Stefania
Sinigaglia Un'ebrea
pacifista in giro per il mondo. Intervista a cura di Silvia Montevecchi. Ho
conosciuto Stefania quando lavoravo in Somalia, nel 2000. Entrambe
eravamo education expert in progetti omologhi dell'Unione Europea, in
due città diverse del Puntland: io a Galkayo, lei a Bosaso (si veda su
questo lavoro il libro di Silvia Montevecchi "Vite sospese. Con i
bambini di paesi africani in guerra " edizioni Emi, 2002, Bologna).
Da allora siamo rimaste molto amiche e quando siamo in Italia cerchiamo
di incontrarci, e ci facciamo lunghissime chiacchierate! Questo
colloquio avviene nel mese di marzo 2003, nella bellissima cornice del
parco provinciale di Montovolo. Partendo da Bologna si percorre la
statale Porrettana fino a Riola, qui si gira a sinistra, passando
davanti alla famosa chiesa di Alvar Aalto. Poco
dopo sulla destra vi è il bel castello saraceno, purtroppo ora in
decadimento. Poco prima del castello, si prende a sinistra verso il
parco. La strada sale molto ripida e il panorama sulla valle del Reno è
stupendo. Ad
un certo punto lasciamo la macchina e proseguiamo a piedi, nel sole e
nel silenzio. In cima a Montovolo vi è un santuario (foto sotto) e il
"Percorso della Memoria", un sentiero per ricordare i ragazzi
e le ragazze che morirono a causa di un velivolo che si abbatté sulla
loro scuola, a Casalecchio, alcuni anni fa. Mentre
camminiamo, siamo solo Stefania e io. Rarissime le macchine. Molti i
canti di uccelli, qualche scoiattolo.
S.M.
Stefania, visto che noi abbiamo avuto in comune l'Africa perché ci
siamo conosciute lì, potresti cominciare a raccontarmi com'è stato il
tuo inizio con l'Africa: come sei andata a lavorarci la prima volta,
come ti è venuto in mente, quando, dove... Stefania.
Come
eri andata in Sardegna, cosa facevi? Beh,
qui dobbiamo fare un passo indietro. Io ed il mio compagno, durante
l'università a Milano, facevamo teatro politico. Nel 69 vivevamo
insieme e avevamo conosciuto un gruppo anarchico che faceva teatro. In
particolare un regista, Giancarlo Celli, grande ammiratore di Grotowsky,
che cercava di mettere in piedi un gruppo di teatro anarchico. Era un
periodo in cui nascevano tanti gruppi di teatro di strada. Nel 69 ad
Orgosolo vi era stata l'occupazione dei pascoli, e molti compagni
quell'estate si erano trasferiti in Sardegna. Anch'io e Gino decidemmo
di andare, affascinati dal mondo politico pastorale. Con altre persone,
dopo aver fatto una colletta per mettere insieme i soldi necessari,
passammo là un'estate a fare teatro. Fu molto bello. A
quel punto, io dovevo tornare a Milano: mi avevano offerto di insegnare
ad un corso su Joice alla Bocconi. ...Invece feci domanda per insegnare
al Provveditorato di Nuoro! Mi diedero un posto, e lì sono rimasta per
tre anni e mezzo. Mio figlio Simone è nato lì. Poi
nel '73 chiesi il trasferimento ad Ancona, mia città natale, dove ebbi
vita un po' più facile perché c'era mia madre che ogni tanto mi teneva
il bambino. Poi naturalmente anche lì dopo qualche anno, cominciai ad
elaborare nuove mete! Dopo
la delusione dell'Algeria, continuai a darmi da fare per cercare altro.
Nel 77 poi ci fu una grossa crisi con il mio compagno e ci separammo. A
quel punto non riuscivo proprio più a stare nello stesso ambiente,
avevo bisogno di lasciare Ancona. Passai un periodo difficilissimo, in
cui stetti davvero molto male. Per fortuna il preside della mia scuola
fu estremamente comprensivo, e mi diede un lungo periodo di malattia.
Non ero assolutamente in grado di insegnare. Dopo
qualche mese capitò l'occasione di incontrare un vecchio amico che era
già stato in Mozambico, subito dopo l'indipendenza del 75. Era un tipo
in gamba, conosciuto, un dirigente all'interno di un partito di
sinistra. Era andato in Mozambico dopo la rivoluzione per occuparsi di
allevamento, ed era responsabile - nel nuovo governo mozambicano -
dell'allevamento delle piccole specie (conigli in particolare). Gli
spiegai che volevo lasciar Ancona, allora lui prese una mia lettera con
cui propose il mio curriculum a vari ministri mozambicani. Passò ancora
qualche mese, finché poi nel mese di giugno mi arrivò la risposta.
Potevo andare con mio figlio, mi offrivano uno stipendio locale, di
circa 200.000 lire al mese! Contemporaneamente
il COSV (che era una Ong di Milano e fu la prima in Mozambico) aveva
messo in piedi un piccolo progetto di formazione professionale tra i
lavoratori della ferrovia mozambicana. Io ero già impiegata del
ministero dei trasporti, dove insegnavo inglese, così qualcuno mi
suggerì che potevo fare un contratto di lavoro con il COSV, come
insegnante, in modo che potessi nuovamente avere l'aspettativa (a quel
punto regolata dalla legge 38 del 79). Arrivai appena in tempo per non
far scattare il
licenziamento! Allora: parlami della tua esperienza in Mozambico, dove sei rimasta alcuni anni. (Nella foto: Stefania nella sua casa si Ancona.
Ma
la cosa più importante, riguarda invece il rapporto con i colleghi di
lavoro. Tutto passava attraverso un filtro, tutti erano "cameradas",
compagni. Non si riusciva a vedersi reciprocamente come persone con un
vissuto differente, personale e culturale. Era quasi come se non ci
fosse dietro di loro la realtà africana, con la sua quotidianità, le
sue tradizioni, le famiglie estese, le credenze... tutto questo non
emergeva, era come soffocato dal filtro politico, e ci si vedeva solo in
quanto "cameradas". Insomma, quasi come se esistesse solo la
categoria dei "proletari", senza nessun'altra caratteristica.
L'africanità non si avvertiva. Ricordo
che uno dei miei studenti, uno dei più bravi, che studiava moltissimo e
teneva molto a imparare l'inglese, veniva dal Nord del paese e aveva i
lobi delle orecchie che praticamente non esistevano più, perché per un
lungo tempo aveva portato orecchini pesantissimi. Dunque vi erano anche
segni esteriori profondi, molti per esempio erano tatuati, eppure tutto
questo era sempre come se rimanesse sommerso. Sommerso dalla coltre
ideologica. Ma
questo secondo te era una percezione vostra, o anche loro? No
certo, era così anche per loro. C'era come un livellamento. Non si
teneva conto della diversità delle persone, della loro provenienza. Ad
un certo punto fu il ministro a farmi presente che le persone con cui io
lavoravo utilizzavano una lingua, il portoghese, che non era la loro
lingua madre. Io quindi utilizzavo un medium per insegnare un'altra
lingua, ma loro in alcuni casi, il portoghese lo sapevano molto poco. Io
del resto non avevo altri mezzi per uscire da questa contraddizione. Altra
cosa per esempio che non si era tenuta conto all'inizio, fu la gerarchia
tra le persone. Io avevo diviso gli studenti in gruppi, secondo la loro
conoscenza dell'inglese e il grado di scolarizzazione, che è la cosa più
ovvia che noi possiamo pensare dal punto di vista didattico. Tieni
presente che in quelle circostanze uno che aveva fatto per esempio la
sesta classe (=prima media), era già considerato un quadro. Questo
perché i portoghesi, quando se ne sono andati, hanno lasciato il nulla
in Mozambico. I laureati si contavano davvero sulle dita di una mano.
Con la fuga dei portoghesi nel 77, questi hanno distrutto tutto: case,
fabbriche, portando via quello che potevano portare, e distruggendo il
resto. Hanno lasciato davvero una tabula rasa. Io
quindi avevo fatto questi gruppi solo in base a dei principi didattici,
senza tenere conto della gerarchia che vi era tra le persone! Così mi
sono ritrovata per esempio il capogabinetto insieme ad altri che erano
di grado ben inferiore al suo. Questo ha creato un notevole disagio, e
lui poi me lo disse e mi chiese delle lezioni private. Tutte le classi
cominciarono a formicolare! (Ad un certo punto il ministro si incazzò,
quando si accorse che tanti impiegati non erano in ufficio perché erano
a fare lezione!). Insomma
si percepiva che le personalità erano schiacciate. Anni dopo poi è
uscito un libro in francese molto bello su questo: "La cause des
armes au Mozambique". Uno studio sui macua, un gruppo etnico
del nord, e su come furono cooptati alla ribellione al regime di S.
Machel. In pratica fa vedere come il regime mozambicano socialista
avesse schiacciato completamente le tradizioni, le appartenenze
culturali, i poteri locali, disgregando così tutto il tessuto sociale,
e come poi tutto ciò abbia giocato nella sconfitta di tale rivoluzione
socialista. Perché di fatto moltissimi vi arrivavano senza davvero
capire il senso, il contenuto. Vi erano slogan vuoti. Abbasso questo,
viva quell'altro... con tante riunioni di piazza, letture di giornali,
... ma poi ad un certo punto mi resi conto che la gente partecipava
senza capire profondamente. Almeno una volta al mese Machel organizzava
grandi manifestazioni di piazza, con tutte queste bandiere rosse,
preparazioni di settimane, e la gente era organizzata per
zona/quartiere, con un responsabile, ma aveva paura, doveva partecipare
per forza. Chi non avesse partecipato, in qualche modo avrebbe pagato,
anche solo nel non ottenere accesso ai pochi beni materiali disponibili.
Poteva esserci un pollo ogni due-tre settimane, da ritirare con un
biglietto, e poteva succedere che non si dessero il biglietto, o il
pollo. Dunque, lungi dall'essere spontanea! Di
queste cose ce ne siamo resi conto gradualmente. Vi era un grande
autoritarismo. Avevo scritto delle lettere proprio su questo, e anche
qualche articolo, prendendo le distanze da tutto questo. Addirittura
ad un certo punto Samora Machel fece discorsi contro i costumi
occidentali, stigmatizzando le ragazze che si vestivano con i pantaloni
attillati, o che si truccavano,... il giorno dopo uno di questi
discorsi, vidi un'impiegata del ministero, che era molto brava e usava
stirarsi i capelli, arrivare quasi rapata a zero. Scoprimmo così che
portava una parrucca, e dopo i discorsi di Machel, se l'era tolta! Per
lei dovette essere un gran trauma, perché aveva pochissimi capelli. Noi
rimanemmo tutti di stucco. Ci furono tanti episodi come questo, in cui
si vedeva che la gente di autoviolentava. Ci furono anche episodi di
ragazzi che aggredivano le ragazze se avevano pantaloni ritenuti troppo
occidentali. Bisognava essere " in linea", e cominciammo ad
avere anche paura. Nonostante i tanti discorsi sulla rivoluzione che non
poteva prescindere dalla liberazione della donna, in realtà vi era
tanta misoginia. E
questo a Maputo. Io sono state pochissime volte in zone rurali, ma lì
sicuramente la situazione era anche peggio. Vi era la politica delle
"aldejas comunais", corrispondente alla politica di Nyerere in
Tanzania, dei villaggi Ujamaa. Alla fine di anni 70, inizio anni 80, i
villaggi Ujamaa avevano già mostrato i loro lati negativi e
costrittivi, per cui ci siamo chiesti davvero come i mozambicani abbiano
potuto cercare di riprodurre lo stesso modello politico rispetto alle
campagne, con risultati assolutamente disastrosi. La gente scappava e
bruciava le aldejas. Molti contadini erano stati obbligati a lasciare le
loro case per andare a vivere nelle comuni. Il discorso era razionale:
"vi raduniamo perché così possiamo meglio organizzare servizi: il
posto di salute, le scuole,...". Ma le persone non possono essere
obbligate a vivere in un posto. Figurati poi in situazioni del genere,
dove la proprietà della terra è considerata da sempre un diritto
ancestrale, consuetudinario. E tu arrivi lì e sradichi delle famiglie
intere! Persino la
planimetria era obbligata, proprio come nel realismo socialista, tutto
allineato, tutto uguale. In Africa! Ti rendi conto? Era stata proprio una violenza anche nei confronti
dell'architettura tradizionale, una distorsione a 360 gradi. Quanto
tempo sei rimasta in Mozambico? (Nella
foto, Stefania ed io il giorno di questa intervista, marzo 2003). E
come si è trovato tuo figlio? Si
è trovato abbastanza bene. All'inizio ci sono state delle difficoltà,
soprattutto per via della separazione da suo padre. Ha frequentato
la scuola internazionale, in inglese, e questo all'inizio è stato un
po' un problema perché ha dovuto imparare contemporaneamente sia
l'inglese che il portoghese. Ha avuto comunque un'insegnante australiana
che fu molto carina. Io
del resto non avevo molto tempo per stare con lui. In tutto il periodo
che sono stata in Mozambico ho lavorato moltissimo, si cominciava la
mattina presto. Il
tutto sempre per 2-300.000 Lire? Ah
sì! È stata davvero dura far quadrare il bilancio. Per fortuna
ho sempre diviso la casa con un'amica-collega, Bettina, con la quale si
divideva tutto a metà, nonostante noi fossimo in due, io e mio figlio.
E poi ho sempre avuto amici che mi aiutavano, per esempio quando c'era
da cambiare la valuta. Funzionava così: noi eravamo pagati in moneta
locale, poi ogni tanto, quando la banca poteva permetterselo, arrivava
la cosiddetta "traferencia", ovvero avevi diritto a
cambiare una certa somma in valuta straniera. Però questa cosa durava
uno o due giorni, quindi tu dovevi avere subito a disposizione i soldi
liquidi. Io in genere non li avevo mai! E così me li facevo prestare. A
volte poi chi me li ha prestati non li ha più voluti in dietro! Nel
1980 aprì il primo negozio per valuta straniera, che sapevamo essere
ben poco socialista, ma per noi era davvero molto comodo! Finalmente
potevamo trovare un po' di formaggio, qualche bottiglia di vino,
saponette... Com'è
stato poi che hai deciso di lasciare in Mozambico? Non
è stata una decisione facile. Dopo quattro anni sul posto, sia io che
gli altri italiani ci sentivamo profondamente legati al paese e anche ai
suoi obiettivi sociali e politici. Gli anni 80 poi, secondo Samora
Machel dovevano essere la decade di "uscita dal sottosviluppo"
(invece poi sono stati quelli che hanno dato il colpo di grazia...). Io
ero molto impegnata per il sistema educativo mozambicano, infatti mi
avevano chiamata a lavorare al ministero dell'educazione per collaborare
all'equipe che doveva stendere il nuovo piano educativo nazionale, a
tutti i livelli. Io facevo parte dell'equipe per la didattica del
portoghese e di quella per la formazione degli adulti. Dopo aver fatto
una pianificazione generale degli obiettivi, avevamo lavorato dal basso
per realizzare i primi due libri di testo: portoghese e matematica, per
adulti. Io in particolare avevo lavorato al primo libro per il
portoghese, e ho poi verificato che molte delle impostazioni date
all'ora, sono rimaste le stesse anche anni dopo. Verificammo però anche
in questo lavoro una buona dose di autoritarismo; vi era sempre chi si
considerava detentore di un potere e di una conoscenza, e vi furono
anche momenti di grande delusione e piuttosto umilianti per alcuni di
noi. Una
volta tornata in Italia, hai poi ripreso il tuo lavoro di insegnante? No,
assolutamente. A quel punto... mi sono ritrovata in pensione! In Italia
avevo lavorato per dieci anni, poi avevo riscattato gli anni
dell'Università, e mi erano stati riconosciuti due anni e mezzo
lavorati in Mozambico. Così, proprio con il minimo, ho avuto la
baby-pensione! Con 14 anni, 6 mesi e 1 giorno, e un figlio a carico. A
38 anni ero pensionata. Altrimenti avrei perso il lavoro, perché a
scuola comunque non volevo più tornare. Fu
una fortuna il fatto che si occupò di tutto una mia amica di Ancona,
mentre io ero in Mozambico. Lei mi disse che era uscita questa
possibilità, e mi mandò i documenti per fare la domanda, io glieli
rimandai firmati, e così al mio ritorno mi ritrovai già in pensione! E
allora cos'hai fatto? Beh,
a quel punto ho realizzato un desiderio su cui già avevo lavorato in
Mozambico: andare negli Stati Uniti a fare un master. Siccome mi ero
occupata di alfabetizzazione, mi interessava studiare soprattutto i
meccanismi di psicolinguistica, l'apprendimento in una seconda lingua,
che era lo scoglio che avevamo maggiormente trovato in Mozambico.
Andai nel Massachusetts, dove per mantenermi con mio figlio
insegnavo italiano, e poi trovai una piccola borsa di studio. Simone
come si adattava a questi spostamenti? Era contento o un po'
disadattato? ...
questo dovresti chiederlo a lui! A me sembrava fosse contento, ma dopo
molti anni ha cominciato un po' a rinfacciarmelo, anche se guarda caso
lui si è poi fermato a vivere gli Stati Uniti. Certo gli inizi non
erano mai facili, e io ero preoccupata nel vedere che stava molto in
casa. Poi doveva imparare sempre una nuova lingua, perché comunque
l'inglese parlato nel Massachusetts non era lo stesso che aveva imparato
dall'insegnante australiana in Mozambico! E doveva adattarsi ad una
nuova scuola, un nuovo stile di rapporti, ecc. comunque, dopo il primo
periodo di adattamento è poi andata bene. Fu un bel periodo, e io presi
un master in International education. Era molto bello perché si
potevano scegliere i corsi liberamente. Io seguii diversi corsi di
linguistica, ma anche di economia, di statistica, ... potevi frequentare
diverse facoltà, a seconda dei tuoi interessi. Nella primavera dell' 85
avevo finito. Mi sarebbe piaciuto fare anche un PhD in lingue bantu, ma
lì non vi era un centro di studi africanistici. Feci mari e monti per
trovare il modo di andare in un'altra facoltà, e alla fine avevo
trovato una soluzione nell'Indiana. Solo che dovevo aspettare diversi
mesi, e nel frattempo non avevo la possibilità di mantenermi, non avevo
borse di studio. Feci vari lavoretti, ma assolutamente non potevamo
viverci io e Simone, così dovemmo levare le tende. Passammo circa 6
mesi in Italia, Simone aveva 15 anni, e mi dispiacque molto che non poté
finire l'anno scolastico negli Stati Uniti, ma davvero non ce la
facevamo economicamente. Andai successivamente per un periodo
nell'Indiana per vedere di frequentare il PhD, ma vidi che non era
possibile, era tutto troppo complicato. Tornata definitivamente in
Italia, cominciò un periodo piuttosto difficile perché coincise con la
morte del papà di Simone, e poi ebbi varie delusioni sul piano
professionale. Non avevo più molti rapporti in Italia, e cominciai a
guardarmi intorno, tra le varie Ong. Dopo varie ricerche, andai in Mali,
con Terra Nuova, per 2 anni, su un progetto rurale integrato. Sai,
quest'immagine di te che te ne vai in giro per il mondo con tuo figlio,
mi fa venire in mente il film "Chocolat"! ...(ride)...
eh sì, mi
ci ritrovo abbastanza! Ne
avevamo visto un altro simile io e Simone, e lui mi disse "eh, mi
dice qualcosa!". Il
Mali fu una bella esperienza, molto diversa. Rimanemmo in tutto tre
anni, con qualche interruzione, fino al '90. Io mi occupavo di
educazione sanitaria di base, e mi piaceva molto. Infatti poi, via via,
mi sono specializzata su questo. Rispetto
al Mozambico, fu una cosa completamente diversa. Innanzitutto sono aree
geografiche completamente diverse, e poi non vi era più tutto l'aspetto
ideologico che avevo respirato in Mozambico. Soprattutto rimasi colpita
dalla vivacità culturale dell'Africa occidentale. Anche il rapporto con
i colleghi maliani, era assolutamente paritario. Anzi quasi quasi vi
erano anche espressioni di disprezzo verso noi bianchi. Per esempio in
Mozambico, le persone che avrebbero potuto parlare tra di loro nella
loro lingua, alla nostra presenza parlavano sempre portoghese. Nel Mali,
capitava invece molto spesso che i maliani parlassero tra di loro in
lingue per noi assolutamente incomprensibili!
Inoltre io mi trovavo per la prima volta in un contesto rurale,
visto che in Mozambico avevo sempre lavorato in capitale. Tutte le
dinamiche, i livelli tecnologici, ecc. erano quindi completamente
diversi. Tutto il modo di vivere sia loro che nostro; anche noi
prendevamo l'acqua dal pozzo. E
lì Simone ha dovuto imparare il francese?! No... lì Simone mi ha abbandonata! All'inizio l'avevo iscritto al liceo francese, ma lui non accettò perché non sapeva la lingua. Allora provammo la scuola pubblica maliana, e lì... lui andò per due giorni, dopodiché mi disse "basta non ci vado!" perché era l'unico bianco! Rischiava così di perdere l'anno scolastico, aveva quasi 17 anni ed era in terza liceo. Fu lì che tornarono in ballo gli Stati Uniti, perché aveva saputo che un ragazzo a Bamako figlio di un diplomatico, studiava con una scuola americana che faceva distance learning, così gli trovai un tutor, e lui (con un po' di fatica) tornò in Italia vivendo con mia madre, e studiò così. Ottenuto poi il diploma americano di scuola superiore, è andato poi a fare l'università negli Stati Uniti (e lì è rimasto e si è sposato). Insomma,
ti ha smollata in Mali e si è fatto la sua vita!
Esattamente! Il
Mali è stata un'esperienza positiva per te professionalmente? Sì,
anche se è stato un po' come ricominciare dal basso, come se non avessi
le esperienze e i titoli che avevo. Ho ricominciato dalla gavetta. Il
progetto mi piaceva molto, giravo per diverse regioni e facevo
animazione nei villaggi, soprattutto per educare all'uso dell'acqua dei
pozzi, come renderla potabile, ecc. avevo dei colleghi simpatici,
imparai moltissime cose, in particolare di sociologia rurale, e fu
quindi un periodo molto positivo. Inoltre un periodo particolare per il
Mali, infatti nel '91 scoppiò la rivoluzione che buttò all'aria Moussa
Traoré. Quando tornai in Italia, proprio a gennaio '91, morì mia
madre. Dopo poi sono succedute varie altre missioni, in paesi diversi,
Nigeria, Filippine, ...fino alla Somalia, dove non ci siamo conosciute,
nel 1999. Stefania,
se ti va, mi piacerebbe se volessi raccontare qualcosa circa la malattia
che ti ha colpita prima che noi ci conoscessimo in Somalia. Oh
no! No, non mi va di parlarne. Se ti ricordi avevo scritto una specie di
diario su quel periodo. E lo avevo scritto in inglese, proprio per
"allontanarlo" (si può leggere cliccando
qui). Ok.
Mi interessavano più che altro gli aspetti di insegnamento che tu avevi
tratto da quell'esperienza, e che potresti dare ad altri. Sì,
me ne rendo. Ma non mi va. Non ho voglia di parlarne. Mi costrinse ad
una notevole battuta d'arresto. Proprio nel '99 avevo fatto una missione
breve in Giordania, e dopo mi avevano offerto un lavoro che mi
interessava moltissimo, finalmente era anche un ottimo contratto!
Dovevo essere consulente a Bruxelles come Health population
expert. Immediatamente dopo, saltò fuori la malattia. Sono
rimasta per un anno bloccata in Italia per curarmi. Chemioterapia,
intervento chirurgico... e poi il primo non è neanche andato bene, ho
perso un sacco di tempo. Finite le cure sono partita per la Somalia. Va
bene. Allora apro un altro capitolo. Tu sei ebrea di nascita, con una
posizione politica pacifista, antisraeliana. Vuoi parlarmi di questo? ...
beh, questa è tutta un'altra storia! È un discorso molto lungo! Devo
partire dal significato di "sentirsi ebrei". Cosa ha
significato per me, e cosa vuol dire adesso. L'identità
ebraica ti si stampa addosso, da quando nasci. Anche se la tua famiglia
non è particolarmente osservante, tu comunque sei diversa dagli altri.
Non festeggi il Natale, la Pasqua, ... lo Yom Kippur e le altre feste
fondamentali, sono comunque celebrate. Un
mio zio, fratello di mia madre, dopo le leggi razziali in Italia, andò
in Israele e fondò un kibbutz, e con lui rimasero legami molto forti.
È una persona eccezionale, ma ormai anziano e purtroppo due anni fa è
stato colpito da un ictus. Una persona molto generosa, e che ha sempre
studiato moltissimo. Parlami
di quest'identità ebraica che hai sempre sentito, fin da ragazzina. Sì
certo, è sempre stata molto forte. Quand'ero adolescente mi dava anche
molto fastidio la contraddizione che sentivo nel far parte di una
religione, che però poi non vivevamo profondamente. Ad un certo punto,
ebbi il mio periodo di crisi religiosa, in cui volevo convertirmi al
cristianesimo. Un po' mi sentivo sommersa, e un po' mi ero davvero
innamorata dei contenuti del Vangelo. Ricordo che i miei presero la cosa
molto tranquillamente, e dissero "... passerà!". Infatti poi
mi è passata! Durante il periodo universitario mi sono staccata
completamente dalle questioni religiose. Nel 68, durante il risveglio
politico, ci fu però la totale adesione alla causa palestinese. Israele
quindi era visto come un tutt'uno con il sistema americano imperialista.
Devo dire che fin dall'inizio non ho mai sentito contraddizione tra
l'essere ebrea e l'essere per la causa palestinese. Senti,
una domanda assolutamente personale. Tante volte mi chiedo come è
possibile che PROPRIO le persone che sono andate lì, nella Terra
Promessa, molte delle quali hanno vissuto ciò che hanno vissuto durante
il periodo nazista, com'è possibile che proprio quelle persone andate lì
con un comprensibilissimo sogno di liberazione, siano loro a perpetuare
delle sofferenze così grandi, come non si rendano conto del dolore che
affliggono ad altre persone che sappiamo vivere in gabbia, portate a
morire magari mentre vanno a partorire, fermate ai check point, e tante
altre cose di questo genere. Come ti spieghi tutto questo? Beh,
certo non è facile spiegarmelo. Ma è la domanda che mi sento rivolgere
più spesso. E del resto me la faccio anch'io, tante volte. Ci sono
molte ipotesi. Io ne ho alcune, che mi sono fatta leggendo e studiando
parecchio. Da
un lato, c'è quella più cinica: che nelle proprie sofferenze, non è
vero che si diventa più comprensivi, più buoni rispetto alle
sofferenze altrui. Si vuole invece evitare che NOI non ne viviamo delle
altre. Quando si dice "mai più", si intende "mai più
per noi". Rispetto
poi al contesto storico mediorientale, bisogna pensare che la
colonizzazione ebraica è cominciata già nell'800. Vi era anche una
comunità di circa 10.000 persone che erano sempre state là,
disprezzatissime. Con il sionismo si è cercato di creare un nuovo tipo
di ebreo, il colono, che doveva anche somaticamente combattere lo
stereotipo dell'ebreo piccolo, rachitico, col naso lungo,... come si
diceva "sviluppato di cervello, ma poco di corpo". L' ideale
di un ebreo alto forte robusto, che doveva coltivare la terra, ha
accompagnato un po' tutta l'epopea della colonizzazione, che era
cominciata già molto prima del nazismo. Il
rifiuto arabo era più che comprensibile. Vedevano arrivare tutta questa
gente, e il movimento sionista era fortemente nazionalista e
colonialista. Si riproducevano infatti situazioni tipiche della
colonizzazione. Gli ebrei arrivavano con un bagaglio di conoscenze e di
tecnologie dall'Europa, che gli arabi non avevano. Compravano la terra
dagli arabi, molti dei quali erano completamente analfabeti,
appartenenti ad una società clanica, con un livello di sviluppo molto
più arretrato. I rapporti che si creavano quindi, erano inevitabilmente
da colonizzatore a colonizzato. Già all'inizio del 900 le relazioni si
sono configurate in questo modo. Quindi con un certo disprezzo
reciproco, anche se certo non generalizzabile. Molti ebrei vedevano
negli arabi solo dei contadini rozzi e ignoranti. Fra
il 36 e il 39 c'è stata la prima rivolta, puoi si è arrivati alla
guerra del 48. Nel 41- 43 bisogna anche tenere presente che gli arabi
erano stati alleati della Germania, perché avversavano gli ebrei,
alleati dei britannici, e quindi per forza gli arabi dovevano buttarsi
dall'altra parte. L'odio quindi è montato, ma si è creato nel corso di
decenni e decenni. Non si può capire la situazione attuale senza tenere
presente la storia. Si
però riesce comunque difficile accettare che ci sono persone di adesso,
che non sono neanche cresciute in Israele, sono colte, cresciute in
Occidente, eppure non riescono a concepire che nell'individuo che si fa
saltare in aria, c'è una sofferenza anch'essa ancestrale, ma vedono in
quell'individuo unicamente il terrorista. Un ragazzino cresciuto senza
conoscere niente altro che la guerra, difficilmente può fare molte
altre cose. Non si può vederlo solo con odio. Se continuiamo a
ragionare sul fatto che questi odii sono ancestrali, non andiamo da
nessuna parte. Sì,
però è così. Non è che difendo questa posizione, ovviamente, anzi io
sono proprio dall'altra parte. È solo un'analisi. Questa rivalità è
cresciuta in tempi molto lunghi, e fa parte del modo di essere delle
persone. Questa è l'unica risposta che riesco a darmi, anche perché
queste cose le vivo proprio all'interno della mia famiglia. Anche se hai
a che fare con persone molto care, intelligenti, e che non sono certo
fra le più estremiste, di fatto però le concezioni si assomigliano,
perché fanno parte del loro vissuto, della loro identità. Dopo
la guerra del 48, gli arabi cantavano il loro odio per gli ebrei. Tra
gli obiettivi dell'OLP vi era la distruzione dello Stato di Israele. È
solo nel '88 che Arafat accetta di riconoscerlo. Secondo me, vivendo lì,
si dovrebbe capire che siamo arrivati in un posto che era già abitato,
e noi abbiamo imposto un "fatemi largo" che ovviamente non
poteva essere accettato. Bisogna anche ricordare il ruolo delle potenze
internazionali, in particolare dell'Europa. È vero per esempio che gli
arabi hanno rifiutato la ripartizione, ma è anche vero che quella
ripartizione era iniqua. Il 55% del territorio andava a chi
rappresentava solo una minoranza, mentre gli arabi che erano una
maggioranza, dovevano restare con il 45%. Era un'ingiustizia obiettiva.
Insomma i fattori sono stati tantissimi, e hanno portato al
dolorosissimo punto in cui siamo oggi. È ormai da più di un'ora che faccio domande a Stefania e ascolto il racconto della sua vita e delle sue idee. Ha scritto e pubblicato vari articoli sulla questione israelo-palestinese, che possono essere letti cliccando qui (tra cui trovate resoconti di viaggio e diversi link utili). Abbiamo
camminato nel silenzio di Montovolo, tra il sole e il vento. Siamo ormai
sulla via del ritorno, verso la valle del fiume Reno. Un'ultima
domanda Stefania. Tra due giorni parti per l'Albania, dove hai già
lavorato alcuni mesi. Sei contenta? (ride!)
uhm... così
così!
©SilviaMontevecchi |