1.
"Il combattente delle utopie
concrete"
di Silvia Montevecchi
Sono cresciuta con il sogno
dell'Africa. Non lo so perché. Credo che certi sogni infantili ce li portiamo
scritti nel DNA. Non me lo spiego altrimenti. Nella mia famiglia nessuno era
stato in Africa, né tanto meno aveva mai pensato di andarci. Dunque non era un
sogno che avevo respirato, o appreso: me lo portavo appresso, come il colore dei
capelli e degli occhi. Magari appena sostenuto da documentari visti in TV, da
discorsi di amici, e dagli influssi religiosi, che mi facevano pensare quasi
come una missionaria quando avevo 8 anni o 10. Volevo stare con i poveri.
Ma quando io avevo 15 anni,
l'Africa era lontana. Ben più lontana di adesso. E anche quando ne avevo 20.
Non che io sia un dinosauro, ben inteso, ma i ritmi della storia sono stati
stravolti proprio in quest'ultimo 30ennio. Negli anni '70 la maggior parte della
gente sapeva abbastanza dove fosse il Kenya, che cominciava già ad essere meta
turistica. Ma qualunque altra nazione africana avrebbe lasciato molti
nell'enigma della collocazione geografica. Qualcuno ancora confondeva Tanzania
con Tasmania. (Veramente qualcuno lo fa anche adesso, ma gli ignoranti per
scelta ci sono sempre). Zanzibar era un fumetto, e non si sapeva bene se era un
luogo esistente o solo fantasioso…
Attraversai la mia preadolescenza
leggendo romanzi d'avventura in cui mi prefiguravo nel mitico Rio delle
Amazzoni, o in quello del Congo. Poi ci fu un periodo in cui sognavo talmente
tanto i grandi spazi delle savane africane, che mi ipnotizzavo davanti alla
gabbia dei daini che a quell'epoca erano nel giardino pubblico più antico della
mia città. Andavo lì, mi sedevo sul muretto, li guardavo, li ammiravo, li
amavo,… e sognavo. Sognavo il giorno in cui mi sarei beata alla vista dei
grandi mammiferi africani nelle grandi distese della nostra madre terra. Già,
quelle stesse distese che furono culla dei nostri antenati nelle loro varie
evoluzioni: australopiteci, habilis, della pietra, del fuoco,…
Quando avevo circa 18 anni
lavoravo come educatrice per l'handicap. Ero maggiorenne, avevo uno stipendio:
l'epoca dei viaggi non poteva essere molto lontana. Ma l'Africa sì, continuava
ad esserlo. Eppure io volevo andarci. Volevo andare tra i poveri, starci qualche
mese, lavorare con loro. Ma non sapevo come.
Non so chi mi parlò di don
Contiero, non ne ho proprio la più vaga idea. Ad ogni modo, mi presentai da
lui. Era circa maggio del 1982.
Lui in genere non era il tipo
"accogliente" nel senso in cui si intende la parola. Al contrario.
Aveva un modo burbero, provocatorio, che volutamente usava con tutti i giovani
bolognesi o italiani in genere, che per il fatto stesso di essere nati qui,
quindi di avere garantiti almeno 3 pasti al giorno, la scuola ecc. lui
considerava ricchi, e in quanto ricchi, viziati, e probabilmente anche un po'
stronzi.
Ci trattava tutti allo stesso
modo, con quei suoi epiteti a volte offensivi: "Cosa state a fare qui, voi,
figli della borghesia, voi con le vostre case ben scaldate, i vostri vestiti, la
macchina… Siete tutti borghesi, egoisti, … Andate, andate a vedere come si
sta nel sud del mondo! Andate a vedere cosa vuol dire fare la fame!!!…"
eccetera. Questa era la sua "accoglienza".
Anche se non ti aveva mai visto, se di te non sapeva assolutamente nulla,
e tu potevi anche essere un povero disgraziato, figlio di disoccupati ecc.
Per essere amici di Tullio bisognava avere la volontà di superare lo
choc iniziale. Andare oltre. Non era per tutti. Molti non lo sopportavano.
Molti, naturalmente, non hanno mai fatto viaggi con lui, non hanno mai seguito
le sue elucubrazioni e provocazioni, considerandolo uno fra i tanti preti pazzi,
che per il fatto di essere preti si arrogano la capacità e il diritto di
insegnarti a vivere.
Io andai oltre. Probabilmente
anche aiutata dal mio lavoro, che già allora mi aveva fornito la capacità di
leggere oltre le apparenze, oltre i messaggi palesi per andare al latente, al
non detto. Fui poi anche fortunata, perché appena dissi a don Contiero cosa
facessi (che era la sua prima domanda dopo l'averti aggredito!) lui
semplicemente… si innamorò! Il fatto che io a 20 anni lavorassi con gli
handicappati fu per lui un colpo di fulmine.
Gli spiegai che volevo andare in
Africa, stare lì un po' a lavorare, qualche mese. Non sapevo ancora che lui
organizzava viaggi estivi di conoscenza. Di lì a poco… l'Africa sarebbe stata
vicinissima. E io smisi di ipnotizzarmi davanti alla gabbia dei daini.
Nell'agosto del 1982 feci il mio
primo viaggio in Africa, che fu e penso sia rimasto il più bel viaggio della
mia vita. Avevo vent'anni, e per la prima volta toccavo la terra delle grandi
savane, delle zebre, dei leoni, dei bufali, degli elefanti… era inevitabile
tornare con "la febbre".
I viaggi di don Contiero erano
preceduti da incontri di formazione che si tenevano in una sala della sua
parrocchia, con un cortile interno.
Nel mese di luglio, quel cortile
aveva un odore che non ho dimenticato mai più, e che per me è rimasto come
l'odore del "qualcosa sta per succedere, qualcosa di grande, e di
bello", come fu quel viaggio. Rimasi così legata a quel cortile e a
quell'odore, che quando anni dopo mi laureai, decisi di fare lì la mia festa di
laurea. Non c'era per me nessun altro luogo che avesse un'importanza simbolica,
intellettuale e affettiva insieme. Il mio sogno e l'amore per l'Africa non erano
svaniti, dunque quale posto migliore? E Tullio fu dei nostri, felice di essere lì,
felice perché aveva in qualche modo (profondo) segnato la mia vita. Quella sera
mi regalò un Cristo dipinto su un batik alla maniera dell'East Africa, e fece
un discorso "ufficiale" sul nostro "andare su è giù per
l'Africa". Fu una bellissima
festa.
Nel frattempo, sempre grazie a don
Contiero ero andata in Uganda, nell'83, con Elena Balsamo, altra "contierana",
e lì avevo incontrato i coniugi Stefanini ed ero stata ospite presso l'ospedale
dei coniugi Corti, il famosissimo Lachor Hospital. Purtroppo non incontrai loro,
Piero e Lucille, perché nello stesso periodo erano in ferie in Italia.
Con i viaggi di don Contiero io
sono entrai molto in fretta nel mondo, allora nascente, della cooperazione
internazionale. Conobbi tante ong, ebbi tanti contatti per schiarirmi (o
incasinarmi) le idee. Entrai in un arcipelago, fatto di tanti anfratti, baie,
baiette, isole e isolotti: tante associazioni, tanti movimenti, i nascenti
gruppi per l'accoglienza agli immigrati e le attività interetniche,
ecc. Erano gli albori di quello che anni dopo sarebbe diventato il
movimento no global.
Credo proprio che si possa dire
che don Contiero, con la sua irruenza, la sua provocatorietà, la sua voluta
non-mediazione, sia stato tra i precursori del no global, ben prima che questo
esistesse in quanto tale. Lui è stato tra le prime "voci nel
deserto", e gridava, accidenti se gridava! Ben prima che si potesse
prendere coscienza dei tanti mali degli aiuti umanitari, prima che l'Africa
toccasse il fondo, prima che le percentuali delle ingiustizie planetarie
prendessero le proporzioni vergognose che hanno poi preso. Credo che don
Contiero, con il suo essere perennemente incazzato, critico, incontentabile,
abbia insegnato a tanti di noi a non darsi pace. A guardare le cose per come
sono, non per come vogliono farcele vedere. Ci ha insegnato a provare amarezza,
vergogna, a porci dalla parte dei poveri non per sentirci buoni, ma perché
altrimenti ci faremmo schifo. Perché lui non sopportava l'incoerenza, la
mediocrità, la menzogna perbenista, che ripugna anche a Dio benché lui - forse
- sia sempre in grado di perdonarci tutto, sapendo la nostra infinita
piccolezza. Contiero insegna a non
contare sul perdono di Dio come la scappatoia del bigotto. Le sue prediche erano
totali e totalizzanti. Mettiti in gioco. Non stare qui a guardare. Non puoi. Un
cristiano non può stare a guardare. E' come il cammello che pretende di passare
per la cruna dell'ago (dev'essere proprio scemo…).
Non immagino quante siano le
persone, i giovani e meno giovani, che in seguito all'incontro con lui hanno
cambiato la loro vita. Moltissimi si sono fatti missionari, moltissimi sono
andati come volontari laici e hanno sposato donne e uomini africani, dando vita
a molte tra le prime coppie miste in Italia, quindi al mondo meticcio, in cui
non ci sono più bianchi e neri, ma fratelli, con tutte le meravigliose tonalità
di grigio che la natura ci ha fornito.
Moltissimi sono quelli che
semplicemente sono tornati a casa propria con tutta un'altra visione del mondo,
grazie alla quale hanno potuto impegnarsi per altri mondi possibili: quei mondi
per i quali oggi sempre di più si sfila nelle vie e nelle piazze di ogni
metropoli.
Contiero, tra i suoi tanti
difetti, ha avuto il pregio, e certamente il dono, di avere una grande utopia,
"una grande visione" per usare il vocabolario di Alce Nero. Quella
visione che ti fa credere, camminare, gridare, predicare, senza sosta. Ha avuto
una fede totale nell'utopia concreta, tangibile, vera: perché realizzarla
dipende solo da noi, dalla nostra capacità di coerenza, e di lotta.
I talenti che ha avuto, credo
proprio abbiano dato tanti frutti. Quando il padrone gli chiederà gli
interessi, don Tullio potrà portargli un lauto bottini: fatto di figli e figlie
che si sono sparsi per le strade del mondo, per realizzare altre utopie, altre
visioni, di altri mondi possibili.
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2.
…Come evitare
il servizio militare
di
Enrico Frontini
Ho conosciuto Don
Contiero quando ero appena laureato in medicina, trenta anni fa.
Non volevo
partire per il servizio militare e cercavo di andare in un paese povero a fare
il medico volontario. A quei tempi la cosa era alquanto difficile. Era appena
stata approvata la legge Pedini, che concedeva l’esonero dal servizio militare
a chi avesse lavorato come volontario per due anni in un paese in via di
sviluppo. Ma bisognava trovarsi il
lavoro e poi dimostrare di aver fatto qualcosa di utile.
Varie
associazioni di volontariato mi tennero in sospeso per un anno, facendomi fare
corsi di preparazione che, tra l’altro non mi sembravano per niente
pertinenti. Mi ricordo noiosissimi sabati passati a studiare la storia medievale
europea, con la speranza di partire per un paesino di pescatori in Brasile.
Ad un certo punto
ero disperato, avevo già deciso di rinunciare al mio progetto e di entrare in
caserma, quando una mia compagna di corso e collega di lavoro in un ospedale
della Valtellina, mi diede l’indirizzo di Don Contiero. Gli telefonai e il
giorno dopo mi ricevette a Bologna, nel suo ufficio disordinatissimo. Mi guardò
in faccia e mi disse: “Vuoi andare in Africa?”.
Mi ero preparato
discorsi filosofici per spiegare la mia obiezione di coscienza e le mie idee, ma
risposi solo “Sì”.
Lui non disse
altro. Si mise alla macchina da scrivere, ma siccome non aveva carta strappò un
foglio dall’agenda del telefono, una pagina di carta gialla in fondo, messa lì
per aggiungere a penna indirizzi importanti.
In due minuti
scrisse una lettera al Dott. Corti in Uganda.
Quindici giorni
dopo salivo sull’aereo per Entebbe e iniziavo i miei anni in Africa, che hanno
cambiato completamente la mia vita. Tra l’altro ho incontrato mia moglie
proprio lì.
Ho rivisto Don
Contiero altre due volte in Uganda e una volta mi venne a trovare in Toscana
dove abito. Io ero in angoscia perché mi era stato offerto di andare per due
anni ad Asella in Etiopia. Era l’anno della grande carestia: il 1984.
Io avevo appena
cominciato a lavorare in Italia da poco e avevo portato mia moglie e un’ampia
famiglia allargata africana con me. Quindi non sapevo se era giusto partire o
no.
Lui mi disse
solo: “cosa perdi tempo qui a curare 600 bambini sani, vai”. E
io andai.
Ciò che mi ha
sempre colpito di lui è la capacità di capire la gente e la fortissima fede.
Lavorando nel
mondo del volontariato e della cooperazione per molti anni ho incontrato una
decina di persone con le quali ho sentito subito una sintonia eccezionale e una
simpatia immediata: parlando è venuto fuori che anche queste persone,
incontrate in tempi diversi e nei più disparati paesi del mondo, erano stati
“mandati” da don Contiero. Li chiamo i Contierani e so che con un Contierano
mi troverò sempre bene.
Questo è molto
bello.
Ti da il senso
che esiste davvero una verità per la quale vale la pena di battersi.
Anche in questi tempi nei quali la speranza stessa sembra dimenticarci.
Don Contiero mi
ha insegnato la coerenza con quello in cui credo.
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3. “Voglio andare in Africa”
Elena Balsamo
Con questa precisa richiesta mi
presentai nel giugno 1982 alla porta di Don Contiero. Avevo sentito molto
parlare di lui in ambito universitario (io frequentavo allora il secondo anno di
medicina) ma non lo avevo mai conosciuto. Rimasi colpita dai suoi modi decisi,
all’apparenza anche bruschi. Senza tanti preamboli infatti mi disse :
“Benissimo, c’è per l’appunto una ginecologa che parte per l’Uganda,
puoi andare con lei “ A fine
luglio ero, insieme a Simonetta Pirazzini, su un aereo che mi portava per la
prima volta a Gulu.
Da allora sono entrata a far parte
del “giro” di Don Contiero, che per me è stato un punto di riferimento
molto importante soprattutto negli anni dell’Università.
Ho iniziato a seguirlo nelle aule universitarie dove
mi trascinava a parlare dell’esperienza vissuta in Uganda. Io mostravo
diapositive e mi appassionavo raccontando dell’Africa e un po’ alla volta
uscivo dal mio guscio, acquisivo sicurezza. Ricordo, fra tutte, una volta in cui
eravamo in un’aula della facoltà di medicina, quelle enormi ad anfiteatro, e
lui all’improvviso mi disse “Parla!” senza avermi avvertito prima e io mi
ritrovai a dover improvvisare un discorso di fronte a decine di persone che mi
guardavano . Ricordo che pregai Dio di farmi uscire le parole di bocca e tutto
andò bene…
Mi sono resa conto solo anni dopo
quanto quel lavoro con Don Contiero mi sia servito per prepararmi alla
mia futura attività di formazione degli operatori . Ancor oggi ogni volta che
mostro diapositive in qualche corso per medici o educatori penso a Don Contiero
con gratitudine.
Anche la messa del martedì sera era un appuntamento
importante. I suoi discorsi forti, che scandalizzavano chi non lo conosceva,
servivano a scuoterci, a metterci in discussione. Da San Sigismondo poi sono
passate schiere di personaggi interessantissimi, a portare la loro
testimonianza, la loro esperienza, sempre sofferta e vissuta in prima persona :
un crocevia di nomadi, di uomini e donne in cerca di una strada, di una vita più
vera e ricca di significato.
A San Sigismondo sono nate amicizie, progetti, si è
festeggiato insieme, ci si è sentiti comunità, parte di una grande famiglia. E
Don Contiero ha fatto scuola a generazioni di studenti, annoiati e delusi dal
mondo accademico, ha aperto loro una finestra, ha colmato la loro fame di
“vastità”.
Sempre pronto ad ascoltare, ad accogliere al di là
di qualsiasi etichetta, ad aiutare in caso di difficoltà, a far incontrare e
mescolare saperi diversi : “Conoscetevi!”
era la frase lapidaria con cui ti lasciava nel suo minuscolo studio in compagnia
di qualche missionario o
volontario/a, magari appena arrivato dalle savane africane o da qualche
bidonville sudamericana. Molte mie amicizie, tuttora vive, sono nate attraverso
Don Contiero.
Lui ha benedetto i momenti più importanti della mia
vita : il mio matrimonio con Manuel, la nascita della nostra prima bambina, la
partenza per la Guinea-Bissau. Poi purtroppo ci siamo persi di vista: la
famiglia si è ingrandita, ci siamo allontanati dalla città, ma non per questo
ci siamo dimenticati di lui che rimarrà sempre una delle figure più
significative nella nostra storia.
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4. Incontrare l'Africa vera
di Susanna Bernoldi
Volevo
conoscere l’Africa, a tutti i costi, ma quella “vera”, della gente come me
che ogni giorno si deve costruire la vita, l’Africa che non compare sui dépliants
turistici, ma che sapevo che, con urla soffocate dai potenti, cercava di far
conoscere le ingiustizie di cui era ed è vittima.
Dopo
tante porte chiuse, grazie a Silvia, ecco l’incontro a Bologna con don
Contiero (mi è più familiare chiamarlo per cognome).
Ricordo
un “ufficio” un po’ scuro, con il soffitto basso (o forse era solo
un’impressione) e tanto caos, quella confusione di carte che ora mi è
compagna e dalla quale non riesco a liberarmi. Allora ricordo che mi guardai
attorno un po’ sospettosa e poi iniziammo a parlare e lui mi descrisse il suo
viaggiatore-tipo: non ero io. Mi alzai e stavo per accomiatarmi: già allora,
sentendo il mio tempo prezioso, non accettavo di sciupare quello degli altri.
Don Contiero voleva studenti, futuri professionisti che o sarebbero andati a
lavorare per gli ultimi in Africa o avrebbero svolto la loro professione qui,
nel nostro Nord, con tutt’un’altra ottica verso il diverso, il consumismo,
ecc.
Io
avevo già 37 anni, ero un’insegnante….. e fu allora che – io già in
piedi e con una frase di saluto ormai pronunciata – don Contiero mi guardò
con più attenzione: ero un’insegnante, appartenevo a quella categoria di
persone che, al ritorno, può diffondere a tanti, soprattutto ai giovani, ciò
che avrebbe visto, ciò che sarebbe rimasto nel cuore.
E
così il primo anno andai a Migoli, villaggio nel cuore della Tanzania. Ma
l’anno dopo ero di nuovo lì, in quell'ufficio: ero ormai una volontaria
dell’Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau e, in chiesa, avevo
iniziato a parlare di lebbra e dei nostri progetti per la raccolta fondi. Ma non
mi andava più di parlare di un problema così grande, una vera tragedia per chi
ne è vittima, senza conoscere direttamente questo mycobacterium leprae che
la fa da padrone dove c’è miseria, povertà, ingiustizia.
Di
nuovo il piccolo ed incasinato studio e lui, paziente di fronte alla mia
richiesta senza punti di domanda, ma solo punti fermi, decise di inviarmi al
Lebbrosario del Cairo. E lì, quando lui venne con il suo gruppo di ragazzi,
avemmo occasione di condividere una
settimana di lavoro, di escursioni, di S. Messe, tutto sempre particolare, tutto
sempre firmato “don Contiero”. Il fatto poi che io parlassi sia inglese che
francese e che vi fossero due grandi personaggi - un prete operaio con grandi
esperienze di condivisione e lotte con i lavoratori francesi ed un altro docente
alla Sorbona - mi costrinse, durante tutta l’escursione a Suez e sul Monte di
Santa Caterina, a tradurre tutto, ma proprio tutto quanto usciva dalla bocca dei
due, di don Contiero (e lì mi trovai in imbarazzo quando dovevo tradurre
qualche parolaccia!) e dei ragazzi.
Insomma,
se penso al “don” rivedo la stupenda bellezza di quelle montagne che
circondano il monastero dove si dice gli angeli abbiano portato il corpo di S.
Caterina, quella messa celebrata con – per altare – una pezzo di roccia un
po’ più piatta, quel tramonto e poi il risveglio di notte per andare in
vetta, con le fiaccole, per poi attendere l’alba con altri gruppi di
ragazzi di ogni parte del mondo.
Sei
particolare, don Contiero, ed è giusto così. Un “don” normale non farebbe
quello che fai tu e allora…. sai che noia!
Grazie
per la tua “diversità nell’essere sacerdote” che ha cambiato la vita di
tanti, che ha aperto il cuore e la mente di tanti, che mi ha fatto incontrare
Chiara che ha condiviso con me le mie due prime esperienze africane, che ha
mangiato con me la torta con le formiche (non eravamo ancora vegetariane!!) che
mi ha dato l’occasione di conoscere il problema del Sud Sudan, di leggere
grazie a un tuo studente bolognese ora sacerdote “Lettera ad un consumatore
del Nord”…
Accipicchia
quante cose! E’ per questo che non ho smesso di essere diversa dalle mie
tranquille colleghe ora ultraquarantenni. Ho sempre più voglia di aprirmi il
cuore…. Ma spero, prima o poi, di riuscire a mettere in ordine la mia casa che
è sempre più africana..!
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5. "Lotta e
contemplazione"
don Tullio visto da un
confratello: don Francesco Pieri
Quando, da ragazzo, frequentavo
il liceo Galvani, don Tullio Contiero era il mio insegnante di religione. Fu lì
che lo conobbi. Colpiva fin dai primi contatti la sua incontenibile passione per
la realtà dei poveri, la sua convinzione che i giovani studenti dei licei e
dell'università, avviati a svolgere professioni rilevanti, fossero in qualunque
modo, anche brutalmente, da porre a contatto con le realtà scioccanti del Sud
del mondo. Era persuaso che la povertà avesse una insostituibile valenza
educativa, in vista della maturazione delle responsabilità, per orientare le
proprie risorse personali e le future professionalità ad obiettivi coraggiosi.
La sua aggressività verbale verso tutti coloro che riteneva, senza sfumature, i
“figli della borghesia”, senza disdegnare il turpiloquio, l’uso (anche dal
pulpito) di un tono decisamente più simile a quello della lotta politica che
alla predicazione parrocchiale, il continuo tic lessicale per i termini più
ostentatamente propri alla cultura di sinistra – “reazionario”,
“fascista”, per non citare che i più comuni – sortivano un deciso effetto
straniante: di immediata ripulsione e forse di allontanamento per alcuni giovani
dalla formazione cattolica più tradizionale, ma al contempo di fascinazione per
quanti si ritrovavano sorpresi nel raccogliere dalla voce di un prete quel
linguaggio che suonava ai loro orecchi come il contrassegno di un totale
coinvolgimento, dal sapore rivoluzionario, nella causa degli oppressi e della
loro liberazione. Era questo il suo “cavallo di Troia” per penetrare nella
cittadella fortificata degli interlocutori più diffidenti, se non
pregiudizialmente ostili ad ogni messaggio ecclesiale. All’interno del cavallo
non stava però Il capitale di Karl Marx, ma la Pacem in terris di
Giovanni XXIII ed ancor più Populorum Progressio di Paolo VI, vera magna
charta per l’attività missionaria del post-concilio, dalla quale il
compito dell’evangelizzazione era stato definitivamente saldato a quello –
altrettanto urgente – per lo sviluppo dei popoli verso la loro piena dignità
umana.
Ritrovandolo come studente
universitario alla chiesa di San Sigismondo, della cui animazione ora mi occupo
come prete, lo incontrai più spesso nelle vesti di celebrante e lo straniamento
non mancò di ripetersi, anche se la precedente esperienza mi aveva in certo
modo preparato, aiutando ad attutire il colpo. Quale che fossero la liturgia del
giorno e le lezioni bibliche preordinate, era inevitabile che le parole
evangeliche finissero per intrecciarsi ai “suoi” testi sacri e profeti, il
cui canone comprendeva soprattutto: don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani, de
Gasperi e La Pira, i vescovi Helder Camara ed Oscar Romero, senza evitare… Che
Guevara e Pierpaolo Pasolini. Nonostante tutto, la perseveranza e la sincera
generosità (spesso anche un po’ dissennata) della sua testimonianza credo
abbiano davvero scosso Bologna. Grazie alla grande quantità di iniziative e di
incontri che per oltre un quarantennio attorno a lui sono stati creati, tutti
oggi associano la sua persona ad un messaggio molto chiaro: alle
corresponsabilità del mondo occidentale nel sottosviluppo, all’urgenza della
condivisione, alla necessità di donare la vita per la causa dei più
diseredati.
Come prete, oggi mi colpisce in
particolare quella sua capacità davvero evangelica di proporre obiettivi e
percorsi di consacrazione totale, cosa che – come ora mi rendo meglio conto
– richiede una gran dose di superficialità o una gran dose di coraggio.
Sapere persuasivamente presentare il Vangelo come un ideale coinvolgente e
totalizzante per la vita, non è da tutti, neppure da tutti noi preti. Anche noi
a volte ci facciamo catturare da sogni di “sistemazione” davvero borghese:
ai nostri giovani migliori auguriamo ciò che tutti i genitori potrebbero
augurare ai loro figli, come una buona professione, una buona famiglia, il minor
numero possibile di ostacoli… Senza negare la bontà della vocazione al
matrimonio, don Tullio ha però sempre parlato opportune ed importune di
vocazione: non solo di vocazione missionaria e di servizio ai poveri, ma anche
di vocazione contemplativa, o di vocazione sacerdotale. Spesso nella
predicazione nominava le molte monache clarisse, i camaldolesi e le camaldolesi,
i trappisti che conosceva o che aveva incontrato, ricordandole come persone che
sentiva quotidianamente presenti alla sua interiorità, e importanti per la
crescita del Vangelo. La dimensione contemplativa, il primato di Dio, la vita
completamente dedicata, erano costanti del suo pensiero che don Tullio ha sempre
ribadito con grande energia. I commenti a suo riguardo che ho raccolto dai
vescovi bolognesi hanno sempre reso atto di questa sua capacità nella proposta
vocazionale, presentando ai giovani la vita e gli ideali delle persone
consacrate, soprattutto facendoli incontrare direttamente con loro. Penso che
non molti altri preti possano dirsi altrettanto benedetti nei loro sforzi da
altrettanta fecondità.
Sotto una tattica comunicativa
costantemente provocatoria e volutamente scostante, c'è in realtà l'animo più
tradizionale del prete, nel senso più nobile del termine: tradizionale, non
tradizionalista. Radicato nelle Scritture e nella preghiera, grato alle persone
ed ai vescovi che lo avevano formato come sacerdote, amante della Chiesa della
quale pure non ignorava le fatiche istituzionali e le responsabilità storiche.
Mi limito ad un esempio: usava dire “mia moglie” a proposito del Breviario,
richiamandosi alle parole del card. Lercaro che, al momento dell’ordinazione,
gli aveva affidato questa preghiera liturgica come la compagna più assidua
di tutta la sua vita, da imparare ad amare più profondamente nella fedeltà
quotidiana. Aveva espressioni imbarazzanti nella loro ingenuità: “Hai visto
mia moglie? L'ho prestata a un seminarista!”
Certamente non era un carattere
facile. Non sarebbe arduo scrivere un altro “Quaderno di san Sigismondo”
delle difficoltà incontrate nel vivere e nel cercare di condividere qualcosa
con lui, sia come studente che come confratello! Ma qui vogliamo dire
soprattutto il tanto che con la sua vita ha dato e costruito in molte altre
persone. Che poi è quanto davvero rimane.
(nella foto in alto, Silvia Montevecchi con
don Tullio nel 2002, a Bologna)
E.Frontini è medico
pediatra, in provincia di Pisa. Vive in una bella casa di campagna, insieme
alla sua famiglia estesa e al quanto mista, comprendete sangue olandese,
oltre a quello ugandese e italiano.
Elena Balsamo è pediatra,
vive a Bologna, sposata a Manuel che è della Guinea Bissau, ha tre figli.
Fondatrice dell'Associazione Bambaran, per le attività di integrazione
interculturale particolarmente a favore dei bambini di coppie miste.
Sull'argomento ha pubblicato un bel libro: "Lui, Lei, Noi", edito
da EMI, Bologna.
Ho conosciuto Susanna nel 1989 o '90, nella sua città, a Imperia, durante
un corso di educazione allo sviluppo. Tra le varie cose, mi chiese in che
modo poteva fare un viaggio in Africa che non fosse turistico, e io la
indirizzai da Contiero, perché a quell'epoca ancora non si parlava di
Turismo Responsabile, e non vi erano molte possibilità, associazioni,
gruppi, per fare viaggi di conoscenza. Negli anni quindi, mandai a lui molte
persone che mi facevano la stessa richiesta, anche perché ho sempre pensato
che il suo modo di fare viaggi fosse ottimo per chi era al primo incontro
con l'Africa. Susanna è tra coloro che a seguito del viaggio con Tullio,
hanno davvero cambiato la loro vita. Tra l'altro, è da anni impegnata nel
commercio equo, e nell'Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau, in
cui è stata anche consigliere d'amministrazione. Si può consultare il sito
www.aifo.it
Tra l'altro, da casa di
Susanna sono passati e passano praticamente tutti i missionari in visita
dalle sue parti: da Kizito a Zanotelli, e tanti sudamericani, e medici
indiani, ….
©SilviaMontevecchi