parecchie energie, perché quando mi è passata ho sentito quasi il bisogno di abbuffarmi!

 

Beh, per fortuna gli ultimi giorni sono andati bene. Se vi avessi scritto qualche giorno fa, avrei senz'altro cominciato questa mia diversamente. Il mese di gennaio infatti - che ha visto (SOB!) il mio 35° compleanno - è stato piuttosto faticoso.

Con il rientro dei profughi dalla Tanzania ci sono stati vari momenti di tensione, perché alcuni erano armati (e ci sono stati scontri oltre confine, tra lunghi e corti ).

Un giorno impariamo che i militari alla frontiera hanno fatto fuoco su un camion di persone. Famiglie di profughi che rimpatriavano: uomini, donne, bambini. Forse qualcuno ha dato fastidio, ha provocato. La risposta è stata la strage: 122 morti.

Per alcuni giorni l'HCR ci ha consigliato di non muoverci.  Bisognava dare il tempo all'esercito di spazzare via il lago di sangue, e di sbattere tutti in una bella fossa comune.

Tensione e angoscia sono rimasti nell'aria per parecchi giorni.  I sette militari colpevoli sono stati mandati a Bujumbura e il presidente non ha certo potuto negare l'eccidio. Ma poi in genere, regna la più totale impunità.

Oltre a questo, è stato un mese piuttosto incasinato anche sul lavoro, con la visita di una settimana di un supervisore da Roma (che ci ha stremati) e poi, per un'altra settimana, un'altra visita, della responsabile amministrativa, che ci ha stremati a sua volta ma ci ha dato una grossa mano fornendoci tra l'altro un nuovo programma (geniale!) per la gestione della contabilità e della rendicontazione.

Un giorno poi mi sono trovata la visita, del tutto a sorpresa, di tre rappresentanti dell'Organizzazione dell'ONU per i Diritti Umani.

Un tipo malgascio, con lo sguardo profondo, mi ha chiesto di parlare in privato, lontano da orecchie burundesi, assicurandomi che il mio nome non sarà fatto "a meno ché io non insista". "Non insisto le assicuro, non insisto affatto!"

E ci siamo scambiati parecchie informazioni "interessanti". Mentre gli parlavo, mi sono resa conto di avere un momento di commozione, di cui probabilmente si è accorto. Quando mi ha chiesto di citargli, aldilà di violenze gravi, qualche eventuale "diversità di trattamento ai danni di un'etnia".

E io non trovavo le parole. E nel silenzio, guardandomi, lui ha dato la risposta per me: "E' talmente evidente".  Confermo:  "E' talmente evidente!".

E poi siamo scesi nei particolari, e gli ho detto ciò che sapevo.  Qui non ci sono (che io sappia) violenze gravi, ma soprusi tantissimi, ai danni dei corti, evidentemente. Lui invece mi ha esposto anche esempi di altre  zone del paese con violenze gravi, alle donne, sparizioni di bambini che vengono poi arruolati a forza nell'esercito.

Non so quanto sia durato questo colloquio, ma è stato bello. Mi sembrava che ci sentissimo entrambi molto in sintonia, in un comune dolore per le cose di cui stavamo parlando.

 

Beh, come succede con il telecomando, spostiamo lo stato d'animo che questa mia potrebbe generare. 

*…ABBIAMO UN NUOVO CANE! Un cucciolotto stupendo, che ci sta concimando la casa con le sue pipì e le sue cacche. Questa casa, dopo la morte di Rocky, non poteva stare senza un cane. Naturalmente la micia non ha evitato abbondanti manifestazioni di gelosia.

*Da qualche giorno “possiedo” una mountain bike! Me l'hanno prestata i saveriani di Bujumbura. Che meraviglia !  Mi mancava tantissimo una bicicletta. Mi piace questo “avere” senza possedere nulla. Avere delle cose, costituisce un limite enorme alla libertà. Io qui, « ho » una splendida casa, un’amaca, un cane,  4000 bambini da seguire, la bici, ... Senza che nulla mi appartenga.

Avevo detto che vi avrei parlato delle tante cose che sto facendo, ma in questi giorni non sono riuscita a farlo. Rimando alla prossima lettera. Per adesso vi informo che sarò  in Italia dalla seconda metà di marzo, fino a Pasqua, e poi forse tornerò  qui per altri 2-3 mesi, per portare a termine questo progetto (ma non è sicuro).

Vi ringrazio tanto per i tanti fax che mi sono arrivati. Voi non avete idea di quanto piacere facciano, quando si è cosi  isolati da tutto, specie nei momenti di tensione, che come vi ho detto non sono mancati.  Ho dovuto fare un classificatore con tutta la mia corrispondenza privata, e spesso mi rileggo le vostre lettere, così  calde e dolci, per sentirvi un po’  qui con me. Mi raccomando : CONTINUATE ! ! !

Un abbraccio forte a tutti e a presto.

 

***

4 Febbraio '97, martedì, Muyinga.

Carissimi tutti,

tra non molto sarò a casa (... Inscià Allah!). So già che mi tufferò da Feltrinelli perché ho un bisogno di libri che non ne posso più; e poi spero di vedere dei bei film, e poi me ne andrò nelle più tipiche osterie della mia cara città, per bere tanti bei bicchieri di vino rosso, che mi manca da morire, dopo mesi di birra!

Quando sarò a casa, vorrei fare una bella cenetta con tutti voi, in qualche localino. Dunque: verso il 20 marzo, tenetevi pronti. Nel frattempo... continuo le mie elucubrazioni solitarie.

 

Punto n. 8: "UNA SCUOLA DI  PLASTICA"

Vorrei intitolare così, se si potesse, questa mia esperienza burundese[3]. Le scuole "di plastica" sono quelle temporanee, costruite nei campi (di profughi, rifugiati, sfollati, rimpatriati, raggruppati, o quello che sono) con i grandi teli forniti dall'Unicef, montati velocemente su strutture di legno, con il tetto anch'esso in plastica e talvolta ricoperto d'erba, per rendere l'interno più fresco e più sicuro dalla pioggia.

Dovrebbero coincidere con un periodo di emergenza, che a sua volta dovrebbe lasciare il posto ad una fase successiva di stabilizzazione e normalizzazione. Chi è da molti anni in Burundi, ha purtroppo la percezione che questa seconda fase non giunga mai, o peggio, che ti dia solo l'impressione di arrivare, e che questo paese sia un perenne colabrodo: chiudi un buco, se ne aprono altri tre. Un periodo di pace e democratizzazione è seguito a ruota da una guerra, da un colpo di stato, da una rinascita dell'odio. Sempre debitamente fomentati dalle grandi "superpotenze", per la millenaria logica del divide et impera.

Non so come si possa spiegare a chi non lavora in campo educativo, ma è chiaro che essere qui non è semplicemente un'esperienza "umanitaria". Al contrario. Da un punto di vista professionale, è estremamente arricchente, e c'è qualcosa che assomiglia al  sentirsi "dentro l'avanguardia".

Lavorare qui, con questi bambini malconci, con una penuria di mezzi pressoché totale (il "pressoché" è quasi ridicolo; non saprei immaginarmi situazione più priva di tutto), costituisce un laboratorio incredibile di apprendimento, di sperimentazione, di lotta, pari a quello che un educatore poteva trovarsi a vivere nelle borgate romane degli anni '50-60, o nelle comunità di base latino americane tra i '70 e gli '80, o nelle periferie mafiose della speculazione edilizia, della Palermo di Aurelio Grimaldi. (E gli esempi potrebbero continuare).

Insomma, sul piano intellettuale è un'esperienza eccezionale, anche se va calcolato il parallelo, parziale, "svuotamento" dovuto al fatto di trovarsi in un luogo in cui è praticamente impossibile trovare libri, vedere film e confrontarsi, attuare una sorta di méta-elaborazione del vissuto.

 

Volevo parlarvi del mio lavoro, e mi accingo a farlo in un modo che spero non vi annoi. Del resto, lo ammetto, lo faccio anche per chiarire le idee a me!  Ho bisogno di inquadrare un po' il tutto, di mettere ordine tra le tante cose che sto facendo, e che faccio da anni.

Una delle particolarità maggiori del mio lavoro (che non saprei definire con una parola sola) è la sovrapposizione di tanti piani diversi, che si integrano di continuo, ma che spesso rappresentano tante diverse identità e professionalità, e richiedono tante diverse competenze. Questa, è una delle difficoltà maggiori, ma è anche uno dei maggiori elementi di fascino del mio arrabattarmi quotidiano, che è forse una continua sfida volta alla soluzione di problemi.

 

a) Il mestiere dell'educatore.

Se mi ritrovo a chiedermi -come spesso accade- perché lavoro da quasi 20 anni in campo educativo (avendo cominciato a meno di 18) e perché ho fatto di questo ambito una professione così coinvolgente, la risposta è che "E' successo". Voglio dire: non è che uno sceglie esattamente ciò che "vuole fare da grande". Fa una scelta a grandi linee, e poi, per il resto "ci si ritrova". Per una serie incredibile di coincidenze (carine), che si susseguono a meraviglia e si incastrano come le scatole cinesi (o le bambolette russe, se preferite). In un crescendo che può continuare all'infinito.

Molti anni fa ho più o meno scelto di lavorare nel sociale, per tentare di fare delle cose che mi dessero un qualche senso, oltre allo stipendio. Ma tantissime volte ho pensato che avrei potuto fare cose completamente diverse, per esempio l'architetto. Sì, mi sarebbe piaciuto proprio tanto. Allora un giorno mi sono chiesta "Ma perché proprio l'architetto? Che c'azzecco io con l'architettura?!". Ma poi la risposta l'ho trovata, e ho dedotto che l'educatore e l'architetto hanno un sacco di caratteristiche in comune.

Fondamentalmente, sono due grandi utopisti. Lavorano entrambi per realizzare sogni, immagini che si rappresentano nel cervello, e devono convincere altri che sono realizzabili. Dunque, lavorano entrambi su dei progetti, e questo significa proiettarsi nel futuro, quindi essere di fatto dei positivi, anche se a volte (ci) sembra di non esserlo. Non si spenderebbero tante energie a costruire, se non si provasse (più o meno consciamente) un amore per la vita che rasenta lo spasmodico.

E questo amore per la vita è forse alla base di un'altra caratteristica che sento comune: il gusto estetico. Ci vuole un incredibile senso della bellezza per proiettarsi a costruire la vita di altre persone. Forse questa è la mia molla fondamentale, insieme ad un'altra, ma questa non so quanto condivisibile con l'architettura: la politica.

Il mestiere dell'educatore è estremamente politico, specie quando lo si attua in certe situazioni, per cui il limite tra educatore, assistente sociale, sindacalista, difensore dei diritti umani, è estremamente sottile. E soprattutto se lo attui realmente per aiutare a sviluppare, per sostenere la crescita, non per insegnare alcunché.

 

b) Il mestiere del pedagogista.

Quello dell'educatore è un po' "l'involucro", l'insieme teorico ed etico generale, che ti consente di essere poi altre cose, a seconda delle esigenze, delle realtà che incontri. E dovrebbe essere un vestito, un bagaglio che ti porti addosso. Nel senso che quello dell'educatore non è tanto un mestiere, quanto un modo di essere e di concepire la vita (la maggior parte delle persone che lavorano in campo educativo, non è composta da educatori, ma da gente che insegna, e c'è un bel cavolo di differenza!!!).

Il ruolo del pedagogista, oltre ad essere più o meno conferito da una laurea (ahimè, ben poco riconosciuta) costituisce invece la dimensione scientifica, nonché quella che in altri ambiti chiameremmo manageriale (e riceverebbe ben altri compensi!).

Poiché un pedagogista non cessa (anzi) di essere un educatore, va da sé che per essere buoni pedagogisti bisognerebbe prima essere buoni educatori.

Il pedagogista è spesso, se non sempre, anche un formatore. E un formatore che non sia un buon educatore... non può essere un buon formatore!

Il pedagogista scrive i progetti, si occupa della formazione dei formatori, deve conoscere quindi molti campi di formazione, nonché molte metodologie di formazione, diversificate per bambini e adulti, e deve avere acquisito innumerevoli strumenti di analisi della realtà (nei vari ambiti: sociale, psicologica, didattica).

 

In questo contesto, voglio dire qui, a Muyinga, i progetti si intersecano. Devi occuparti contemporaneamente di tanti livelli formativi: innanzitutto i bambini dei campi (circa 4000), il curriculum del loro percorso  scolastico.

Quindi la formazione degli insegnanti che lavorano con i bambini (che implica conoscere la loro situazione, il loro contesto di vita, le priorità: da noi può essere utile l'educazione stradale, qui serve parlare di tigna, di pulizia nelle latrine, di lotta all'AIDS; e poi è necessario conoscere tutto il sistema scolastico del paese in cui lavori, i programmi ministeriali e i sussidi didattici ufficiali). In questo contesto, la formazione deve essere molto intensa perché la maggior parte di questi insegnanti sono, come si dice qui, "Non Qualificati", ovvero non hanno fatto gli studi per essere insegnanti, ma sono stati selezionati in quanto gli unici disponibili a lavorare in zone estremamente depresse e rischiose, da dopo la guerra.

C'è poi la formazione dei formatori, che sono i nostri due collaboratori interni, i quali in questi mesi si sono fatti, e continuano a farsi, un tour de force incredibile in questo senso. Nel loro caso la formazione deve essere infatti a tantissimi livelli: innanzitutto sui contenuti da trasmettere, poi sulle modalità della formazione, sulla gestione del gruppo, la comunicazione, la stesura di un progetto educativo, ecc ecc ecc!  Visto il contesto, particolare attenzione stiamo dando anche all'educazione alla pace (programma Unicef in collaborazione con il Ministero dell’educazione di base).

Infine, non va tralasciata la formazione dei genitori: qui spesso difficoltosa in quanto l'immagine collettiva dell'infanzia - in linea di massima, senza assolutizzare - è estremamente misera. In ambiente rurale (molto molto povero, con un tasso di alfabetizzazione bassissimo) i bambini devono lavorare, quando/se hanno tempo vanno a scuola, se c'è da mangiare mangiano, se si ammalano pazienza. Non ricevono molte attenzioni dagli adulti, soprattutto per quanto riguarda l'educazione alla pulizia e alla salute. Riguardo poi l'essere seguiti a scuola... beh, parliamo proprio di fantascienza.

 

c) Il mestiere del direttore didattico

Questo non lo avevo preventivato, ma qui di fatto si ricopre anche questo ruolo, che certo non mi attira in Italia, ma qui diventa divertente. Il direttore è quello che, anche da noi, si cucca tutti gli aspetti piacevoli nonché tutte le beghe relative alla gestione di una scuola: i programmi, i materiali didattici, i corsi, le riunioni, la finestra che si rompe, il cassonetto dei rifiuti, la bidella che non lava, l'insegnante che fa politica o parla di sesso, scatenando le ire dei genitori puritani, ecc.

Qui mi capita di trovarmi con gli insegnanti a stabilire dove abbattere un muro o tirarne su un altro per fare la classe più grande, chiedere i preventivi per una porta che non c'è, studiare il sistema per la cappa della cucina (n.b.: fuoco in terra, a legna, e pentolone) che fa troppo fumo, far aggiustare i banchi rotti, far fare un armadietto per le cose dei bambini, o una tettoia per mangiare coperti, anziché sotto la pioggia o il sole a picco, nonché  di incazzarmi con l'insegnante che lavora male, o il sarto che butta tutti i vestiti in terra, o il genitore che non vede neanche che suo figlio è pieno di pulci penetranti, e lascia che gli divorino un piede.

 

d) Il coordinatore del progetto

Oltre a tutto ciò, che fa parte dell'ambito educativo, si sommano poi i compiti di ogni responsabile di un progetto, specie quando è l'unico referente sul territorio.

Il responsabile legale nei confronti del "bailleur des fonds"  (=  l'ente erogatore, l'Unicef in questo caso) è l'Ong, nella persona di chi l'ha firmato: Paolo. Ma il responsabile "fattivo" è chi ci lavora, ed è lui che deve far andar bene le cose.

Ciò significa, più o meno: la gestione (delicata) delle pubbliche relazioni sul territorio (con gli amministratori locali, il Governatore, che è un militare, le altre Ong, le agenzie dell'ONU, l'ispettore scolastico, ecc.), la gestione degli archivi d'ufficio (corrispondenza, documentazione letteraria e fotografica delle attività), l'amministrazione (contabilità e rendicontazione per i bailleurs des fonds), la stesura dei progetti e delle relative relazioni mensili e annuali, la gestione delle risorse umane interne (=fare in modo che ci sia sempre un buon clima), nonché: la formazione degli omologhi. Questa rientra nella "filosofia" di ogni Ong: fare in modo che i progetti si rendano autonomi, non creare dipendenza, far sì che le cose possano procedere per proprio conto, nel momento in cui tutti noi ce ne andremo (dunque formare alcune persone in tutti i diversi livelli di questa gestione).

 

e) Il contesto degli aiuti umanitari: i "corollari"

Da un lato si aggiunge il fatto che il  progetto non è di semplice scolarizzazione, ma prevede anche la distribuzione di aiuti alimentari, che noi portiamo regolarmente, con la nostra (fantastica) Toyota.

Dall'altro ci sono i casi singoli, che si aggiungono casualmente, e a titolo del tutto personale: come il bambino che incontri per strada, che ti segue perché vuole comunicare con te, scalzo, con i suoi straccetti addosso. E dopo 500 MT che lo hai salutato lui ancora  ti guarda, e ricomincia a seguirti. Lo ammetto: ho una predilezione per gli audaci. Così mi diventa amico, e finalmente lo convinco ad andare a scuola ("Sai, bisogna andare a scuola per guidare la macchina" !  Pare che funzioni). E lui adesso ci va tutto contento, di pomeriggio perché la mattina lavora, e ha trovato tanti altri straccetti come lui con cui fare combriccola.

E poi ci sono i bambini che accompagni direttamente al dispensario, in macchina, perché vicino al loro campo non c'è. Un giorno ne abbiamo portati 23, in un colpo solo (sì, quel giorno mi sono ricordata di Andrea, quando mi paragona a Ingrid Bergman che porta in giro migliaia di bambini per la Cina in "La locanda della settima felicità"!). Il medico era un po' sconvolto. Almeno abbiamo avuto un po' di medicinali per la tigna, che qui dilaga. Certo, il problema non è risolto. Anzi, il doppio problema: carenza di dispensari, e genitori che tendono a non dare importanza alle cure mediche.

 

f) Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta.

Ci sono due citazioni che mi vengono in mente, spesso, quando lavoro.  La prima risale ad un'intervista con Vittorio Gassmann, che sentii parecchi anni fa. Il giornalista chiedeva: "Cosa pensa lei quando le parlano della sua bravura?"  E lui rispose, tranquillamente, ma severamente, come gli è tipico: "Quando si fa un certo mestiere, il MINIMO che si può pretendere è che chi lo fa sia BRAVO. Perché se non è BRAVO... è meglio che si nasconda!".

La seconda citazione mi viene da quel genio pazzo di Pirsig, autore di quella pietra miliare che è appunto "Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta". Uno dei fili conduttori del racconto, è una frase molto semplice, ma ripetuta tante volte, ad indicarne l'importanza determinante per il nostro quotidiano: "avere cura di quello che si fa".  E lui... si riferiva alla manutenzione della sua moto.  Perché è vero: qualunque cosa, fatta con cura diventa arte.

Spero di essere brava, non so. Faccio qualche casino nella mia vita, ma sul lavoro credo di cavarmela abbastanza. Anche perché lavoro da tanto, e i gradini della gavetta, posso proprio dire di essermeli  fatti  tutti. Del resto, quando si lavora con materiale umano, con bambini come questi, traumatizzati dalla guerra, dalle fughe in massa, dalla miseria, il MINIMO che si può fare è essere BRAVI.

Certamente ho cura, AMO ciò che faccio. Questo mi rende spesso (quasi sempre) ipercritica (me lo ha detto anche Paolo) e qualche volta antipatica. Non sopporto la mancanza di professionalità. Sono assai poco tollerante verso gli errori (quelli altrui come i miei). Sarò eccessiva, può darsi. Ma ritengo che nessuno e questi bambini in particolare meritino la nostra strafalcioneria, l'improvvisazione, la superficialità. Insomma, hanno bisogno e diritto di essere trattati con cura. Con molta cura.

Questo poi, corrisponde esattamente a quel senso della bellezza di cui parlavo sopra (Lavorare con questi bambini, è una meravigliosa forma d'arte). E con questo ho chiuso il cerchio, e ascoltando Paganini, vi do come al solito la buona notte!

 

***

 

16 febbraio '97 - Muyinga

E' sempre più raro trovare qualcuno che esca dal Burundi, in questo periodo, così mi ritrovo a spedirvi due lettere per volta. (Quando vi rompete le scatole, potete anche farmelo sapere!).

E questa volta mi è successa una cosa davvero particolare, lunedì scorso, ma prima di raccontarvela devo fare alcune premesse, ... così aumento la suspense!

1. Ho cominciato la lettera precedente dicendo che "tra non molto sarò a casa", e ho precisato "Inscià Allah".  Inscià Allah è il saluto musulmano (molto diffuso in alcuni paesi islamici, ma non qui in Burundi, che è un paese a predominanza cristiana) che si può tradurre con "Come Dio vuole" o "A Dio piacendo". Credenti o no, siamo padroni del nostro destino solo per una parte, e questo saluto, in Senegal molto diffuso, mi è sempre piaciuto molto. Mi piace sapere, per esempio, che per quanto noi ci arrabattiamo, ci incasiniamo, ecc. ecc., le cose potranno andare solo in un certo modo e non in un altro. Mi mette una certa dose di tranquillità!

2. Ai primi dell'anno vi ho detto che ho passato un Capodanno "acciaccato", e mi auguravo che non volesse dire "Acciaccato tutto l'anno". ... Continuo ad augurarmelo ma ci sono alcuni segni che rendono quell'episodio, ahimè, premonitore...!

3. Stavo giusto pensando che ero riuscita a stare tre mesi in Africa senza prendermi né  una dissenteria, né la malaria, né le pulci penetranti o una puntura della mosca tzé tzé (quella che ti fa dormire tutto il giorno, per intenderci) né alcun’altra rottura di scatole.

Queste cose, non solo non si devono dire: NON SI DEVONO NEPPURE PENSARE. Perché appena le pensi ... zot! T'arriva la tegola. Perché si sa: "la fortuna è cieca, ma la sfiga... ci vede benissimo".

Dunque, detto questo e precisando che sono in ottima forma e come al solito mangio più del necessario, passo a dirvi cosa mi è successo lo scorso lunedì 10 febbraio: ho avuto un bell' incidente in macchina. Di quelli tosti, in cui la macchina è pressoché distrutta e tu, non si sa bene come, ne esci incolume. Di quelli che la gente passa e commenta "mamma mia, quelli dentro sono certamente morti. Guarda c'è ancora il sangue che cola". No, grazie a Dio non era sangue ma olio del motore.

Guidavo io, su una pista, e non ho preso contro a niente, non c'era nessuno, non ho preso neanche delle buche, che in quel punto non c'erano. Semplicemente, le ruote a un certo punto hanno cominciato a scivolare sulla polvere come un pattino, esattamente come da noi succede sul ghiaccio, quando non rispondono più alle manovre che fai con il volante. E' successo tutto all'improvviso, nel giro di 20 metri, e mi sembrava così assurdo che non ho avuto neanche il tempo di spaventarmi. Ho cercato di tenere dritta l'auto, ma se n'è andata per conto suo, a sinistra. Ho pensato "Ok, si fermerà contro l'albero" e pensavo ad un piccolo tamponamento. No, l'albero non lo centri mai quando vorresti. Lo ha evitato alla perfezione ed è scivolata ancora sul ciglio della strada che siccome era in salita ha fatto rivoltare la macchina completamente, e ci siamo ritrovati con le ruote per aria, trasversali alla strada.

Il mio compagno di viaggio non aveva la cintura, e non so come abbia fatto ad uscirne senza neppure un osso rotto, anzi lucido e svelto ha cominciato, da buon africano, a raccattare tutto quello che c'era, prima che arrivassero eventuali ladri. Io avevo la cintura, e la botta l'ho sentita. E sinceramente se non l'avessi avuta non so se adesso sarei qua a scrivere.  Ero shockata, e c'ho messo parecchio a riprendermi. E' stato terribile. Quel momento breve in cui "ti senti" e ti dici "ok, ci siamo ancora".

Pochi minuti prima ero ferma in un campo a parlare e giocare con i bambini. Pochi metri dopo potevo essere su una sedia a rotelle.

Abbiamo chiamato soccorsi via radio, e c'è stata una solidarietà persino divertente perché con le comunicazioni via radio, nel giro di pochi minuti tutto il Burundi sa cosa succede! Siamo stati all'ospedale di Muyinga a fare le radiografie, e poi a rifarle a Bujumbura. Tutto Ok.

Tutti quelli che vedono la macchina restano sconvolti e shockati a loro volta, nonché increduli. Qualche volta, le persone sono più dure e resistenti delle auto. Il motore però non si è fatto nulla.

 

Potrei elencare circa una decina di persone che conoscevo, e che hanno lasciato la pelle in Africa, per incidenti in auto. Per questo, era la cosa che temevo di più. Più di una granata e della guerra in Burundi. Ora non ho ancora ripreso a guidare, dico a tutti di mettere la cintura (come dicevo anche prima) ... e chiedo che vadano pianissimo!  Naturalmente: una settimana di acciaccamento. Inscià Allah!  (Che altro si può dire?).

Dunque: se non ci sono altri imprevisti...ci si vede tra qualche settimana. Baci.

 

***

 

2 marzo 97, domenica, Muyinga

Carissimi tutti,

ormai ho cominciato il conto alla rovescia.Mancano meno di venti giorni alla data del volo per l'Italia, e vi dirò  : non vedo l’ora!  Non soffro affatto di nostalgia, ma ci sono tante cose per le quali stare qui e  estremamente difficile e pesante, e si ha bisogno di uscire per prendere aria.

Prima di parlarvi di questa pesantezza però  farò  una rapida escursione su alcuni episodi di questo mese. Per fortuna febbraio ha solo 28 giorni, perché ... non so cos’altro potesse capitarmi. L’incidente in auto ve l'ho già  raccontato, e per il momento mi sembrava abbastanza come «avventura». NO: dopo neanche due settimane mi sono ritrovata... la  varicella! Per la gioia di amici e conoscenti che hanno potuto prendermi abbondantemente in giro dicendo che e  una malattia «da bambini»!

Anche questa comunque e  andata bene, ho avuto solo due giorni di febbre e pochi brufoli, che pero  mi hanno consentito di prendermi alcuni giorni di relax, di cui avevo proprio bisogno, a Bujumbura, dove ero per lavoro. E ho passato la settimana in capitale a «fare la spesa»: dato che finalmente l'Unicef (con infinito ritardo e arrabbiature varie) ha  «sganciato» la prima tranche del finanziamento, ho potuto comprare tutto ciò  che aspettavo da mesi: montagne di quaderni, biro, matite, matite colorate, temperini, palle, palloni, biglie, libri per gli insegnanti, stoffa per fare vestiti nuovi ai mostriciattoli, pannelli per fabbricare le lavagnette, uno scatolone di gessi, ecc... Non vedo l'ora che il camion arrivi per cominciare la distribuzione (di nuovo... mi sentirò  la befana. Bello però!).  Tra questi vari casini e acciacchi, c’e  stato però  un intermezzo molto carino: una visita ufficiale dell'Unicef che ha portato a lieti sviluppi.

Aspettavamo questa delegazione con il rappresentante Unicef del Burundi, Michel (un simpatico maliano)  ed  il rappresentante della Germania. Questo tipo di cose, qui viene sempre organizzato e vissuto con grande forma. Mi sono dovuta battere un po’  per far sì  che i bambini non venissero trasformati in burattini , ma fossero lasciati e visti al naturale. E ho anche insistito sul fatto che “sì organizzeremo la visita, ma voi potreste arrivare lì a sorpresa, in qualunque momento, e trovereste tutto perfettamente in ordine e funzionante!”. (E’  vero!).

Il giorno fatidico, c’erano varie auto, abbiamo visitato due scuole, in due campi vicini alla città, e c'era la televisione burundese che ha fatto un sacco di riprese e mi ha intervistata. Un sacco di gente dice di avermi vista al TG, ma io no, dato che non abbiamo la TV, e sto da giorni inseguendo il giornalista perché  mi faccia la copia. Il  fotografo ufficiale, venuto appositamente da Nairobi, e anche lui un italiano, Giacomo, molto bravo, che lavora  con l'Unicef in Africa da sette anni  (...ho invidiato molto la professionalità  e il livello organizzativo in cui si muove). E’ stato molto bello lavorare insieme, senza problemi di lingua.

La visita (...non poteva essere diversamente!...) ha avuto molto successo, e così Michel, mentre chiacchieravamo in macchina, ha detto «bisognerebbe fare una pubblicazione su questa esperienza».

Beh, io su certe cose sono un radar, e non me le faccio certo scappare. Così  ho detto, «... visto che il fotografo è già  qui, se può  rimanere un altro giorno, possiamo fare foto ad altre scuole e fare una bella documentazione fotografica»  (se non si fosse fermato subito, Giacomo sarebbe ripartito per Nairobi e ha già  il calendario pieno per tutto l'anno, quindi... addio pubblicazione). Detto, fatto.

Il giorno dopo lo abbiamo passato tra i campi più  belli, quelli più  lontani. E  stato piuttosto faticoso, ma anche bello e divertente, anche per i bambini e la gente. Insomma, per un giorno, hanno avuto il cinema. L’indomani, partenza per Bujumbura, con febbre e varicella. Sia io che Giacomo siamo stati ospitati dai missionari saveriani, dove ci si rilassa e si mangia splendidamente. Lui si è letteralmente abbuffato di gelato fatto in casa, e come i bambini  la mattina dopo si è sentito male. Ci siamo fatti lunghe chiacchierate fino a tardi, e si è rivelato un tipo davvero molto carino e in gamba. Sono contenta di avere fatto questo lavoro con lui. E’ ripartito per Nairobi  dopo aver fatto una marea di acquisti. E io ho avviato i contatti per la stesura del testo. Ho proposto  il titolo che vi avevo detto in una mia precedente: «Una scuola di  plastica». Mi piace molto, anche perché mi sembra proprio rendere l'idea dell'immensa povertà e ricchezza racchiusa in queste scuole.  La stessa che si può  scorgere negli occhi di questi bambini. Non so ancora se lo hanno approvato.

Detto ciò , passo a raccontarvi quanto annunciato in apertura, a proposito del «bisogno di prendere aria».  In questi mesi, credo di avervi raccontato quasi solo cose belle rispetto al Burundi. Beh, e  venuto il momento di enunciare anche un po’  di «cose brutte». Perché  quando si parla di ciò  che si ama, si ha il diritto/dovere di esprimere e amare anche i problemi o le difficoltà.

 

Punto n. 9.  DELLA PESANTEZZA.

Ovvero: piccole osservazioni sparse sull'odio tra i Grandi Laghi

Nonostante in questi mesi vi abbia scritto a lungo e con una certa regolarità , ci sono ancora così  tante cose che vorrei esprimere e raccontare, che non so  da  che parte girarmi.

Avrete notato comunque che benché  io mi trovi in uno dei posti messi peggio del mondo, non mi sono mai soffermata a parlare della guerra nella regione dei Grandi Laghi.

E non l'ho fatto perché  in questa guerra (lunga, interminabile, estenuante, fratricida) si sommano tali e tanti meccanismi, che non e  per niente facile ne  capirla ne  raccontarla.

Non ci provo neppure ora (ci sono molti libri in commercio, se volete saperne di più ! Anzi no, non molti: qualcuno. I problemi dell'Africa non vendono).Vi racconterò  solo qualche piccola osservazione-sensazione, che vi darà  anche qualche idea su questa guerra (folle, barbara, schifosa, con tutto il sapore dei dollari americani, dei franchi belgi, dei traffici d oro, ecc.).E ve la scrivo in ordine sparso (un modo elegante per dire: in disordine), perché non vi è né un ordine d importanza, né cronologico, o quant'altro.

 

Una gabbia di nebbia.

Questa spesso e  la sensazione che ho, da quando sono qui.Forse per via dell'embargo: nulla può  uscire, nulla può  entrare. Se vai in Rwanda, dove la guerra e  ben più  dura, trovi giornali, Nutella, liquori, tutto. Qui, non riesci neppure a far uscire la posta.  Da quando sono qui faccio molta fatica a sapere cosa succede nel mondo. A Bujumbura, nei giorni della varicella, ho rivisto dopo tre mesi e mezzo un telegiornale: un sogno! Rivedere in un colpo solo la Francia, la Cina, tutte quelle facce bianche. Mi chiedo che effetto faccia crescere conoscendo solo quello che vedi nei campi che hai intorno. Che possibilità  hai di credere che esista qualcosa di diverso dalla guerra, se non sai che la pace esiste? O di pensare, non dico alla ricchezza, ma a un livello meno miserabile, se conosci solo la tua fatica quotidiana e la tua miseria?

(Al TG ho visto le immagini disperate dell'alluvione in Francia. Certo, nella natura delle cose che governa il mondo, sembra esservi a volte un filo sottile di stupida crudeltà. Chi mai potrebbe convincere questi africani così poveri, abituati a vederci (e a immaginarci) come ricchi possidenti, pieni di potere, che anche noi bianchi possiamo finire a soglie di sofferenza così in basso ?!)

Sono qui solo da pochi mesi e (come la maggior parte degli occidentali, escludendo i missionari) sento già il bisogno di uscire, di varcare i confini, di mettere la testa fuori e ricordarmi quello che c'è altrove. Mi chiedo come si senta chi invece sta sempre qui, e la testa fuori non l'ha mai messa.

 

I morti

A Muyinga sembra di stare in una piccola isola, con un bel giardino coltivato. Non si sentono spari, non ci sono morti. Non si riesce ad avere notizia di quello che succede poco più in là. Ma i morti ci sono. Ci sono le uccisioni, le persecuzioni. C'è l'odio e soprattutto il bisogno, ancora, di vendetta.

A Bujumbura gli spari li senti. E la mattina ti arriva il bollettino. "6 ammazzati in quel quartiere, 18 in quell'altro".

 

- Le deportazioni e il boomerang.

Da qualche tempo il governo ha avviato quella che chiamano elegantemente (e con un suono da avanguardia politica) "villaggizzazione".  Deriva da una caratteristica tipica del Burundi, del Rwanda e in generale della regione dei Laghi. In questi due paesi, contrariamente a quanto è sempre avvenuto più o  meno in tutte le altre etnie d'Africa, la gente non ha mai vissuto in villaggi, bensì sparsa sulle colline, con casette familiari (i recinti che racchiudono alcune capanne, per la tipica famiglia estesa) distanti l'una dall'altra.

Ora si parla di "stimolare la villaggizzazione, per motivi di sicurezza; far stare insieme la gente, creare degli agglomerati, con i servizi sociali". Certo, chiunque direbbe "è vero, un agglomerato può essere meglio servito e organizzato che non un territorio di decine di colline".

Vi è però un grosso dibattito intorno a questi campi:  chi li considera veri villaggi, chi invece luoghi forzati di controllo sociale, al punto che molte organizzazioni hanno rifiutato di portarvi aiuti, per non sostenere la politica  del governo. Questione di punti di vista.

Hanno non poco lavoro da fare i giornalisti che vengono qui per fare articoli di denuncia. E soprattutto gli osservatori ONU sui diritti umani: tra tutti gli operatori delle Nazioni Unite, sono quelli più a rischio (4 ammazzati in Rwanda, a gennaio) perché il loro è il mestiere del "controspionaggio": andare a controllare, a sondare, nelle carceri, nelle fosse comuni, nei campi, e denunciare i governi.

Ad ogni modo, se davvero questi campi  fossero luoghi di controllo, la storia ha ormai dimostrato che non funzionano, anzi. Ritornano indietro come un boomerang, su chi li ha ideati.

Accadde lo stesso in Sudafrica. Tra gli anni 50 e 60, il governo bianco dell'apartheid   aveva stabilito e avviato la politica dei Bantustan: le riserve. Mettere ogni etnia dentro una gabbia ad hoc, obbligarla a parlare solo la propria lingua, a vivere serrata come topi, senza servizi sociali. Il tutto, naturalmente, ben condito da disquisizioni sulla  "difesa dell'etnicità e della tradizione".

La politica dei Bantustan si è rigirata verso i Boeri come un boomerang esplosivo. Come ebbe più volte a raccontare Mandela, i bambini nati e cresciuti nei Bantustan si rivelarono 20 anni dopo i ribelli più incazzati e determinati, quelli che non avevano più alcuna remora ad imbracciare la lotta armata e nessun timore a trattare il nemico con la strafottenza che si meritava. La violenza in Sudafrica ha visto allora un' escalation vertiginosa, fino ai limiti della vivibilità.  Certo, i neri sudafricani ne avrebbero volentieri fatto a meno.

 

Sosta. Riprendo a scrivere sabato 8 marzo. Qui c'è stata una bellissima festa. E' un giorno che mi piace sempre tanto. C'erano tante donne di tutti i colori, stupende. Ho fatto quasi due rullini di diapo. Sob: mi sono mancate un po'  le mimose, e l'aria di primavera che si respira da noi in questi giorni (non si può avere tutto...).

Nel frattempo, in questa settimana, dopo la varicella ho avuto un altro malanno, ma non sto neanche a raccontarvelo. Qualcuno può accedere a sconti per un viaggio a Lourdes ?!

 

I meccanismi dell'oppressione

E' difficile averne un'idea quando non ci si è mai stati dentro. Sono molto più sottili e perversi di quanto non si pensi. Non è tanto una violenza fisica e visibile, al contrario. Il segreto del loro successo sta nella loro invisibilità, che consente di penetrare in profondità, fino a diventare "la norma". Fino a quando non si esplode, e ci si ritrova ad essere "i ribelli".

 

"La realtà supera sempre la fantasia"

Ho attraversato un girone dantesco. Ma neppure la fantasia di Dante poteva arrivare a tanto. Perché lui comunque immaginava l'inferno altrove. Non so se il Paradiso sulla terra esiste, ma l'inferno sicuramente sì.

Mi era già capitato di entrarci, in Brasile. Quei posti in cui devi tenerti stretto lo stomaco, e al contempo - mentre vorresti piangere e vomitare - devi continuare a sorridere, con sincerità, perché la gente ti guarda sorridendo. Felice, per il solo fatto che sei tra loro.

E' vero: non c'è limite alla capacità umana di adattamento.

 

Ospedale psichiatrico di Bujumbura: sono 15.000 (15.000!!!) i disperati che vi hanno trovato "rifugio", essendo scappati dai quartieri e dalle loro colline d'origine, dove ancora si combatte. Il terreno circostante è diventato una baraccopoli, e come tutte le baraccopoli ha i suoi giri di mafia, il suo mercato (indescrivibile ciò che può diventare oggetto di una compravendita, in un luogo in cui nessuno ha nulla), le sue zone per il godimento degli ometti, il barbiere con il registratore, caterve di bambini immondi, e di stoviglie lavate in acqua immonda.

15.000 persone che si mettono insieme fanno, in ogni caso, una città.  Con tutti i ruoli e i "servizi" di una città. Una città sotto zero. La norma, è data dalle consuetudini e dai codici del gruppo. Se non ci si è passati, è difficile immaginare a quale bassezza possano portare la disperazione e la miseria. Eppure, si sopravvive.

 

Si fa presto a dire "guerre intertribali"!

E' un appellativo che non sopporto, eppure ancora così tanto diffuso, quando si parla delle guerre d'Africa. (Che palle la nostra cocciuta ignoranza!)

A parte il fatto che tutsi e hutu non sono tribù ma gruppi etnici, definiremmo intertribale il conflitto della ex-Yugoslavia? O la diatriba leghista tra Italia del nord e del sud  (che, pure, è di una bassezza vergognosa)?  O la guerra tra Israele e Palestina?

Quando si parla d'Africa, si devono sempre usare toni dispregiativi. Addirittura certi giornalisti di quotidiani usano ancora il termine "indigeni" per parlare della gente di qui. L'ho letto poco tempo fa su un numero dell'Avvenire, a proposito di Zaire. "Distribuzione degli aiuti alimentari tra gli indigeni".  Indigena sarà tua sorella!  Faceva poca audience scrivere "tra i locali"?  Lo diremmo a proposito di irlandesi del nord, albanesi, o ceceni, o kurdi?

Ad ogni modo, quello tra tutsi e hutu è un conflitto sociale, non semplicemente interetnico. Esattamente come lo era quello tra bianchi e neri nel Sudafrica di Botha, ma nessuno avrebbe definito una "tribù" i boeri. Due razze che si combattono non per il gusto di combattersi (come spesso si pensa in Europa, a proposito di "quei selvaggi"), ma per la gestione del potere. E anche qui vige l'apartheid. Una minoranza che tiene in pugno una maggioranza con la violenza delle armi e con l'oppressione.

Rispetto al Sudafrica, paese rimasto fino quasi alle soglie del 2000 in mano ai coloni, qui i coloni non ci sono più, apparentemente. Ma quando si denigrano quei "conflitti intertribali" con tanta superiorità, (come se poi il mondo occidentale fosse immune dal razzismo, che invece persiste anche tra gruppi diversi della stessa Europa e potrebbe infiammarsi in qualsiasi momento) si dimenticano, anzi si ignorano due aspetti fondamentali. Il primo: quanto gli occidentali (= i coloni belgi nonché molti missionari), con il loro bisogno genetico di stilare graduatorie, abbiano contribuito ad alimentare l'odio tutsi-hutu, che prima non esisteva, stabilendo già nel secolo scorso che i tutsi erano "una razza superiore", e come tale destinata a gestire il potere, quindi allevata, fino a poche decine di anni fa, per divenire la classe dominante, mentre gli altri, gli hutu, erano fatti per lavorare e servire. Il secondo aspetto: quanto gli interessi privati internazionali  (francesi, americani, belgi, ecc)  spingano questi paesi a non dar corpo ad una reale democrazia, ma a passare da una guerra all'altra

E' vero, ciò nulla toglie alle atrocità commesse, e al livello di crudeltà: adulti e bambini sgozzati a colpi di machete.  Ma se la regione dei Grandi Laghi non trova pace e si trascina da una dittatura a un golpe a una guerra, non è semplicemente perché "quegli indigeni non riescono ad andare d'accordo"!  Non sono i contadini di queste montagne che  finanziano i colpi di stato o le uccisioni di questo o quel presidente !

 

Ecco qua. Questi, alcuni dei motivi per cui uno a un certo punto sente il bisogno di uscire a "prendere aria". Per cercare qualcosa di "normale", un luogo in cui poter ridere spensieratamente, senza sentire il dolore tutt'attorno. In cui pensare al domani, senza doversi chiedere "ma ci sarà un domani?".

Al contempo, sento già l'approssimarsi della fine del mio contratto, a giugno. E se penso che a giugno dovrò salutare questa gente, questo paese, gli eucalipti, ... Questi bambini, le persone con cui ho lavorato tutti i giorni per mesi..., sento già un senso di dolore indescrivibile, smarrimento, quasi paura. Un mondo nuovo fa presto a diventare il tuo quotidiano, ad entrarti nella pelle. E come fai ad abbandonare qualcosa che hai nella pelle?

Non ho la minima idea di ciò che potrò fare tra qualche mese. La libertà ... è terribilmente difficile da gestire. Periodicamente, ti costringe a delle scelte totalizzanti. Potresti fare una cosa o mille altre.

Tornare in Italia? Cercare di allungare la permanenza qui? Cercare di andare in altre zone di mondo? Si intrecciano decine di possibilità, probabilmente tutte splendide, perché la vita lo è, e come lei il mondo, da qualunque parti lo guardi.  Certo amo tantissimo l'Africa (ora molto più che quattro mesi fa). Ma probabilmente mi entrerebbero nella pelle tanti altri visi e luoghi, dalle montagne peruviane alle pianure alluvionali dell'India.

Sono contenta di una cosa: dopo tre mesi di lavoro, ho saputo che la gente dei campi... comincia a parlare bene di me, perché si cominciano a vedere i risultati. Era ciò che speravo, dall'inizio.

Il Burundi è piccolo, le voci girano in fretta. Se fai qualche casino, lo si impara presto. Muyinga poi è una bottega. Per questo bisogna fare molta attenzione "alla propria immagine". Esempio: uno dei capi dell'HCR è stato mandato via a fine contratto più o meno a calci nel sedere, per avere decisamente esagerato con le donne (una notte si è trovato fuori dalla porta il marito di una che sbraitava armato!). Questo non è un posto in cui non puoi farti i cavoli tuoi. Siamo costantemente osservati e controllati. Dunque, o accetti che certe cose non le puoi fare, o è meglio che alzi i tacchi.

Beh, io spero di lasciare un buon ricordo di me quando me ne andrò. I bianchi qui fanno tanti e tali casini, che mi piacerebbe se tra qualche anno gli insegnanti dei campi si ricordassero di me come quella musungu che ha lasciato qualcosa di buono, e che ha davvero aiutato loro e i bambini.

 

A parte ciò, comincio ad avere un po' di ansia, perché mi chiedo "cosa succederà" dopo giugno. Spero che mi passi. In fondo... "succederanno" altre splendide sorprese. BACI!

 

***

Muyinga, domenica 4 maggio, 1997

Sono stata "in vacanza"?  Boh! Sono tornata dall'Italia più stanca di prima, dato che ho lavorato e corso tre settimane come una pazza. E adesso... sob! Ho una voglia di mare, dei bei colori del Mediterraneo, e di una settimana intera al sole e a pancia all'aria! Qui poi... dire che in Africa fa caldo è come dire che l'Italia è il "Paese del sole": basta non andare d'inverno nella pianura Padana o nella Valdarno!  Siamo in piena stagione delle grandi piogge e ogni giorno c'è un'escursione termica incredibile, anche per più volte al giorno. Se c'è il sole potresti metterti in calzoncini, appena piove fa un freddo cane, da metterti il maglione. E piove a dirotto, e ci si sveglia con delle nubi che sembra di essere nel centro di Milano.

Viene inevitabile pensare alla bellezza del mese di maggio da noi. Mi dispiace perdere l'atmosfera della primavera, che è sempre splendida. Per fortuna quando sono venuta ho preso tre settimane bellissime, di sole continuo, poi ho saputo della ricaduta nel gelo. Anyway: fine delle lamentele.

Qui in mia assenza è andato tutto bene, Prosper mi ha sostituita egregiamente, e la cosa mi ha fatto molto piacere: è diventato proprio bravo. Subito abbiamo ripreso con la formazione che avevamo programmato, che è stata piuttosto faticosa dato che ho dovuto ripetere sei volte la stessa seduta: tre volte per gli insegnanti, nelle tre diverse zone in cui abbiamo le scuole, e tre volte per gli animatori

 

Al mio arrivo ho trovato varie novità: Johnny, che se n'è andato ed ora è in Rwanda, è stato sostituito da un musungu nuovo: Gianfranco. Un tipo proprio buffo, che ci fa ammazzà dalle risate quando abbiamo il contatto radio. A Muyinga ho trovato invece Giuseppe, un cinquantunenne pazzo (è abbastanza nella norma trovare dei pazzi tra chi fa questo genere di lavoro e di vita; probabilmente se non fossimo tutti un po' pazzi, ce ne staremmo tutti quanti a casa tranquilli. Dunque... viva la follia!) rimasto qui qualche tempo per il lavoro di costruzione latrine e fonti, insieme a Fabio. E' già andato via perché deve andare in Mozambico. Peccato. Passavamo le serate con la sua logorrea, ad ascoltare i racconti della sua vita bizzarra.

Poi abbiamo avuto una visita di alcuni giorni, di Stefano e Vincenzo. Stefano è uno dei "boss", che era già stato qui a gennaio per avviare la sede e i progetti in Zaire. E' passato di qui solo due giorni, durante i quali ci siamo fatti una bella chiacchierata, e tra le altre cose mi ha chiesto di restare qui fino a fine luglio, per chiudere il progetto. Non so. E' solo un mese e mezzo in più, ma in questo momento sento una grande stanchezza. Poi ho una proposta per un lavoro di 15 giorni all'isola Mauritius, con l'Unicef, proprio in luglio, e se fosse confermata... certo non ci rinuncerei. Vedremo.

Vincenzo invece è proprio fantastico: un ortopedico di settant'anni, venuto qui per un lavoro sull'handicap, e per dieci giorni ha girato un sacco di centri. Si è presentato con le pedule e gli ho detto "mi fai venire voglia di montagna" e così è partito a raccontarmi tutte le escursioni che si è fatto nella vita, quando l'arrampicata era ancora una roba per pochi. Negli anni '50 si è fatto sei volte l'Himalaya, e poi ha scalato in Perù, in Bolivia, tutte le più belle catene montuose tra il Marocco e la Libia, e naturalmente in Europa e in Italia. Insomma: che invidia!!!  Gli nomini una montagna e lui ti sciorina "quella parete la devi fare in quella stagione a quella certa ora, quella parete là no, è troppo difficile, tizio c'è morto nel 19..., non si può fare, devi prendere la montagna da quell'altra parte, ecc. "

Viaggia portandosi dietro una foto del Gran Sasso (dicendo che quella montagna è "la sua mamma") e siccome abbiamo avuto un bel feeling... prima di partire me l'ha regalata. Naturalmente ho voluto la dedica, e poi l'ho attaccata al mio inseparabile diario, che nelle ultime settimane era rimasto a corto di immagini.

Girando per il mondo, incontri un sacco di gente assurda, tanti stronzi, ma anche tante persone davvero belle. (Forse è una constatazione evidente! Però non lo è quando le incontri, perché le persone belle ti lasciano qualcosa per sempre, anche se poi non le vedi più per il resto della tua vita).

Oltre a tutto ciò, al mio ritorno ho anche ritrovato... i miei meravigliosi "marmocchietti"!  Mi ci sto affezionando troppo. Mi ritrovo a pensare a loro tante volte, quando sono  casa, quando mi sveglio.

Ci sono alcune immagini che ti rimangono fisse davanti agli occhi, e a volte le rivedi, intatte, proprio come se fossero attuali. Come quella di una bambina stupenda, magra magra, con due grandi occhi, e un portamento elegante da donna di famiglia nobile. Era in una scuola, durante la nostra formazione insegnanti. Pioveva e faceva un freddo assurdo. E lei, con quei suoi grandi occhi dolci e timidi, con quella sua eleganza, si teneva stretto pudicamente uno straccetto di vestito troppo largo, che le cascava da tutte le parti, e non poteva offrirle alcun riparo. Aveva la pelle d'oca e io, dentro al mio "pile", durante l'intervallo me la sono spupazzata per riscaldarla. Poi abbiamo scoperto che il sarto della scuola aveva già fatto numerosi vestiti con la stoffa che avevamo fornito (e che a noi è stata data dalla Cooperazione Italiana: a volte qualche soldo finisce a destinazione), così ne abbiamo cercato uno della sua misura, e lei era così pudica! Naturalmente tutti gli altri bambini stavano a guardare, allora abbiamo spedito fuori tutti i curiosi, tutti  gli insegnanti maschi, e siamo rimasti io e lei, e una maestra, e le abbiamo fatto la "cabina di prova" dietro la porta dell'armadio di classe. Che carina! Finalmente un vestito con le maniche! E l'altro lo abbiamo lasciato al sarto, affinché lo renda portabile.

Poi è stata la volta di altri piccoli, con gli stracci più malandati. Diamo la priorità a chi vediamo messo peggio, dato che non c'è stoffa per tutti. E tra questi ne ho trovato uno con una pancia enorme e tutti i sintomi della malnutrizione. Il giorno dopo siamo tornati lì a prenderlo per portarlo all'ospedale a fare gli esami per la verminosi, e prendere i medicinali. Qui, siccome sapevamo che la mamma è morta di non si sa cosa, ci hanno suggerito di fargli anche la prova AIDS, che poi per fortuna è risultata negativa. Anche lui, come molti altri, ha tutti i sintomi del trauma psicologico: non parla per niente, non ride, non gioca.

Un altro così (anche lui nella stessa situazione familiare: mamma morta, babbo riaccompagnato, matrigna che non se lo fila perché non è figlio suo) era Nsabimana. Quando l'ho visto la prima volta, aveva i piedi divorati dalle pulci penetranti e non riusciva più a camminare. Il padre... manco se n'era accorto.  Mi  incazzai moltissimo dicendo che non volevo vedere queste cose là dove noi portiamo aiuti. E' troppo facile prendere gli aiuti e abbandonare i propri figli. Se la comunità non si faceva carico di questi problemi, dissi che avrei chiuso immediatamente l'aiuto alimentare ai bambini del campo. In realtà, casi così gravi sono rari, ma per me sono inaccettabili. Abbiamo dovuto insistere parecchio, e arrabbiarci varie volte sia io che Prosper, Nestor, e i maestri. Però un po' alla volta sia il padre che la matrigna (credo) si sono dati da fare, lo hanno curato. Era triste perché nel campo la privacy non esiste, e quando ci arrabbiavamo col padre di Nsabimana era impossibile farlo in privato, così immagino che per lui fosse ogni volta una sofferenza, perché si trovava al centro delle attenzioni collettive, con il padre che faceva davvero una figura da schifo. Però, al mio ritorno l'ho trovato guarito quasi completamente, ora cammina, sorride, ha ripreso a giocare. Lo abbiamo preso in giro perché ancora non corre (chissà da quanto tempo non lo faceva più!). Ma sicuramente è stato importante per lui vedere e sentire che (tra tante che ne ha passate in questi piccoli, strazianti 4 o 5 anni di vita), qualcuno si è accanitamente preso cura di lui.

E' quello che si cerca di fare sempre con tutti: accarezzandoli tutti, portando la stoffa per i vestiti, i quaderni, le matite colorate, giocando con loro senza risparmiare i sorrisi e le espressioni anche stupide da adulto giocherellone. Ne hanno un bisogno! Fare in modo che si sentano amati, che si sentano degli esseri con una dignità e con dei diritti, non solo dei perdenti. Ma è difficile. E' immensamente, infinitamente difficile. Guardi questi bambini, con i loro stracci, con queste baracche che sono stamberghe sbilenche, con dentro altri stracci sporchi, e pochi tegami che spesso devono servire per tutto: cucinare, fare il bucato, lavarsi i piedi, farsi lo sciampo. A dicembre avevo fotografato un bambino con suo padre (che poi ebbero copia della foto) e tutte le volte che li ho rivisti nei mesi successivi, il padre aveva la stessa maglietta di quel giorno. E ogni volta mi prendeva un nodo in gola. Mi immaginavo come mi sentirei con mio figlio, se non avessi i mezzi neppure per cambiarmi una maglietta. Cosa potrei offrirgli? Dove sentirei finire la mia dignità?

Guardi  questi bambini e ti chiedi "Che accidenti di futuro possono avere? Cosa possono sperare? Cosa possono anche solo immaginare, se non conoscono niente altro che la miseria e la sconfitta?"

E penso a quanto rispetto dovremmo, a quei pochi che riescono a farcela. Anche quelli che vediamo messi meglio, che hanno i vestiti e vanno a scuola, vivono comunque in capanne poverissime, senza luce né acqua, né mobili. Mi chiedo sempre come facciano ad essere così puliti e stirati, senza rubinetti e col ferro da scaldare sul carbone acceso. E per andare a scuola fanno ogni giorno km. e km. a piedi.

Se, facendo questo lavoro, ti interroghi sul futuro dei tuoi sforzi...rischi di farti cogliere dalla voglia di smollare. Per la verità, io non la sento, almeno non ora. Ma certo, si prova una gran rabbia. Perché tutto questo?  Perché i nostri bambini hanno case splendide, mille giochi, libri pieni di colori, hanno Internet, e questi sono così affogati nel nulla da non poter neppure supporre cosa esiste fuori?

Il nostro mondo, e questo mondo, non sono solo pianeti diversi: sono in universi assolutamente distinti. Non hanno nulla in comune. E infatti, non si conoscono neppure.

Non ho più posto per andare avanti, ma proseguirò. Vi voglio scrivere a proposito degli "aiuti". Che bel supermercato, quello degli "aiuti umanitari". Degno davvero di un film. Peccato che nessuno lo faccia.  Vi lascio, con il sorriso di questi bambini.

***

 

Muyinga, 21.5.97

Cara mammetta!

Sì, questa volta ti mando proprio una lettera personale, anche se numerata e in mezzo alle altre.

Come direbbe Guccini (anche se non è settembre...) sono in fase di "ripensamenti". E mi viene da scrivere quasi più come se parlassi con un diario, o a me sola, e non a una moltitudine di persone, per quanto so che chi legge la mia corrispondenza, sono sempre persone amiche.

Tra l'altro, quando sono venuta a casa, è stato bello vedere che queste lettere avevano coinvolto  emotivamente tante persone, che così hanno potuto in qualche modo seguirmi ed essere con me, e io ho potuto sentirle vicine, nel rivederle, nonostante i mesi di lontananza. E' bello sentire se riesco a trasmettere ad altri anche solo una piccolissima parte di ciò che provo.

Naturalmente poi, chi legge, usa inevitabilmente il proprio filtro, per assorbire e interpretare. Così ognuno si fa un'immagine, più o meno aderente o lontana dalla realtà. E così, mi sono resa conto, alcune persone hanno detto che sembravo nervosa o forse addirittura per traverso, quando ho fatto vedere le diapositive.  Strano: io ero così contenta!  Probabilmente la gente si fa una certa immagine mentale di chi scrive in un certo modo, e fa certe cose.  Ma il fatto di scrivere e fare certe cose, non toglie nulla a quello che può essere un carattere (apparentemente) spigoloso o taciturno, o che dir si voglia. Anzi. Se io vivo in un certo modo, è perché sono in un certo modo. E ogni tanto mi piacerebbe se la gente che ho intorno riuscisse a distinguere apparenza e contenuto.

Io in genere, ho imparato ad amare quasi di più i caratteri esteriormente burberi, che spesso corrispondono a gente con un cuore infinito, mentre tanti all'apparenza sdolcinati celano dei grandi stronzi!

So che Paolo dice di me che sono "un personaggio difficile", ma per fortuna lui ha avuto la capacità (e la voglia) di fare delle distinzioni, e di capire cosa cela una tale apparente "difficoltà". E so che mi stima. Del resto, non mi lamento del mio essere "difficile" e mi chiedo se poi esistono davvero caratteri "facili". Probabilmente sono solo diversi gli "ambiti" di questa difficoltà.

A proposito di Paolo, è proprio anche per lui che sono in vena di "ripensamenti". Ormai gli restano solo 2 settimane qui, e sono cominciati i saluti. Che strazio! Per me è sempre una sensazione terribile.

E' già arrivato chi prenderà il suo posto: un quarantenne che ha già vissuto qui quasi due anni, nel periodo più brutto della crisi burundese, fino a gennaio '96. Mi sembra un tipo davvero molto in gamba, serio nelle cose che fa,... e anche piuttosto attraente! (devo dire che nel mondo degli aiuti umanitari, sia fra gli uomini che le donne, si vede spesso della bella gente!).

Sono stati qui qualche giorno e ora sono tornati a Buja. Giusto il tempo per passare le consegne, vedere a che punto sono le cose e, per Paolo, salutare tutti.

E' stato difficile, per me, vedere il magone che tratteneva ogni volta. Credo che stia provando un dolore molto grande, e mi ha fatto "assaporare" in anticipo quello che proverò io tra non molto. Lui poi, è stato qui molto più di me, un anno e mezzo più o meno.

Credo che sia arrivato a questa decisione per forza di cose: o si lasciava dalla sua compagna, con cui sta da più di dieci anni, o si decideva a tornare a casa. In genere quando non si riesce a decidere, si lascia che il destino decida per te: e lei è rimasta incinta, e il pargolo sta per nascere. Un'altra avventura della vita. Sono contenta per lui, anche se mi è sembrato spaventato. (...mica è facile far un figlio! Certo è più facile mettere in piedi delle scuole di plastica!).

Ad ogni modo, credo che anche per me sarà difficile lasciare questo posto. Soprattutto è triste quando lasci un posto pensando che probabilmente non lo rivedrai mai più. Non è così per esempio  a proposito del Senegal. Ormai ci sono stata varie volte, e con gli amici di là ho comunque dei contatti continui, anche da qui, e non sento nessun "addio" con il Senegal, anche se non ci vado da un anno e mezzo. Invece, quando lasci un'esperienza di questo tipo, senti che molto probabilmente è un addio. Una separazione definitiva. E io... Io non sopporto le separazioni. Io... Io soffro di claustrofobia, e non sopporto le cose chiuse, definitive, ho sempre bisogno di spazi aperti, porte aperte, possibilità aperte. Di andata, di ritorno, di riandata, ...

 

E quando mi si presenta la chiusura, la separazione, l'addio, ogni volta è un incredibile, infinito lutto. Perché quando ti separi da qualcosa (e in questo caso ci si separa da un intero mondo, che per mesi è stato il tuo quotidiano) è qualcosa che ti muore dentro.  Qualcosa che prima avevi, e che di colpo non hai più. E io queste separazioni me le vivo sempre a livello fisico, come se ogni volta mi si strappasse un pezzo di stomaco, e mi venisse portato via. E' un pezzo di vita che ti si chiude.

 

Certo, è una libera scelta, perfettamente consapevole. Ma ciò non significa che non si soffra!  Semplicemente, sai dall'inizio che soffrirai. Lo accetti, perché accettare questo prezzo è l'unico modo per vivere più intensamente la vita che abbiamo.

Mi hanno chiesto di stare qui ancora. Mi hanno proposto di andare da altre parti. Non so. Non ho idea di cosa farò l'anno prossimo. Restare o andare, è sempre una scelta difficile. Come quando devi decidere dove andare in vacanza: è più bello tornare nei posti? o è più bello conoscere posti nuovi? Sono belle entrambe le cose. E' bello tornare nei posti, perché cominci a sentirtici a casa, trovi le persone che ti aspettano, che ti accolgono. Ritrovi un pezzo di vita.

E' bello vedere posti nuovi, vivere avventure diverse, conoscere altri mondi. Aprirti alla sorpresa.

Potrei forse stare qui ancora, tornare l'inverno prossimo per qualche tempo, portare avanti un altro progetto Unicef. Per certi versi, sul piano professionale, sarebbe interessante. Il mio lavoro, non è come quello del chirurgo o come fare un progetto di latrine: stai qui un tot e fai un certo numero di cose. L'ambito educativo ha bisogno di tempi lunghi, e le cose le costruisci piano piano, mano a mano che entri e conosci i meccanismi, che sai come fare, come organizzare, cosa è meglio e con chi, ... E ci vuole tempo per conoscere i meccanismi di un paese. Quando li conosci ... te ne vai? Mah. Eppure, il mio contratto finisce tra poco. A casa vorrei fare tante cose, e poi ho una proposta per un altro paese. Vedrò. Non voglio decidere adesso. Tornerò a casa, e cercherò di sentire ciò che desidero di più.

C'è una cosa che sicuramente mi piacerebbe molto fare (per la verità ce ne sono diverse!): scrivere.

Diversi di voi mi hanno detto che dovrei scrivere, dopo aver letto queste lettere. Dio sa quanto mi piacerebbe!  Ciò a cui pensavo nei giorni scorsi, dato che qui non ha fatto che piovere per più di un mese, era questo: starmene per qualche tempo in una bella casetta in affitto ...a Sperlonga. Sai, quelle meravigliose case bianche, che si affacciano sull'arcipelago delle Pontine. Possibilmente non in piena stagione estiva, e scrivere. Guardare il mare, leggere, studiare, pensare, e buttare giù le cose che sento, come ora sto facendo davanti a queste splendide colline che si aprono verso la Tanzania.

Credo che mi mancherà tantissimo il verso degli uccelli, quando sarò a casa. Qui non si sente praticamente altro. Qualche rara auto e moto. I bambini e le donne che passano.

Eppure in questo mese, un po' ho sofferto di nostalgia. Penso soprattutto causa il maltempo, che mi faceva ricordare com'è bella l'Europa in primavera e in estate. Per fortuna è ricominciata la stagione secca, e finalmente è tornato il sole. Non ne potevo più!

Se dovessi scrivere qualcosa sulla mia esperienza burundese... ho già in mente anche il titolo! L'altro libro, quello in lavorazione di cui vi avevo detto, per cui abbiamo consegnato i testi già più di un mese fa, ... si è inevitabilmente piantato nei meandri Unicef ! E' tutto pronto. Ho anche visto le splendide foto in bianco e nero, ingrandite, fatte da Giacomo. Manca solo che il responsabile lo mandi avanti. E conoscendo i tempi geologici dell'Unicef, chissà se vedrà la luce prima del 2000 !?

Mi piacerebbe scrivere ancora, perché ci sono così tante cose che non sono riuscita a mettere in queste lettere! Ci sono così tante sensazioni che ti dà l'essere in un universo completamente nuovo. Dove tutto, tutto è per te completamente da esplorare.

Se avrò tempo davanti a me, credo che lo farò. Scrivere, è un po' come la macchina fotografica. Come dice Wim Wenders, e sono pienamente d'accordo, è uno strumento che ti aiuta ad amare di più.

Un grosso bacione a tutti.

Muyinga, venerdì 30 maggio

h. 18,30. Che bello! Fuori è già buio. Io sono in camera mia, con una bellissima musica, il computer per esprimermi e meditare  ...e nessuno mi può rompere!

La stagione delle piogge è ormai un ricordo, e fa sempre caldo, i colori sono intensi, le nuvole scomparse.

Finisce sempre così: quando amo qualcosa, amo troppo. E ora amo a tal punto questo universo che vorrei potermi annullare per entrare in esso completamente.

Vorrei essere il fantasma di un folletto e così, piccolo e invisibile, entrare nello spirito delle cose. Vorrei essere tutt'uno con il tempo e con lo spazio. Poter entrare indisturbata nei tronchi degli eucalipti, nei sorrisi delle donne, nei corpi della gente. Vorrei parlare la lingua di qui. Capire ed entrare nei discorsi, nei pensieri.  ...Alla continua ricerca della totalità, dell'infinito...

 

Punto n. 10: a proposito del "sottosviluppo".

Quando si lavora nel campo dell'educazione all'intercultura (quindi alla diversità e la diritto alla diversità) e ai problemi dei paesi poveri, ci sono alcuni concetti-guida fondamentali. Tra questi, il concetto di  autosviluppo  (in sintesi: il diritto di andare da soli per il proprio cammino e di scegliersi il cammino da fare) e quello di autodeterminazione (ovvero: il diritto di scegliere la propria meta e i tempi e i modi per raggiungerla).

Bene: pur avendo da anni "sposato" questi sacrosanti diritti e avendone parlato in miriadi di corsi, conferenze, articoli, ecc..., con tutti i riferimenti  ai più noti economisti e studiosi sull'argomento, da Susan George a Vandana Shiva, è quando arrivi 'sul campo' che ti rendi ancora più conto e tocchi con mano la relatività (o dovrei dire l'assurdità) di definizioni che sono assolutamente nordiche, occidentali, bianche, industriali o postindustriali, forse anche razziste, o no, ha poca importanza. Comunque, non hanno senso!

E tra queste, penso  proprio ai concetti di sviluppo  e di paesi sottosviluppati. Si sa che sono definizioni assolutamente relative e pretestuose. Chi è sviluppato e chi no? Rispetto a cosa? Qual è l'unità di misura, il metro di paragone, il punto 'zero' in base a cui si stabilisce chi è sotto, chi è pari, chi è sopra ?

Anche l'UNDP, l'agenzia dell'Onu per lo sviluppo, negli ultimi anni ha spostato i suoi punti di riferimento sempre più da dati economici e quantitativi a considerazioni sulla qualità della vita.

Ma ora che sono qui, che conosco a poco a poco questo paese, questa gente, questo modello di vita, i termini mi sembrano ancor più fuori luogo.

 

Il Burundi rientra evidentemente in quella fascia di paesi che diremmo sottosviluppati o "in via di sviluppo" (...tanto per usare un eufemismo...). Eppure, più che un paese sottosviluppato, a me sembra semplicemente un paese contadino. Con tutti i pro e i contro della società contadina.

A volte mi vengono in mente le chiacchierate che mi facevo a Case Lamari (il mio vecchio borghetto appenninico medievale, dove per dieci anni ho avuto una splendida casa), con la cara Giovanna, contadina anche lei, un tempo. E ricordo di quando raccontava che fino a pochi anni dopo la guerra, lei lavorava a servizio tutto il giorno facendo tutti i lavori pesanti delle case di montagna, e quando le davano il "salario" lei poteva comprarci... un lenzuolo!  Questo era allora il potere d'acquisto (o di non-acquisto).

Si mangiavano per  lo più derivati delle castagne, patate, pane nero, fagioli, qualche volta carne, pezzi di lardo. Uova e latte pochi, perché soprattutto dovevano  essere venduti al mercato, per fare quattro soldi. E per andare al mercato facevi decine di km. a piedi, fino a Vergato o Castel d'Aiano, dove c'erano i mercati 'grandi'. E ci andavi a piedi, scalzo, o con scarpe vecchie, stravecchie e strarattoppate. Per andare a scuola anche, si andava a piedi; le scuole erano poche e lontane (50-60 bambini per classe, con i doppi turni, proprio come qui) e chi voleva poi continuare gli studi fino all'università, se ne andava più volte a settimana a piedi giù per la montagna, dove finalmente trovava un autobus scartolato, che bofonchiando lo portava in città.

Anche nelle nostre campagne, fino a poche decine d'anni fa, i bagni erano fuori casa, pochi avevano l'acqua corrente e anche l'elettricità era un lusso.

La scolarità era scarsa, pochi coloro che continuavano gli studi dopo  le elementari, e gli ospedali erano rari e lontani.

Qui è più o meno così. E' una vita durissima, come sempre e dovunque lo è la vita del contadino (fino a quando non si trasforma in agricoltore-imprenditore, con tante macchine da lavoro, la televisione, il telefono, la parabolica....). La fatica fisica di uomini e donne qui mi fa venire la pelle d'oca, ogni volta che li vedo. Km. e km a piedi per fare qualunque cosa: prendere l'acqua, fare la legna, coltivare la propria piccola parcella di terra, vendere al mercato,... Gli uomini caricano le loro biciclette con carichi inimmaginabili.   Su una bicicletta qui si può vedere di tutto: l'intera famiglia che trasloca, la donna seduta dietro, il bambino sulla schiena, i pacchi in braccio; taniche utilizzate come recipienti per qualunque genere da vendere al mercato; fascine infinite di tronchi di papiro (vedi a malapena le ruote e il conducente); pile di caspi di banane altissime; anfore d'argilla una sull'altra, con un diametro di 50-60 cm. ciascuna; e altro ancora, persino porte, divani, ... Del resto, se non hai un'auto ma hai una bicicletta, non puoi usare che quella, per qualunque cosa, a cominciare dal viaggio di nozze.

Eppure... Eppure definirei questo modello di vita un modello "in via di sviluppo"?!  Quale sviluppo? Verso dove?  Per diventare cosa?

Di fatto, credo che ci siamo abituati a confondere lo sviluppo con l'urbanizzazione e l'industrializzazione. Dove non vediamo città, asfalto, macchine, traffico, fabbriche, negozi, ...siamo in presenza del "sottosviluppo". Perché il famoso punto 'zero', infatti, siamo sempre noi che lo stabiliamo: noi occidentali, ancora, un'ennesima volta, da secoli. Non si tratta più di definire i selvaggi o di rendere schiavo e di 'portare a civiltà, ma in ogni caso la prospettiva è sempre la stessa: l'incapacità di accettare il diverso in quanto tale. "O sei come noi, o sei sotto. Devi ancora raggiungere il nostro livello. Ma fatti coraggio, prima o poi potrai arrivarci anche tu!". Come scriveva Oriana Fallaci molti anni fa, mentre scopriva il Vietnam oppresso dalla guerra e dall'imperialismo americano, "... non gli veniva neanche in mente che quei contadini potessero essere contenti semplicemente coltivando il loro campo di riso, e che non avessero nessuna intenzione di portare il loro paese a competere con le spiagge della Florida...".

Questo paese, come tanti tra quelli più poveri, avrebbe solo bisogno di PACE. Di un governo democratico e di una dimensione quotidiana in cui poter lavorare tranquilli, costruire la propria vita, organizzare i servizi sociali necessari, gli ospedali, le scuole...

Non credo che io potrei mai cambiare la mia vita europea con questa vita così fisicamente faticosa e sempre uguale. Ma non offrirei neppure il nostro modello di vita alla gente di qui. Non offrirei, per superare questa fatica, la nostra schizofrenia, di questo ne sono certa. Perché non ho proprio nessuna certezza che il nostro modello (ovvero il nostro quotidiano) sia migliore. Migliore rispetto a cosa? Siamo forse più felici? BAH!

Sul campo si possono verificare tante cose, lette e rilette nel corso del tempo, di autori del sud e del nord. E in questo caso, non posso che riconfermare la mia piena adesione al diritto dei popoli all'autodeterminazione del proprio sviluppo e del proprio modello di vita. Il sacrosanto diritto alla differenza!

 

Punto n. 11:  L'UNIVERSO  DEI  SEMPLICI

Sono loro, questi contadini, gli umili, i miti, i puri di cuore? Sono loro quelli che "erediteranno la terra"? Difficile cogliere uno spiraglio di profezia, nella situazione attuale.

Del resto, a volte mi sembra proprio che siano loro i veri, e noi gli assurdi, i folli. Perché in fondo che cosa c'è di più naturale, e bello, e logico, che vivere accontentandosi di lavorare, coltivare la propria terra, insieme al proprio sposo e alla propria sposa, fare bambini, e lasciare scivolare i giorni, senza inquietarsi?

Noi, noi abbiamo rovinato questa gente. Noi con i coloni, noi con i missionari. Abbiamo portato l'occidente, distrutto una cultura millenaria, distrutto le credenze, e con esse i sogni e la fede nel domani. Abbiamo portato le nostre scuole, a gente che non aveva affatto bisogno di andare a scuola, perché aveva la propria cultura.  Cosa abbiamo ucciso!  Generazioni di individui, e specie intere di esseri umani, nel mondo intero: in tutta l'America Latina, in Oriente, in Oceania, e in tutta l'Africa.

Sono profondamente convinta che uccidendo la civiltà tribale africana, abbiamo ucciso milioni di esseri felici. No, non li sto idealizzando, mitizzando. Penso solo che noi, i bianchi del 1400, del 1800, trovandoci di fronte questa gente "senza Stato", senza abiti, "senza Dio", non abbiamo capito il valore della semplicità.

Il valore della vita di popoli che erano contenti di vivere di pastorizia, di agricoltura, di caccia e di raccolta.

Non abbiamo capito la semplicità, perché mentre gran parte d'Africa era ancora all'età del bronzo e viveva in capanne di fango, da noi Leornardo aveva già dipinto la Gioconda, e poi Machiavelli scriveva Il Principe, e Vivaldi componeva le Quattro Stagioni, e poi le dame e i nobili con parrucche bianche affollavano le corti del Re Sole. E sarebbe rimasta forse ancora all'età del bronzo, se non vi fosse stato il nostro, traumatico, intervento.

E continuiamo a non capire, e a fare progetti per portare il nostro  sviluppo. Come se fosse obbligatorio andare al cinema, a teatro, al ristorante, in piscina. Avere la macchina.

Ci sono tante cose belle nella nostra vita occidentale. La musica, l'arte, la possibilità di viaggiare e di conoscere... Eppure, eppure ci sono milioni, molti milioni di persone al mondo che sono felici, forse più felici di noi, senza queste cose. Milioni di persone che si metterebbero a ridere se cercassimo di spiegare che è possibile scendere una montagna con delle stecche di legno sotto i piedi; che non riescono neanche a immaginare cosa sia un aereo, e che se glielo spieghi si sentono prese in giro o pensano che scherzi. Per molti è difficile immaginare anche solo cosa sia un palazzo, dato che hanno visto sempre solo le loro belle case a un piano, con la terra intorno, dove tutti si muovono liberamente, e se li mettessi dentro un appartamento di città forse morirebbero. Se poi volessimo spiegare che esiste Internet, la posta elettronica, la possibilità di vedersi dentro un video e parlare con un amico che sta all'altro capo del mondo... beh, è come se tentassero di spiegare a noi la vita dei marziani.

Ci sono milioni, molti milioni di individui, che vorrebbero solamente coltivare in pace il loro campo di riso, le loro piante di manioca, portare in giro le vacche, e fare bambini.

E noi? Noi abbiamo distrutto tutto questo, e continuiamo a farlo. Anche noi degli "aiuti umanitari". Di fatto portiamo anche noi nuove esigenze, nuovi stimoli.

Vorrei..., vorrei che fossimo capaci  di lasciare la gente in pace, libera di vivere come accidenti vuole.

Sono loro, questi contadini, i miti? Coloro che "erediteranno la terra"? Le Beatitudini dicono anche "Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati". Bah...!  E' da anni che mi annovero tra questi affamati, eppure vedo lontano, sempre più lontano il giorno del banchetto!

Erediteranno la terra? Chissà. Sono i semplici, i miti, i puri di cuore. Eppure, loro, sono i vinti. I vinti della terra. I "dannati della terra", come li chiamava Franz Fanon, con la rabbia dell'oppressione. Coloro che nulla chiedono, e che pure si ritrovano sulla testa queste invisibili superpotenze, sempre pronte a spartirsi la torta. Una torta che loro abitano, senza neppure averne percezione.

 

INTERVISTE RACCOLTE A NTAMBA, NEL CAMPO DI SFOLLATI SENZA PATRIA.

Ntamba, a 8 km. da Muyinga, è uno dei campi in cui abbiamo le scuole. Fino all'inizio del '96 era un campo enorme, con migliaia di persone, perché vi erano anche i rifugiati rwandesi. Poi questi sono stati rispediti in patria e sono rimasti i burundesi, un migliaio. Ora sono rimaste poche centinaia.

Ma è una situazione un po' particolare, perché non sono sfollati come gli altri. Si tratta di burundesi che erano emigrati in Rwanda molti anni fa, negli anni '60 o '50, per cercare terra e lavoro. Molti di loro sono nati e cresciuti là, e del Burundi non conoscono quasi nulla, anche se hanno dei lontani parenti da qualche parte.

Un giorno, durante la guerra, il governo del Rwanda ha detto "via, tutti a casa", e li ha sbattuti fuori nel giro di pochi giorni. Hanno dovuto abbandonare tutto, per andare in massa verso il nulla.

Sono a Ntamba ormai da due-tre anni, in attesa che il governo del Burundi gli trovi un posto dove vivere e coltivare. Ho voluto ascoltare le loro storie.

Vi suggerisco di leggerle lentamente, così come sono avvenute, e immaginando la voce bassa, timida, e i sorrisi discreti della gente di qui.

 

1 . La storia di Didace, 35 anni.

"Dove sei nato Didace?"

"A Kayanza"

"E quando sei andato in Rwanda?"

"Sono partito quando avevo 20 anni, e sono rimasto là fino al '94, a Butare".

"Eri partito con la tua famiglia?" "Sì"

"E dov'è adesso?" "Mio padre e mia madre sono morti, sono qui con mia moglie e mia figlia"

"Come hai deciso di partire per il Rwanda, nel '69?"

"Noi abitavamo a Kabarore, in provincia di Kayanza, ma la terra là non era buona, e si faceva la fame. Per questo abbiamo deciso di andare via, e cercare altra terra"

"Dunque avete abbandonato le vostre proprietà, qui in Burundi?"

"Abbiamo venduto le parcelle che avevamo e abbiamo preferito partire, tutti. Eravamo dieci, con tutti i fratelli e le sorelle".

"E tua moglie? Eri già sposato?"

"No, mi sono sposato in Rwanda, ma anche lei è burundese".

"E come avete cominciato in Rwanda? Non avevate niente là".

"Abbiamo trovato una buona terra, e l'abbiamo comprata. Era molto fertile. Però non potevamo votare, eleggere gli amministratori e i capi zona, non avevamo nessun diritto. Eravamo considerati come dei prigionieri, non come gli altri cittadini".

"Avevate molta terra, Didace?"

"Quando arrivammo là, c'era molta foresta. Non vi erano problemi a trovare la terra da coltivare e a comprarla".

"E adesso che fine ha fatto questa terra? Avete perso tutto?"

"Credo che le autorità rwandesi se ne siano impossessate".

"Dunque non avete più niente là, non avete più alcun diritto"

"No, non abbiamo più niente"

"Sono tornati tutti, anche i tuoi fratelli?"

"I miei fratelli erano già venuti via qualche tempo prima, verso Cibitoke. Io e mia moglie siamo rimasti in Rwanda ancora un po'. Alla fine della guerra, sono arrivate le autorità a dire 'Voi, gli stranieri, ve ne dovete andare dal nostro paese'."

"E i tuoi parenti a Cibitoke stanno bene? Hanno ricominciato a coltivare, hanno trovato un terreno per loro?"  "Non ho più avuto loro notizie da quando sono partiti. Da più di tre anni".

"Non sai dove sono? "  "No".

"Come mai sono andati a Cibitoke, conoscevate qualcuno là?"

 "No. Sono solo andati a cercare un posto dove vivere".

"Vorresti avere loro notizie, Didace?"

"Ho cercato loro notizie, ma non sono mai riuscito ad averle. Non so neanche dove sono".

"Dunque ti restano solo tua moglie e tua figlia".

"Se ci fosse stata la pace, forse li avrei ritrovati. Ma così... Non spero più di ritrovarli".

"Didace, tu sai dove andrai? Resterai qui, te ne andrai ...?"

"Io vengo da Kayanza, e qui ci sono circa altre cento famiglie di Kayanza. Andrebbe bene lasciare il campo, ma per andare dove? A Kayanza non ho più niente, non ho più terra né parenti. Non posso certo dire a dei vecchi zii, che non vedo da vent'anni, di riaccogliermi nella loro piccola parcella di terra. Forse, il nostro problema, sarà risolto dal governo. Ci diranno dove andare".

"Sì ma tu, Didace, che cosa preferiresti? Restare qui, dove avete un po' di terra e dove ormai vi conoscete tutti, o andare via?"

"Per me, se lo stato mi dà un po' di terra da coltivare, posso anche stare qui. Ma se c'è la pace, e se lo stato mi dà la terra da un'altra parte, io posso anche andare via. Non m'importa dove".

"Didace, quanti anni ha tua figlia?"  "Sette anni"

"Ah, allora ha frequentato la nostra scuola!" "Oh sì, la frequenta! Ha imparato bene a leggere a scrivere, con la maestra Venancie"

"Didace, tu hai sempre fatto il contadino?"  "Oh sì, molto. Coltivavo i campi, anche quando ero piccolo. Mi piaceva coltivare i campi!"

"Ti piace fare il contadino, stare tra i campi?" "Oh sì, amo questo lavoro!"

"Hai anche allevato degli animali, portavi gli animali al pascolo?"

"Non ho mai avuto le vacche, solo le capre"

"Didace, raccontami un po' il tuo lavoro. Cos'è che ami fare di più?"

(sorride) "Mi piace coltivare i fagioli, le patate dolci, la manioca..."

"Anche tua moglie lavora i campi?" "Oh sì, molto!"

"Lavorate insieme?"   "Sì, siamo sempre tutti insieme!"

"E' bello. Ma è faticosa la vita del contadino, no?"

"A me piace coltivare. Non mi piace stare senza far niente"

"Preferivi vivere in Rwanda o in Burundi?"

"Preferisco il mio paese. Preferivo anche Kayanza, anche se la terra non era fertile. Sto bene con la gente del mio paese".

"Nella tua famiglia, durante la guerra del Rwanda, hai avuto delle persone uccise?"

"Sì, ci sono state molte persone uccise. Nella famiglia di mio zio, sono stati sei "

"Didace, dimmi: che cosa pensi tu di questa guerra? Perché sono avvenuti atti così terribili in questo paese? Qual è la tua idea, com'è possibile che persone così tranquille, che amano lavorare la terra con la propria famiglia, da un giorno all'altro comincino ad ammazzarsi gli uni gli altri, con tanta violenza?"

"Ah, anche noi contadini ci siamo fatti tante volte questa domanda. Non siamo noi che provochiamo la violenza e la guerra. Noi siamo delle vittime. Sono quelli che hanno studiato, e quelli che sono al potere, che fanno la guerra! Per un bisogno di potere. Nemmeno io riesco a capire come sia possibile che in Rwanda si siano ammazzati tra fratelli".

"Tu pensi che ciò che è successo potrebbe accadere di nuovo?"

"Io spero che tutti depongano le armi, si siedano, e si mettano a parlare. Perché la pace non può essere importata dall'esterno. Sono i rwandesi e i burundesi che devono mettersi a discutere, a confronto, per risolvere i loro problemi. Quando riusciremo a mettere insieme tutte le idee, allora potrà tornar la pace".

"Didace, tu sei andato a scuola da piccolo?"

"Io ho frequentato solo la scuola dei missionari, la catechesi, per cinque anni.Non ho imparato molto a leggere e scrivere. Non mi interessava molto"

"Ti sarebbe piaciuto andare a scuola? O non ti sembrava importante per la tua vita?"

"Il catechismo mi interessava perché volevo essere battezzato. A quell'epoca non vi erano molte scuole elementari, e quando si passavano i dieci anni di età, non ci poteva più andare".

"Ma se ci fosse stata la scuola? Sai, credo che molti bambini preferiscano stare nei campi, portare in giro le vacche, essere liberi, piuttosto che sedersi nei banchi di scuola. Tu hai detto che amavi lavorare, anche da piccolo".

"Mi sarebbe piaciuto andare a scuola, ma sono stato contento di frequentare il catechismo, e poi di essere andato a lavorare. I miei fratelli più piccoli invece sono andati a scuola".

"Tua moglie è andata a scuola?"  "Sì, fino alla 7  classe"

"Didace, i tuoi genitori, i tuoi nonni, cosa pensavano della scuola? La scuola una volta non esisteva in Africa, e i bambini apprendevano la vita direttamente nel villaggio, e dalla famiglia estesa. Sono stati gli europei e i missionari a portarla. Cosa ne pensavano loro, quando tu eri piccolo?"

"I nostri nonni non amavano molto la scuola. Preferivano insegnare ai bambini a coltivare, a cacciare, fare i lavori del villaggio. Quando i bambini hanno cominciato a frequentare la scuola, loro non erano molto contenti".

"E tu Didace, tu cosa ne pensi? Pensi che sia necessaria o utile la scuola? Per una persona come te, che ama lavorare la terra, serve andare a scuola?"

"Per me la scuola è molto importante. Si imparano tante cose, molto importanti, non solo il lavoro del contadino"

"Ma forse dopo, più nessuno vorrà lavorare la terra, dopo essere andato a scuola"

"No, non è vero. Anche dopo che sei andato a scuola, puoi aiutare nei campi"

"Dunque  Didace, tu speri che tua figlia possa continuare ad andare a scuola?"

"Oh sì, certo. Lo spero tanto"

"E che cosa sogni, Didace, per tua figlia? Che cosa le auguri, in questo paese, che cosa vorresti che lei avesse nel suo futuro? Vorresti che continuasse il tuo lavoro, che restasse qui, che andasse altrove?"

"Io mi auguro innanzitutto che ci sia la pace. E spero che lei possa sviluppare le sue conoscenze, che continui i suoi studi e trovi un buon lavoro".

"Un altro lavoro, o il lavoro dei campi?"

"Ci sono già io a fare il contadino! Vorrei che mia figlia facesse qualcosa di superiore, così potremmo combinare gli sforzi, e la famiglia starebbe bene"

"Dunque, tu ami il tuo lavoro, tua moglie anche, eppure non pensate che sia un buon lavoro per vostra figlia!"

"Io spero che mia figlia continui la scuola e possa fare un altro mestiere. No, non le auguro di fare la contadina".

"Ma Didace, non capisco: tu sei felice della tua vita di contadino!"

"Sì, io sono stato felice di fare il contadino, ma non lo auguro a mia figlia. Il lavoro nei campi è un lavoro troppo duro!  Amo il mio lavoro, ma è troppo duro!"

"Ti sarebbe piaciuto fare un altro mestiere, meno faticoso?"

"Se Dio ha predisposto qualcosa per te, se ha deciso che tu farai il contadino, tu morirai contadino"

 

"Didace, come hai conosciuto tua moglie?"

"Abitavamo sulla stessa collina, in Rwanda. Qualche volta le nostre famiglie si facevano visita, si restava a parlare insieme".

"E come hai deciso di sposarla?"

"Quando l'ho vista, mi è piaciuta subito. Ho pensato "questa è la ragazza che Dio ha previsto per me", e dopo tre mesi ci siamo sposati, dopo che le avevo pagato la dote".

"Lei è stata d'accordo subito?"

(ride) "Sì! Ha accettato subito!"

"Didace, cosa pensi tu dell'amore?"

"L'amore è la cosa più importante. Non si può vivere soli. Bisogna trovare una persona. Non si può vivere senza amare"

"E' bello lavorare insieme, marito e moglie?"

"Oh, molto. E' ciò che tutti si augurano!"

"Ma si litiga qualche volta?"

"Qui, dividiamo tutti la stessa miseria. Si lavora insieme, e non si litiga mai.(ride) ...Giusto se la moglie ha bevuto un bicchiere di troppo! "

"Altrimenti non litigate mai?"  "No. Non ci piace litigare"

"Da quanto tempo siete sposati?"  "Da dieci anni"

"E pensate di fare altri figli?" "Oh sì, proprio adesso mia moglie è incinta. Ma con il costo attuale della vita, non possiamo farne più di quattro!".

 

"Didace, molto tranquillamente: che cosa pensi dei bianchi che lavorano qui?"

"Io ho incontrato bianchi che mi sono piaciuti molto, che mi hanno molto aiutato. Non ho avuto cattive esperienze con i bianchi, tranne uno, dell'HCR. Lui decide sempre delle cose, senza mai chiedere a noi cosa ne pensiamo".

"Tu pensi che in questo paese ci si possa esprimere, o avete paura a dire le vostre idee alle autorità?"

"Io non ho paura di esprimermi, solo che in genere non si sa a chi rivolgersi"

 

"Didace, ci sono cose nella tua vita che avresti voluto ma che non hai potuto fare? "  "No"

"E cose che vorresti fare?" "Io spero solo che nel mio paese ci sia la pace, e che così possiamo lavorare tutti per fare andare bene questo paese".

"Ci sono cose che vorresti raccontarmi, qualunque cosa, fatti che ti sono accaduti?"

"Ciò che mi ha più disturbato nella vita, sono i continui spostamenti. Verso il Rwanda, poi Burundi, Muyinga, Ntamba. E qui ci dicono di non avere diritto alla terra, perché dovremo andarcene di nuovo. Però non sappiamo quando ce ne andremo. Io vorrei solo essere lasciato tranquillo, a coltivare, a organizzare la mia vita. Invece, ogni volta, si lavora, si coltiva, e quando sei pronto per prendere il raccolto... te ne devi andare di nuovo!  E poi, ogni volta, perdi il tuo modo di vita, ti abitui alle persone, devi imparare nuovi modi di vivere, di stare con le persone, e poi... via di nuovo, a ricominciare daccapo. Così non si sta bene, e ci si arrabbia e si perde la fiducia negli altri".

"Pensi che le tradizioni e i modi di vita siano molto cambiati, negli anni, in Burundi?"

"Oh, sì molto. Un tempo il paese era tranquillo, ci si poteva muovere liberamente. Adesso è molto peggio. C'è paura, diffidenza tra la gente. E poi io, dato che sono rimpatriato dopo tanti anni, non ho ancora i documenti qui in Burundi, non ho la Carta d'identità, ho solo la Carta di Indigente. E senza la Carta di Identità, non posso muovermi, non posso uscire dalla Provincia di Muyinga. Posso solo venire in città per andare al mercato.  Quasi tutti, qui a Ntamba, non hanno i documenti di identità, e non possono muoversi. Quando ci riporteranno nelle province d'origine, potremo avere i documenti. Il Governatore ce lo ha promesso".

"Dunque, tu non sei libero, nel tuo paese"

"No, non posso muovermi, nel mio paese"

"Ok Didace. Grazie, per avermi raccontato la tua storia. Facciamo una fotografia?"

 

2. La storia di Agnès, 32 anni

"Agnès, di dove sei originaria?"  "La mia famiglia era di Kayanza, ma io sono nata e cresciuta in Rwanda. Sono rimasta là fino a 3 anni fa".

"Ti sentivi bene in Rwanda?"  "Sì, stavo bene. Vivevo nella provincia di Butare"

"Come mai hai lasciato la tua casa a Butare?"  "Durante la guerra del '94, in Rwanda, è stato terribile. Tutti scappavano senza sapere dove, da una provincia all'altra, da una regione all'altra. Abbiamo fatto il giro del Rwanda, per poi ritrovarci al punto di partenza".

"Con chi sei scappata?"  "Ero io con i miei due figli. I miei genitori erano già morti prima della guerra. Mio marito è morto durante la guerra. Era malato, soffriva all'intestino e aveva bisogno di curarsi. Durante la guerra, l'ospedale non funzionava più come prima, e lui non è più riuscito a curarsi. Così è morto".

"Da quanto tempo è morto?" "E' stato 3 anni fa, nel ''94"

"I tuoi bambini quanti anni hanno?"  "Il più grande ha 13 anni, poi ne avevo un altro, che è morto, poi una bambina che adesso ha sette anni"

"13 anni? Ti sei sposata molto giovane!" (sorride) "Sì, mi sono sposata a 18 anni!"

"Dove avevi conosciuto tuo marito, Agnès ?"  "Eravamo vicini di famiglia, e anche lui era burundese, ma aveva cittadinanza ruwandese perché la sua famiglia aveva lasciato il Burundi da molti anni. Io avevo 18 anni e lui 23".

"E come avete deciso di sposarvi?"  "Lui frequentava la nostra casa, veniva a trovarmi. A me piaceva, allora le nostre famiglie si sono messe d'accordo e ci siamo sposati. A 18 anni, ero pronta per fare bambini".

"Che lavoro faceva, era contadino?"  "Sì, lavorava nei campi. Anch'io lavoravo i campi. Si faceva i contadini insieme"

"Avevate una bella parcella?"  "Sì, la terra che ci aveva lasciato mio padre"

"Agnès, ti piaceva lavorare i campi?"  "Sì, era bello! Avevamo dei bei raccolti, e anche l'allevamento delle galline, dei conigli, delle capre"

"I bambini vi aiutavano?"    "Sì, mio figlio accudiva le capre, legate a una corda"

"Cosa è successo quando sei rimasta vedova?"

"Quando mio marito, Eliàce, è morto, io non potevo più continuare a coltivare, a causa della guerra. La vita è cambiata immediatamente, e non si è potuto più stare tranquilli. Abbiamo cominciato a sfollare in altre regioni, insieme a tanta altra gente"

"E non avevi altri fratelli?" "Ho solo un fratello con me, di 20 anni, gli altri si sono fatti una famiglia altrove".

"Agnès, come hai potuto continuare, con due bambini piccoli, sola, senza più la tua terra da coltivare, senza più tuo marito? C'è qualcuno, o qualche organizzazione, che ti ha aiutato?"

"No, nessuno. Ho dovuto arrangiarmi, con i miei bambini. Quando è morto mio marito, si sparava nella nostra regione, si sentivano sempre molti colpi di fucile, tutti scappavano. A Butare la guerra è stata dura. Si scappava da una collina all'altra, e anche se eravamo in molti, ognuno doveva badare a se stesso".

"Hai perso tutto ciò che avevi?"  

"Sì, ho perso tutto ciò che avevo con mio marito. Quando è tornata la calma, siamo tornati sulle nostre terre, ma le case erano state distrutte o occupate da altra gente".

"Che cosa hai fatto, Agnès?"  (si commuove, con discrezione; la voce è tremante)

"C'erano continuamente i capi zona che ci mandavano da una parte all'altra, che ci dicevano di sfollare là o là; e si sperava ancora, c'era paura. Poi... poi mi sono decisa a venire verso il Burundi, insieme ad altri rifugiati. Avevo uno zio a Kirundo, e pensavo di andare da lui"

"E come sei venuta in Burundi, vi ha aiutato qualcuno, qualche organizzazione?"

"No, no nessuno"

"E come sei venuta qui, a piedi, con dei camion, degli autobus?"

"A piedi"

"A piedi da Butare fino a Kirundo, con i bambini? Non avete trovato nessun passaggio?"

 "No, abbiamo fatto tutto a piedi"

"Agnès, cosa ti immagini per l'avvenire?  Restare qui, andare altrove? E dove vorresti andare?"

"Io non conosco niente qui, sono nata in Rwanda. Siccome la famiglia era di Kayanza, sono stata registrata per essere riportata a Kayanza. In Rwanda non posso tornare, perché ormai non troverei più nessuno della mia famiglia.Anche i parenti di mio marito sono morti. A Kayanza, non conosco nessuno. Ho uno zio a Kirundo, che mi ha invitata ad andare da lui, con la sua famiglia. Ma non so se potrò andarci, perché ormai le autorità e l'HCR mi hanno registrato per mandarmi a Kayanza. Adesso aspetto il prossimo mese, per avere il raccolto, e poi spero di poter andare a Kirundo"

"Agnès, i tuoi bambini sono andati a scuola?"  "Sì, vanno a scuola da Mélance. Sono contenta di questa scuola"

"Sei stata bene qui a Ntamba ?"  "Quando sono arrivata qui, non avevo più niente, neanche dei vestiti. Allora ho cominciato ad andare in giro, a cercare di lavorare, di coltivare nelle terre dei vicini. E le famiglie intorno mi hanno dato un po' di lavoro, e qualche abito"

"Ma, Agnès: non trovi un altro marito?"  (sorride)

"No, non lo voglio! Se io mi risposassi, il mio nuovo marito non accetterebbe i miei bambini. Succede spesso da noi. Preferisco rimanere così, con i miei bambini"

"Agnès, ma è molto dura così la tua vita, sempre sola, con due bambini da mantenere"

"Ho passato tre anni così!  No, non ho mai pensato ad un altro uomo".

"Eri molto legata a tuo marito"

"Sì, lo amavo molto. E non voglio un altro uomo" .

 

***

6 luglio 1997, domenica

Ile Maurice, Tropico del Capricorno, nel bel mezzo dell’oceano indiano.

 

Carissimi tutti, vicini e lontani. E’ da così tanto che non riesco a trovare il tempo per scrivere!  L’ultima mia è di circa un mese e mezzo fa.

Vi avevo detto che il mio contratto finiva a metà giugno e che non volevo fermarmi oltre, invece... il tempo passa veloce, e alla fine ho deciso di accettare.  In effetti, sono contenta di essere rimasta, perché c’erano ancora troppe cose da fare. Sto chiudendo il progetto di Muyinga e nel frattempo forse se ne avvia uno più grosso, che ci ha chiesto l’Unicef, nella provincia di Karuzi. Lì i problemi sono molti di più e  più gravi che a Muyinga. Quella provincia è stata «zona rossa» fino all’inverno scorso, così le organizzazioni di aiuti non hanno potuto fare granché (è rimasta solo una: Medecins sans frontières). E’ stata abbandonata quasi completamente: poche le scuole funzionanti, poca assistenza sanitaria, poco di tutto. E i campi sono enormi. A Muyinga il più grosso conta 5000 persone. A Karuzi, il più piccolo ne conta 7000, il più grosso 22000.Tutta la popolazione della provincia è ormai nei campi: di deplacés, (quelli volontari), di regrouppés (quelli forzati dal governo). In tutto sono 23. Certo, il paesaggio è molto bello: km. senza vedere nessuno!

Cercheremo di riportare le scuole anche qui. Dov’è possibile, restaurando quelle pubbliche esistenti, dove la distruzione è troppo profonda, monteremo per il momento le scuole di plastica. E ci sarà da fare un bel lavoro di reclutamento e formazione, perché la mancanza di insegnanti è sempre il problema più grosso.

Non so quando tornerò in Italia, spero ai primi di agosto. Ci tenevo tanto a fare l’estate a casa! Invece, sta già passando.

Ora come vedete non vi scrivo dal Burundi bensì da Mauritius. E NON SONO  QUI IN VACANZA!!!  Collaboro a un progetto Unicef, per 15 giorni, di formazione insegnanti, all’interno di un progetto pluriennale di educazione allo sviluppo. E NON FA NEANCHE CALDO!!  Anzi: dato che siamo all’emisfero australe, qui siamo in pieno inverno!  Beh, certo non è il nostro inverno, però non si fa il bagno. Era meglio il  Tanganyika, decisamente.

Dal punto di vista professionale  è una bella esperienza. Lavoro con Ray, anzi è lui che mi ha invitata: il mio amico gallese giramondo, sempre a fare corsi da una parte all’altra del globo, dalla Guyana all’Eritrea. Più o meno facciamo le stesse cose, solo che lui stando in Inghilterra riesce ad avere materiali che in Italia non si trovano, quindi è sempre molto più aggiornato. Siamo probabilmente abbastanza complementari dato che lui dà molta importanza al metodo, mentre io più ai contenuti. E’ interessante anche conoscere il sistema scolastico dell’isola. E’ incredibile quante lingue parlino qui i bambini già da piccoli. Quest’isola è un incrocio di tante razze, per la maggior parte provenienti dall’oriente. Si parla dunque il tamil, l’indi, l’hurdu, l’arabo, il creolo, altre lingue secondo il gruppo d’origine, poi già alle elementari parlano e scrivono inglese e francese. Ray infatti non ha problemi neppure con i più piccoli (lui non parla francese) e nelle scuole superiori può fare incontri con i ragazzi completamente nella sua lingua.

Il sistema scolastico in genere comunque, è piuttosto tradizionalista, molto legato agli esami e soprattutto, ci dicono, è estremamente competitivo. Tutto ciò che Ray propone quindi è estremamente innovativo. Ho trovato insegnanti molto professionali e impegnati.

Com’è lontano il Burundi!  Qui ci sono scuole enormi  e in questo paese si respira un’inaspettata atmosfera da iperefficientismo svizzero (o giapponese, dato che qui si  sente tanto l’influenza europea quanto quella orientale).

Sapevo che fosse un’isola molto sviluppata sul piano turistico, ma non immaginavo quanto «sviluppata» e sono rimasta un po’ shockata. Mi mancano  la calma, il silenzio, il verde, del «sottosviluppato» Burundi.

Non mi piace molto essere qui, ma certamente, per le mie meditazioni intorno alla ricchezza e povertà del mondo, è «un’esperienza  utile».

Voglio dire: qui si respira tutta, proprio tutta la degenerazione dello «sviluppo» portato dall’occidente. E’ un paese invaso dal cemento, che ha fatto la scelta del porto franco, tanto sostenuta dalla Banca Mondiale come mezzo per uscire dal sottosviluppo, dunque tante strade asfaltate, un’infinità di ville su quelle che erano splendide spiagge, per non parlare della quantità spropositata di club vacanze (e tanti sono ancora in costruzione). E naturalmente, non mancano i casinò. 

Port Luis è, nel suo piccolo, una megalopoli, e per arrivare in ufficio devi sciropparti ore di smog. Come in tutte le megalopoli, ti auguri che facciano al più presto un qualche accidente di metropolitana, ma naturalmente vengono prima gli ipercentricommerciali. Ne hanno appena finito uno, enorme, lussuosissimo. Già, perché è chiaro che «lo sviluppo» ha portato anche i soldi, tanti. Qui si vedono solo macchine grosse (obbligatori sia la cintura di sicurezza che i caschi sui motorini) e negozi di Yves S.Lorent, e grattacieli di cristallo. Le antiche moschee e i templi indù sono più o meno sommersi da banche e supermercati.

Per andare in spiaggia poi... no: non è che uno può trovare il porticciolo con pescatori con le piroghe, come immaginava quando ha comprato il biglietto per farsi 9 ora di aere.  Trova invece le grosse barche a vela o a motore che può trovare a porto ferraio o a Capri, e trova anche la stessa fila di ristoranti (cucina indiana, cinese, francese, italiana,...) la fila dei negozi con le cose esposte fuori, trova la megagelateria, insomma tutto, proprio tutto ciò che avrebbe trovato in qualunque luogo di mare in Europa.

Le case sono arredate all’occidentale (e ci sono tanti negozi d’arredamento) con tutti gli elettrodomestici che si vedono nelle pubblicità,. Insomma, non c’è praticamente nulla, guardandoti intorno, che ti ricordi di essere in mezzo all’oceano indiano. Diciamo, i colori delle facce, e i vestiti delle donne.

Sono rimasta davvero esterrefatta, o forse dovrei  dire inorridita. E’ chiaro che le spiagge stupende ci sono ancora, ma in molti casi ci trovi le bottiglie di plastica, e comunque la strada asfaltata è a pochi metri, così come il casino. No, non ti senti «fuori», lontano da tutto. Ti senti proprio nella bolgia, come se fossi rimasto a casa!

Ecco: questo è il Mitico Sviluppo. L’Occidente che invade il mondo. Persino le pubblicità sono le stesse. Accendo la TV e cosa trovo? L’immagine «invidiabile» di una grossa auto, con i classici spot del tipo «Renault, la libertà». E cosa desiderare d’altro se non la bella macchina che ti fa sentire «arrivato» agli occhi del mondo?!

Non so se è una mia deformazione, comunque secondo me «c’avranno anche i soldi» ... ma qui non si vedono più le facce sorridenti  che si vedono ancora in  Burundi, anzi:  mi sembra che abbiano tutti le tipiche facce incazzate che si vedono la mattina a Milano, quando ti trovi assonnato in mezzo al traffico e vorresti mandare tutto al diavolo... e andare su un’isola! E dove potranno andare gli abitanti dell’isola, dopo che avranno raggiunto la nevrosi perché l’isola è stata distrutta?!

Comincio a pensare che se continuiamo così, per trovare un posto tranquillo  potremo andare solo nei parchi nazionali degli Stati Uniti. Addio montagne del Nepal, isole Malesiane, foreste pluviali. Già, perché non vi ho detto delle foreste: un tempo Mauritius ne era coperta. Non ne rimane più nulla. Tutto abbattuto, in nome della monocoltura della canna da zucchero: distese infinite.  E che dire del dodo,  il  »papero»  primordiale che qui viveva libero, e ora resta solo nelle stampe antiche e nei musei.

E’ stato interessante l’incontro con Sunil, un insegnante amico di Ray che è anche un pittore di batik secondo la tecnica tradizionale. Ha studiato  sei anni in Francia e si è laureato a Marsiglia con una tesi su questa pittura. Fa dei lavori molto belli. Lui è cosciente di quanto il suo paese abbia perso la propria cultura, in nome dell’innovazione e del progresso. Ci ha raccontato  di essere andato a proporre il commercio delle sue opere  ad un albergo di una grossa catena sudafricana. Risposta: Si, sono molto belli, ma vede... in questo hotel  trattiamo solo prodotti del Sudafrica.

Questo è uno dei punti forti quando si parla di turismo etico. Si dice che i grandi alberghi «portano sviluppo» e inducono occupazione, ma non è così. Del loro giro d’affari miliardario solo una minima parte rimane al paese ospitante, mentre tutto il resto è trasferito al paese d’origine, sotto tutte le forme. Innanzitutto perché TUTTI i prodotti dell’hotel  (dal cibo ai mobili alla carta igienica) sono provenienti dall’esterno, non comprati sul posto. Già perché questo «viaggiatori» devono essere curati sotto ogni particolare. Mica devono correre il rischio di qualche disavventura!  Dunque bisogna portarsi  TUTTO  da casa. Funzionano tutti così: Alpitur, Ventaglio, Club Med... E anche questa, è una forma di  espropriazione.  Ma in fondo, chi se ne frega?  Il commento dei turisti è che « Mauritius è davvero BEN ORGANIZZATA » !  Chissà le generazioni future cos’avranno da vedere di ciò che era un tempo il pianeta terra!?!?

E in fondo, già noi, quanto perdiamo di ciò che hanno potuto conoscere le generazioni precedenti?!

Del resto, credo proprio che non ci sia via d’uscita. Abbiamo innescato un meccanismo perverso, che è inarrestabile.  Si, forse ho già nostalgia delle «sottosviluppate» colline del Burundi!  Spero che lì i grattacieli di cristallo non arrivino mai e nemmeno le boutiques di Cacharel.

A presto, spero.

30 luglio 1997, mercoledì . Bujumbura

Eh sì, eccomi qua: giunta alla fine del contratto. Questa volta è proprio tutto pronto : l ‘aereo prenotato, la persona che viene a sostituirmi che arriva domani, le consegne e i saluti fatti.

Pero , è tutto molto, molto diverso da come lo avevo immaginato (...le cose sono sempre incredibilmente diverse da come te le sei  immaginate !).

Mi ero preparata a qualcosa da strappalacrime, di incredibilmente sofferto e nostalgico, invece sono assolutamente tranquilla. Del resto, sono successe cosi  tante cose negli ultimi due mesi !

Innanzitutto sono stata molto poco a Muyinga, perché le cose da fare con l'Unicef erano soprattutto qui in capitale. Poi c è stato l'intermezzo Mauritius. Poi sono tornata in capitale, con solo alcune brevi missioni a Muyinga. E qui... sono successe altre cose. Sia a livello personale che professionale. E succede che... tornerò  qui tra quindici giorni ! Insomma, l'addio strappalacrime era proprio impossibile.

Passero  due settimane a casa, dove dovrò  fare mille cose tutte di corsa, e poi tornerò  qui ma con tutto un altro ruolo e un altro tipo di lavoro. Sarò  infatti consulente Unicef per il progetto di educazione alla pace, con il compito di collaborare con il Ministero dell'Educazione per rifare i libri di testo delle elementari, aggiornarli  didatticamente ed inserirvi l'approccio interculturale, l'educazione al conflitto, ecc. Insomma tutti i ‘miei  temi, su cui lavoro da anni. Splendido.

Naturalmente poi ci sono anche tutti i vantaggi contrattuali del rapporto con l'agenzia ONU, che ogni tanto fanno piacere (dopo anni  di sbattimento... !).

A questo proposito, mi viene in mente quanto vi avevo accennato: volevo parlarvi della fauna e del supermercato del cosiddetto mondo degli aiuti umanitari, di cui faccio parte, forse con sempre più vergogna. O forse no. Ancora non so, perché sono ancora esterrefatta.

C’è ancora qualcuno che si chiede perché i paesi poveri sono poveri? C’è ancora chi si chiede perché  l’Africa è ancora sottosviluppata? Perché i burundesi litigano tra loro? … ecc ecc ecc??? Bene : vedere per credere.

Non sono certo partita convinta di entrare in un mondo di gente motivata e seria. Questo mondo lo conosco ormai da tempo, e le schifezze che ci sono dentro le conoscevo già bene. Ma... la realtà supera sempre la fantasia, e le nefandezze del business degli aiuti umanitari sono ben più indecenti di quanto potessi supporre.

Se ne vedono davvero di tutti i colori. Non ve le voglio descrivere nei particolari perché non voglio schifarvi quanto lo sono io.

Vi dico semplicemente che la famosa teoria dello ‘ sgocciolamento   è molto più vera di quanto pensassi. Non si può  dire infatti che nulla arrivi a destinazione. Ma per quattro soldi che arrivano alla gente (in cibo, sanità o materiale didattico o quant'altro), i miliardi spesi che restano sopra il filtro sono centinaia. E il filtro contiene tutte le componenti di qualunque struttura che conosciamo a casa nostra: clientelismo, speculazione bieca ed evidente, spreco dovuto a malagestione e cattiva organizzazione, ecc.

Sotto di esso, sono davvero le gocce che rimangono alla gente, non certo i miliardi stanziati, che noi sentiamo decantare alla TV, dall'Unione Europea o da questo o quel paese.

Voglio precisare che non mi riferisco qui solo alla grosse agenzie e al sistema ONU, ma anche alla piccole Ong, che tanto vantano il loro essere alternative. Anche tra le Ong ci sono manovre  davvero pazzesche.  Credo che se qualcuno avviasse un’inchiesta seria su tutto questo, scoppierebbe qualcosa di ben più scandaloso di Tangentopoli. Forse non come giro di miliardi (benché non è detto neppure questo) ma certamente sul piano etico. Perché se fa schifo far girare mazzette di miliardi per accaparrarsi appalti o finanziare illecitamente dei partiti, fa ben più schifo speculare su soldi destinati a gente che non ha più niente, profughi, vedove, bambini distrutti, vecchi che non si reggono neanche in piedi.

Il sistema ONU, non credo sia peggio di molti altri. Quello che colpisce è soprattutto lo spreco, il costo immane, necessario per far andare una macchina pachidermica, di proporzioni planetarie. Migliaia di persone strapagate, in decine e decine di uffici di tanti paesi, per fare progetti che, come costo effettivo reale, sarebbero solo di poche centinaia di milioni.

Al di là di questo, nulla si può  dire  di  categorico su chi lavora per un agenzia o per un altra. La fauna degli aiuti umanitari è davvero pazzesca, tanto nelle grandi strutture quanto nelle piccole Ong. Si trova davvero di tutto.Voglio dire : si trovano molte persone serie e preparate professionalmente. Ma si trova anche una marea di pazzi, psicopatici, nullafacenti, e quant'altro.

Trovi gente di trenta, quarant'anni, fatta alle dieci di sera di alcool,  fumo, o cocaina. Trovi quelli che, magari con i soldi dei progetti, si pagano le puttane, e non si preoccupano neppure di nasconderlo, anzi.  In una Ong (cattolica, italiana) c’è persino uno che ha fama di pedofilo.

Eppure, non so, sembra che sia “strana” io a scandalizzarmi. Il fatto di essere in un paese così  incasinato, così  difficile a vivere in certi periodi, sembra rendere lecita qualunque cosa, e sembra che tutti vi si abituino. Del resto, ci si abitua davvero a tutto. In Italia le mazzette erano (o sono ancora?) la normalità se si voleva lavorare. In certe zone è la mafia che stabilisce la norma, le regole di comportamento.

Ve lo avevo già scritto tempo fa: se ci si ferma a riflettere sull'esito dei nostri sforzi, viene voglia di mollare tutto. A questo punto, se mi chiedo perché continuare a fare le cose che faccio, la risposta non può  certo essere di tipo umanitario. Non voglio dire che non serve a niente, ma purtroppo, temo che rimanga davvero ben poco di ciò  che noi facciamo, anche quando cerchiamo di farlo al meglio.

Non è solo il fatto che getti una piccola goccia in un mare. Sono sempre stata ben convinta del fatto che  qualunque grande viaggio comincia con un passo.. No. Il punto è che le piccole gocce che tanti cercano di buttare per costruire qualcosa di buono, si trovano generalmente navigare in un mare di fogna.

No, non lo dico con pessimismo o con depressione. E  semplicemente una realtà, con la quale ho da tempo imparato a convivere. Fregandomene.

Io continuo a far procedere i miei passi, per il semplice fatto che questo è ciò  che mi va, ciò  in cui credo, e ciò  che mi piace. Poco m'importa della merda che posso avere intorno. Cerco di evitarla. Non sempre ci si riesce. Pazienza.  Del resto, qual è l’alternativa ?

Tornerò  qui, perché questo paese è bello, e i bambini ancora di più ; perché il lavoro che dovrò  fare è splendido, perché con la persona dell'Unicef che me lo ha offerto ho lavorato tutti questi mesi e ne ho un impressione positiva. E poi, perché spero di fare qualcosa di buono, ancora. Di poter dare qualcosa di positivo, tramite i libri scolastici, ai bambini che cresceranno in questo paese.

Certo, se ci fosse meno schifo intorno, sarebbe tutto meno faticoso. Del resto, se non ci fosse questo schifo intorno, saremmo forse nel mitico Eden, e non avremmo neppure bisogno di lavorare.

Una nota di colore : da quando sto a Bujumbura, e per i mesi che verranno, ho preso in affitto una piccola, splendida casetta in riva al Tanganyika, praticamente sulla spiaggia. E’ quasi come vivere sul mare. Un motivo in più per fermarsi ulteriormente! Cari saluti a tutti e a presto.

***

Bujumbura, 22 settembre 1997

Carissimi tutti, che siete arrivati pazientemente fino qua, e continuate a seguire il mio percorso !

Non ho più scritto dal 30 luglio. Lo confesso: se riprendo con queste epistole,  non è solo per ‘colpa’ dell’embargo. In parte sì: mandare fax a tutti sarebbe un po’ costo alla fine del mese !  Ma un po’ è anche perché proprio non ce la faccio a tener dietro  alla corrispondenza. Sono molto contenta: mi avete scritto in tanti !Ma proprio per questo non ce la faccio a scrivere lettere personalizzate a tutti, e comunque scriverei in gran parte le stesse cose.

Se poi in questi quasi due mesi non ho più scritto, è per vari fattori: 1° perché da luglio io ed E. facciamo vita di coppia, e la coppia si sa: fagocita!  E’ facile scrivere quando sei ai confini del mondo, solo come può essere solo un navigatore solitario, senza niente altro accidenti da fare! Quando il navigatore si circonda anche solo di un elemento vivente, tutto il panorama prende un’altra forma, e si spostano tutti gli equilibri.   Il 2° motivo, comunque non da meno, è che le mie elucubrazioni erano ancora troppo complesse e stupefatte per prendere una forma comunicativa. La meditazione ha bisogno dei suoi tempi per dare qualche risultato !   Il 3°: non ho molto tempo. Vorrei scrivere la sera a casa ma non ho un computer mio.

Nel frattempo, ho comunicato con i tanti che mi hanno scritto, e che ringrazio, e che spero continuino a scrivere, con il mezzo che preferiscono : fax o e-mail, ma vanno bene anche le cartoline di una volta, scritte con la penna stilografica. E poi naturalmente si accettano regali:  foto del tempo che passa, libri, cassette, pesto alla genovese, ...

Dunque :  adesso vi aggiorno. Non ricordo più a chi ho  scritto cosa, quindi sopportate le ripetizioni.

 

1. Affari di cuore

Dunque, mi avete lasciata single (non incallita) e mi ritrovate a due. Capita anche in Burundi. Già a luglio E. ed io, subito dopo il mio  viaggio a Mauritius, ci siamo presi una splendida casetta sulla spiaggia, che pensavamo di sfruttare solo per 15 giorni, dato che il mio contratto era alla fine. Invece, ce la stiamo godendo ancora. E’ un po’ lontana dalla città ma è fantastica,  perché quando smolli il lavoro ti dà quella tipica sensazione di lasciarti tutto alle spalle, e ti ritrovi con il tramonto in spiaggia.  A volte sull’amaca, a volte a tentare un po’ di ginnastica.  Per fortuna, dato che a Bujumbura non c’è molto altro da fare, a meno di passare tra i tipici festini, o le cene, o gli incontri da uno  o dall’altro. Di per sé sono anche piacevoli solo che per me è molto difficile fare vita sociale con persone che conosci poco, tra cui non hai amici ma solo conoscenze, quasi sempre poi legate al lavoro, che tra qualche mese non vedrai più.

Tenete presente poi che l’atmosfera tipica di Buja, di cui forse vi ho accennato qualche volta, con tutti questi singles di tutto il mondo che bazzicano nella cooperazione facendo vite errabonde, non è delle migliori. Gente un po’ scoppiata, uomini sempre in cerca di donne e viceversa, spesso senza neanche un minimo di ‘eleganza’.

2.  Lavoro.

Sono qui per l’Unicef-Burundi.  Ci sono ormai da un mese e un po’.  E devo dire che ci sto molto bene. Avevo sempre avuto una concezione molto critica delle agenzie e dei programmi Onu. Ma forse mi sto ricredendo. Voglio dire: se parliamo del sistema nel suo complesso, dei miliardi che si spendono per tenere in piedi strutture pachidermiche, planetarie, è chiaro che si può essere schifati.

L’Unicef, come tutte le altre agenzie, costa miliardi, e come vi dicevo nell’ultima lettera, di tutti questi miliardi solo una minima parte arriva alla base, quella per la quale si lavora.

 

Alldilà di questo però, per lavorarci, la struttura non è pessima, come credevo.  Anzi. E’ forse il primo ambiente di lavoro in cui mi trovo bene per quanto riguarda la gestione generale.  Si sente la professionalità e la serietà, si sente che, non mancando soldi, non si fanno le stronzate di tante piccole organizzazioni spilorce, che per risparmiare quattro soldi hanno gestioni da cani.  Mi piace moltissimo l’eleganza, l’educazione che c’è nei rapporti umani, che non ho mai trovato in nessuna struttura italiana.  C’è rispetto delle regole.  C’è apertura ai successi altrui, senza invidia, perché questa è una macchina gerarchica in cui tutti possono fare carriera, senza distinzioni.  Basta sapersi muovere. Da noi invece, sono abituata a quel moralismo bieco che per nascondere il carrierismo (che poi quasi tutti hanno, anche i più falsi bigotti)  porta gli esseri umani a comportarsi da serpenti.

 

Cosa sono qui a fare ?  Niente a che vedere con tutto ciò che vi scrivevo nelle lettere precedenti. Sono tutto il tempo in capitale, e i bambini non li vedo neppure, non vado mai in zone rurali o campi di rifugiati.   Faccio un lavoro principalmente d’ufficio, tra l’Unicef e il Ministero dell’Educazione di Base.  Devo occuparmi di educazione alla pace (e di ciò mi ero occupata anche nel progetto precedente)  ma con un compito ben preciso : aiutare la gente del ministero  - gli autori dei libri di testo delle elementari e i formatori degli insegnanti - ad inserire nei libri e nei curricula ufficiali i concetti e le attività di educazione alla pace.  ...Un bel casino !

Sapevo che sarebbe stato difficile, ma non sapevo in che termini.  Premetto : è un progetto che avevo proposto io all’Unicef e al Ministero ancora a marzo, perché è qualcosa a cui già allora tenevo tantissimo.  Dunque, è qualcosa che sento molto.  Però non so se dire che è più difficile di quanto immaginassi, o semplicemente che le difficoltà sono diverse da quelle che avevo preventivato.  Qualche esempio.

a.  I libri di testo sono praticamente inesistenti. Ci sono i libri per l’allievo solo per due materie : francese e kirundi. Delle altre materie esiste solo la guida didattica per gli insegnanti.

b. I metodi d’insegnamento usati qui sono a dir poco retrogradi : direzionali. L’insegnante insegna e i bambini ascoltano. Praticamente la pedagogia attiva non è contemplata. Fare educazione alla pace in questo caso è impossibile, dato che necessita di metodi attivi e partecipativi.

c. I tempi sono lunghissimi, e questo è ciò che non avevo considerato. Avevo immaginato di trovare delle resistenze alle mie proposte, gente contraria, ancorata ai propri metodi. Invece no. Anzi. Pare siano tutti d’accordo con ciò che propongo, solo che riesco a lavorare si e non due giorni a settimana !   Perché questa gente del Ministero è sempre ultra impegnata.  Un giorno manca uno perché ha una formazione, quell’altro giorno un altro perché la moglie ha partorito....  GRRR!   Il solito problema della fretta di noi occidentali !

Comunque le cose stanno andando avanti, nonostante tutto. Ho già presentato un progetto per continuare il lavoro l’anno prossimo, e speriamo bene. Perché ciò che mi sono proposta di fare avrà tempi molto lunghi, ma può essere la base per una rivoluzione nelle scuole burundesi !

In sintesi :  quando mi hanno chiesto di fare questa integrazione dell’EaP nei libri, ho cercato di spiegare che vi erano tanti  modi per farla, e soprattutto tanti livelli.  Dal più veloce e superficiale, al più profondo e complesso, lungo e radicale.  Ho cercato quindi di spiegare il senso di una scelta e dell’altra, ipotizzando due percorsi : quello a breve e quello a lungo termine.

A breve termine : inseriamo alcune cose nei libri che stanno ormai andando in stampa, per non lasciare un’occasione mancata.

A lungo termine : ripensiamo tutto il modo di fare i libri, di insegnare, di coinvolgere i bambini ed educarli a diventare esseri liberi e pensanti.

Generalmente ci si dimentica (... in un paese a regime totalitario. ..) che fare educazione alla pace significa innanzitutto dare la possibilità a dei bambini di diventare cittadini liberi, coscienti dei propri diritti, in grado di esercitarli, quindi capaci di avere un pensiero critico autonomo, avere accesso all’informazione ecc... ecc...  Si parla di pace come se bastasse mettere qua due canzoncine che parlano di amicizia, mettere là un racconto sulla generosità e la tolleranza, e altre storielle del genere.

Ho spiegato subito che se volevano questo, potevo farglielo in 15 giorni non in due mesi , e che avrei preso il mio stipendio uguale.  Ma se volevano davvero  fare educazione alla pace, ... il percorso era ben più duro, lungo, e faticoso.   Pare siano d’accordo !

 

N.3. In futuro.

Il mio contratto qui è di due mesi, cioè fino a metà ottobre. Le possibilità di rinnovo sono sempre legate alle disponibilità di budget.Probabilmente resterò un po’ di più, me lo hanno già chiesto. Il progetto che ho presentato per l’anno prossimo, per seguire il lavoro del Ministero, prevede una serie di mie consulenze periodiche, per le quali dovrei tornare qui 3-4 volte nel corso del ‘98 e probabilmente ancora nel ‘99.

Ha già incontrato il parere favorevole del mio capo, e ora vedrà lui di trovare i mezzi per renderlo possibile.

Mi dispiacerebbe dover abbandonare qui il percorso iniziato, che come vi ho detto potrebbe portare grossi cambiamenti, nel giro di qualche anno, nella scuola burundese.  Se poi sarà possibile realizzarlo con consulenze periodiche tanto meglio. Da un lato non credo che ce la farei a stare ancor a lungo in questo paese. Dall’altro lato, la mia presenza continua non è necessaria. Resterei molto tempo a far niente, perché è un’attività che richiede di per sé tempi lunghi. E poi il mio è un ruolo di stimolo, di guida e di supervisione, ma poi sono le persone di qui che devono fare le cose, per esempio scrivere i libri: in kirundi.

 

Credo di avervi aggiornati abbastanza!

Voglio ringraziare in particolare quanti mi hanno scritto: Giuseppe di Roma, Valeria di Forlì e Valeria di Ferrara, Gigi di Modena, Alessandra di Saronno che mi ha fornito anche i suoi contributi professionali, Maurizio di Macerata, Sonia del Cipsi, Stefano di Bologna, Susanna di Imperia, Michelle da Londra, ....

Quelli che collaborano con l’Emilio: Andrea Semplici, Elena Darman, Piero Quaranta, Hansi De da Nagpur, Giuseppe da Singapore, gli amici del Senegal, Chiara di Padova che ha realizzato la festa interetnica per il comune di Morro d’Alba, ...

E poi saluto quelli che non hanno scritto di recente, ma che so che mi  pensano, perché comunque continuiamo a seguirci, anche da lontano.  Cari saluti a tutti e a presto.

 

 

***

 

13.11.97, giovedì , Bujumbura

Sì, credo proprio sia l’ultima lettera, perché sono ormai sul piede di partenza. Il contratto dei primi due mesi è stato rinnovato fino a novembre, ma il 29 parto davvero, non ci saranno altri rinnovi. E come già a giugno, riassaporo il gusto difficile degli addii.

Già soffro di nostalgia, perché è da agosto che sono qui, ma non mi è più stato possibile tornare a Muyinga, perché il mio lavoro è qui in capitale.

Non mi è più stato possibile rivedere quei bambini, né le piste tra gli eucalipti, e i marais con le ninfee.

Rileggo le tante lettere che vi ho spedito in questi mesi (sono arrivata qui esattamente un anno fa) e penso che sono contenta di avervi scritto, perché già tanti ricordi sarebbero sepolti dal tempo, se non potessi rileggerli. Come vi dissi una volta, scrivere è un po’ come fotografare: uno strumento che aiuta ad amare di più. Ritrovo tante sensazioni, quasi perfino gli odori. Ritrovo ogni faccia, ogni bambino. Quelli a cui abbiamo portato i vestiti, la piccola Chantal che mi chiedeva i quaderni, il ragazzino che mi seguiva rotolando con un bacchetto il cerchio di una ruota. Rivedo quei  cenci sporchi, quelle capanne miserabili. Quelle vite così in balia.

Non ho più rivisto nulla di tutto questo, in questi ultimi mesi. Ho fatto un lavoro d’ufficio, ore e ore di computer.  Certo, è meno gratificante. Non si ha questa sensazione diretta di rapporto con persone vive.

Eppure, eppure anche in questi mesi non ho mai smesso di pensare che il mio lavoro era per questi bambini. Perché spero di realizzare per loro dei bei libri, che diano loro la possibilità di sognare, di conoscere altro da ciò che vedono e toccano ogni giorno.

Sono sempre stata  estremamente convinta che la gente di qui non avesse affatto bisogno delle scuole di tipo occidentale, che stesse meglio, molto meglio, prima dell’arrivo dei bianchi. E lo sono tuttora. Solo che ormai non si può più tornare indietro. Della ricchezza culturale delle popolazioni del centr’Africa non è rimasto quasi più nulla, specie dopo queste ultime guerre.

E sono altrettanto convinta che quello all’istruzione e all’educazione è uno dei  più importanti diritti dei bambini. Per questo tengo tanto a questi libri.

Lasciare la gente nell’ignoranza è sempre stato, ed è tuttora in tanti paesi, il sistema migliore e più economico per tenerla nell’oppressione. Come si può manovrare bene chi non ha nessuna coscienza dei propri diritti!

Lasciare questi bambini  senza libri, senza strumenti di formazione e di informazione, vuol dire crescere cittadini che non sanno neppure di essere cittadini, con dei diritti civili e politici. Vuol dire crescere un gregge, non un paese.

Da quando sono qui, poco a poco, con le persone dell’agenzia del ministero che si occupa delle scuole elementari (il B.E.R., Bureau de l’Education Rurale) abbiamo cominciato a costruire un programma per realizzare i libri di testo per i bambini. E’ stato un lavoro difficile perché la loro formazione, non per loro colpa, è molto scarsa.Non riuscivano proprio a capirmi quando parlavo  di cose per noi ormai ovvie, come  “approccio interdisciplinare” o “metodologie attive e partecipative”.

Ho dovuto scrivere una marea di cose che non avevo previsto, a fini formativi. Ma è stato molto bello. Perché le persone hanno sempre voglia di crescere. Sono i sistemi intorno che, spesso, lo impediscono.

E ora, finalmente, ci si capisce. Vedo l’entusiasmo, la voglia di fare. Mi dispiace un po’ andare via ora, perché temo che senza qualcuno che tira le fila il tutto possa cadere nel nulla. Per questo è stato nominato un responsabile nel gruppo di lavoro, che è un tipo in gamba, sveglio, giovane. E sto cercando di lasciare più idee e materiali possibile prima della mia partenza. Ho anche lasciato tutti i sussidiari delle elementari  che avevo raccolto quando sono venuta ad agosto, e approfitto qui per ringraziare quanti me li hanno dati. Non avrei potuto lavorare senza. Anche se sono in italiano, sono fondamentali per far vedere alcuni aspetti di comunicazione con i bambini e anche sulle tecniche didattiche, che non avrei potuto spiegare solo a voce.

Il progetto di Unicef-Burundi per il ’98 prevede la realizzazione dei primi due libri, per la 1° e la 2° elementare. Io avevo proposto la realizzazione complessiva, dal 1° al 6° anno. Mi hanno detto che viste le risorse umane e le competenze  disponibili era troppo ambizioso. E’ vero. La mia fretta è data dal pensare che questi bambini continuano andare a scuola senza un accidente di niente. Del resto, è da generazioni che vanno avanti così, dunque, come dice il mio capo burundese, “se riusciremo a realizzare i tre cicli in tre anni, sarà già un grande risultato”. Del resto, come dicevo, un paese che investe in educazione è un paese “coraggioso”. Qui, all’educazione è dato il 7 % delle risorse disponibili, alla salute il 3%. Pare che alle spese militari vada il 49 % ! (… da qualche parte bisogna pur mettere i soldi…).Sappiamo bene che è un problema che tocca anche tanti paesi ricchi. I servizi sociali sono sempre i primi ad essere tagliati, mai la difesa.

Volevo essere a casa nel periodo delle pesche e delle ciliegie. Quando le finestre sono aperte e il tendone in cucina fa entrare una luce rossa e l’odore dell’estate. Ci sarò con le luci del Natale, le bancarelle di Santa Lucia, la mostra missionaria alla chiesa di S.Francesco, le caldarroste, il panettone.

Sono contenta di tornare a casa. Sono felice di avere passato un anno qui.

 

Note

[1] Il titolo originale della raccolta delle mie lettere era “La vita è una danza”. “Il sogno ostinato” è il titolo posto dall’editore, Terre di Mezzo. Quelle che leggete qui sono le lettere nella loro versione originale, che è molto più lunga rispetto a quella del libro.

[2] Il primo viaggio lo feci con l’organizzazione di don Tullio Contiero, per molti anni cappellano dell’Università di Bologna. Ho scritto su di lui e ho raccolto una serie di testimonianza che si trovano nel mio sito alla pagina Tanzania.

[3] Il libro con questo titolo è stato poi effettivamente realizzato, come appare nelle lettere che seguono, con le bellissime fotografie di Giacomo Pirozzi, e finanziamento di Unicef Burundi + Cooperazione Italiana. Si veda la copertina cliccando qui: pubblicazioni

© Silvia Montevecchi

 

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