Sulla guerra, sulla pace, sul cammino percorso*

 

Caro Saverio,

mi chiedi qualche riflessione sulla guerra, la pace, sulla mia esperienza come pedagogista che ha lavorato in alcuni paesi africani che sono stati teatro delle guerre più cruente del pianeta,… E io, di buon grado, perché amo scrivere, accetto il tuo invito. Non senza difficoltà, perché sensazioni e immagini, e colori, e visi, e occhi, e paesaggi,… mi si assommano in un lampo,  nella testa, nel cuore. Così, forse come quando si sta per morire, e in un attimo si rivede tutta la vita. E se si dovesse scegliere un solo frammento da cogliere, non si saprebbe quale…

Ti parlerò delle mie scelte, dei miei scritti durante e dopo gli anni d'Africa, di ciò che ha significato per me vivere ciò che ho vissuto, dell'importanza della scrittura, di come vivo ora, davanti agli eventi che sconvolgono il mondo. Insomma, quasi un'autobiografia!

 

Ho sempre scritto diari, da quando ero piccola. Ne ho delle scatole piene. E sono belli, pieni di colori, di fotografie, ritagli di giornali, adesivi di associazioni varie, biglietti di viaggi,… Penso spesso che non vorrei mai che qualcuno li leggesse, e che se dovessi morire all'improvviso - accidenti - sarebbero "alla  mercé" di chi li trova! Quando partii per il Burundi, poiché non ero sicura di riportare a casa la pelle, presi le due scatole che avevo allora, le incartai, e le portai ad un'amica, che se le mise in cantina. E lì sono rimaste, per 4 anni.  Quando me li feci ridare, li riscoprii con infinita gioia e anche allegria. Ritrovavo ricordi lontanissimi, ritrovavo i racconti di una Silvia ragazzina, i suoi sogni, le sue esperienze di amicizia e le prime realizzazioni professionali… E' stato bello ritrovare quei quaderni / ritrovare pezzi di me.

Anche mentre ero via ho continuato a scrivere, anzi forse anche più intensamente, ma la scrittura ha preso forme diverse, e si è rivolta maggiormente agli altri.

Credo che tutto sia cominciato causa (o dovrei dire "grazie") all'embargo che vigeva allora verso il governo del Burundi.  Quando arrivai in quel paese, nel 1996, all'inizio fui sconvolta nel rendermi conto che con l'embargo e quindi l'assenza di voli commerciali, non mi era possibile scrivere ad amici e parenti in Europa, e sentii un isolamento pazzesco, una forte sorta di claustrofobia e di impotenza. A posteriori, devo dire che forse quella coincidenza è stata quasi una "fortuna" per me, perché mi ha costretta a trovare forme  alternative di scrittura, che mi hanno portato ad una maggiore introspezione. Infatti, non potendo spedire a chi volevo lettere dirette e personalizzate, cominciai a scrivere pezzi più generici, che mandavo a casa mia via fax (e neanche il fax era cosa facile, nella piccola cittadina dove ero io, in cui non avevo linea telefonica).  Qui, a Bologna, avevo dato una serie di indirizzi a cui spedirle, ma nel giro di breve tempo accadde che quelle lettere venivano fotocopiate e rifotocopiate, tra amici, conoscenti, semplici vicini di casa che chiedevano di me, o a volte associazioni o gruppi parrocchiali che volevano notizie vissute dall'Africa. Insomma, un vero tam-tam .  Così, io ho continuato a scrivere diari, ma  in essi rientravano solo le cose più personali, mentre le riflessioni  di più largo respiro su ciò che facevo e vivevo, quindi anche sulla guerra e la violenza, i rapporti tra culture, ecc, andavano su quelle lettere.  Per me era bello scrivere, ed era bello sapere che a casa molte persone mi chiedevano di continuare a farlo, per portare loro un alito di vita diversa. Quante volte mi sono arrivati messaggi di persone che mi dicevano di cercare nella cassetta delle lettere qualcosa di mio, per trovare il sole del deserto o il profumo degli eucalipti, nel grigiore freddo delle loro giornate invernali…!  La scrittura è stato un mezzo fondamentale per arricchire la mia riflessione su ciò che stavo facendo, nonché per mantenere e rafforzare collegamenti, in situazioni che sono estremamente isolanti, soprattutto nei casi del Burundi e della Somalia, in cui mi trovavo davvero da sola, per mesi, senza quasi persone che parlassero la mia lingua, o comunque con lunghissimi momenti da lasciare al silenzio, alla meditazione con se stessi.

Dopo circa due anni, i miei scritti li mandai all'Archivio di Pieve. Pensavo che potesse essere interessante per qualcuno avere altri scritti di un cooperante in zone di guerra. Non sapevo che l'Archivio organizzasse un concorso annuale degli scritti autobiografici così, è stata una bella sorpresa trovarmi tra i premiati! Ricordo ancora che quando ricevetti l'invito alla manifestazione (e per caso ero in Italia in quel periodo) non sapevo ancora nulla, e solo leggendo il programma mi accorsi che c'era stampato il mio nome! Lì per lì rimasi incredula e mi dissi "cos'è questa storia?!". Quando poi le mie lettere sono state pubblicate, da Terre di mezzo  di Milano,  sono stata felice di vedere che quelle lettere riscontravano ancora tanto apprezzamento in persone a me sconosciute. Ho ricevuto tante lettere di persone che avevano comprato il libro, e che erano rimaste coinvolte da una scrittura meditativa e introspettiva insieme, e sicuramente anche molto al femminile. Io sono felice se il mio scrivere può essere utile ad altri, per esempio a conoscere un po' meglio un continente verso il quale si hanno ancora tanti preconcetti.

Nel frattempo, riprendevo l'aereo, e sono stata in Sierra Leone, poi nuovamente Somalia.

In questi frangenti, si scoprono grosse parti di sé, che non si possono sempre conoscere nella nostra vita di tutti i giorni, a casa, dove ci muoviamo in spazi conosciuti. L'andare via, in condizioni difficili, ti pone  nella solitudine più totale: tu e il tuo io, a fare i conti con la diversità e il cambiamento.  Con la frantumazione dei punti di riferimento, per diventare qualcosa di imprevedibile. Anche per questo la scrittura è importante. Il computer, o il foglio di carta, rimane un elemento familiare, tra i tanti destabilizzanti.

In Sierra Leone ho vissuto l'esperienza per me più traumatica. Non me lo aspettavo. Non potevo conoscere le reazioni che il mio io avrebbe avuto davanti a ciò che ho visto e toccato in quel paese, che ha vissuto una delle guerre più cruente e devastanti del mondo contemporaneo, con livelli di violenza indescrivibili.  Ci sono rimasta pochi mesi, ma ho dovuto fare i conti con la mia fragilità. Quando tornai a casa, sentii che ero da tirar su col cucchiaino, e forse non a caso mi ammalai appena rientrata: la mia seconda malaria.

La solitudine, la violenza, il deserto della Somalia e l'integralismo musulmano, sono state tutte esperienze  fortissime, che come tali innescano un processo di invecchiamento precoce. Non lo dico in senso negativo (non ho nulla contro la vecchiaia!). E' che davvero in pochi anni ho vissuto  e conosciuto un'infinità di cose, un concentrato che molte persone spesso non incontrano in tutta la loro vita. Questo fa sì  che, lungo il percorso,  mi sono sentita sbalzata avanti di anni luce.

Si torna cambiati, e molto profondamente. E le persone che hai intorno spesso sembrano non capire. Ti propongono le stesse cose, si muovono, parlano nello stesso modo, come se tu fossi la stessa persona. Ma tu sei un essere completamente diverso da pochi anni prima, e non puoi più rispondere alle loro attese. Il senso di schizofrenia è spesso causa di forte disadattamento tra chi ha lavorato anni in condizioni molto diverse (vi è persino un 'associazione dei volontari rientrati, proprio per far fronte a queste difficoltà).

Lavorare in zone di guerra poi, è estremamente difficile. Io ho avuto bisogno di staccare, e anche ora non so, tornandoci, quanto potrei resistere. Quando si vive in situazioni di forte tensione, tutta la tua percezione del mondo  viene a mutare. E così la percezione della vita, delle relazioni, dei gesti, delle parole. Conosci la paura. E dolori senza fine. Per questo, io mi chiedo spesso come fanno persone che vivono per scelta in condizioni di questo tipo, per molti anni.  Come molti volontari, o anche molti giornalisti, specializzati in cronaca di guerra. Io non ce l'ho fatta. Sentivo che ne andava della mia salute mentale. Preciso anche però che non di rado accade che persone che danno la loro vita per gli aiuti alle zone di guerra, finisco col non farcela. La depressione arriva a livelli irrecuperabili. Ne racconta un caso Gino Strada nel suo libro "Pappagalli verdi": un'infermiera che si toglie la vita. Ma ho sentito altri casi analoghi, per esempio di un medico, a Sarajevo negli anni più bui, che ha preteso troppo da se stesso. Non ha voluto staccare finché era in tempo, è rimasto sul campo, ha lavorato senza sosta, finché non ha resistito davanti al dolore e all'impotenza che questo mondo ti addossano.

Al tempo stesso, credo che forse tutti dovrebbero passare attraverso l'inferno della guerra, e conoscerla, per convincersi che va evitata!!!

Vedo che troppe persone qui, nel nostro mondo ricco e pacifico, parlano della guerra come di un gioco lontano, saltuariamente necessario.  Io ero assolutamente, totalmente contraria all'intervento armato in Afghanistan.  E sono giornalmente sconvolta dagli attacchi alla Palestina, dalla violenza di un popolo su un altro.  Tanto più poi pensando a quanto gli israeliani hanno passato nella loro storia, mi chiedo come facciano loro, proprio loro, ad essere agenti di tanta sofferenza in un altro popolo. E sono anche sconvolta (nonché  furiosa) quando vedo il tipo di informazioni che i nostri mass media ci danno. Da settimane i nostri TG parlano al 30% di un delitto a Cogne, dove è stato ucciso un bambino. E passano pochi minuti su guerre pazzesche che insanguinano il pianeta,  guerre che vanno avanti anche da decenni. Per non dire del silenzio totale su situazioni gravi che stanno per esplodere, come la crisi del Madagascar, dove ancora una volta gli interessi europei giocano a scacchi con la pelle dei poveri, e fomentano odi etnici dove non ve ne erano. Ma gli odi etnici sono sempre facili a far scattare. E sono convinta che sarebbe lo stesso anche qui, tra una città e l'altra, tra un comune e l'altro. Anche in Italia ci sono situazioni  di convivenza tra differenze, che scatterebbero facilmente se una fazione cominciasse a pestare i piedi all'altra. La mia esperienza in paesi in guerra (dove tanto si parla di "guerre tribali") mi ha insegnato che il limite per mantenere l'equilibrio e la tensione dentro misure accettabili, è sempre molto precario. Non ci vuole molto a far saltare tutto. Ci è comodo pensare che sia così, che se le guerre esplodono è colpa di una mandria di incivili, ecc.  Ma non è così.  E la pace è qualcosa da costruire sempre, costantemente, con pazienza orientale, certosina, indefessa.  Pazienza che l'uomo in quanto specie non ha ancora appreso, e infatti ci ritroviamo praticamente all'interno di una guerra mondiale, anche se non ce ne rendiamo conto. Lo stesso Bush ha affermato che la situazione attuale ha molto più a che fare con la II Guerra mondiale, che con la guerra in Vietnam.  C'è davvero di ché esserne fieri.  E' più facile  giocare a braccio di ferro,  piuttosto che riconoscere i diritti degli oppressi. E dire che lo sappiamo che il braccio di ferro, di per sé, non porta a nulla. Almeno il Sudafrica una lezione avrebbe dovuto darcela, o no?  I neri sono stati costretti alla lotta armata, sono stati incarcerati per anni. Eppure hanno  vinto! Gli agenti della repressione  "se ne sono andati  a mani vuote" (mi viene una citazione biblica).  Resto ancora incredula quando penso e vedo che ora le carceri sudafricane dove erano rinchiusi i politici dell'African National Congress sono diventate un triste luogo di visita, come i lager nazisti, mentre molti di coloro che vi erano dentro sono ancora in vita, e siedono addirittura sulle sedie del governo! E' qualcosa che succede raramente nella storia. Generalmente si recita il mea culpa quando le vittime sono già passate a miglior vita.

 

Mi sto perdendo, caro Saverio. La meditazione potrebbe continuare. Lo vedi? la scrittura ha questo effetto su di me. Specie su temi che mi stanno così a cuore, come la sofferenza della gente, per ragioni poi che potrebbero essere così facilmente evitate, se il mondo lo volesse davvero.

Continuo a scrivere. Forse questo è il mio karma. Forse questo è il piccolo compito che il destino mi aveva assegnato, quando lo spermatozoo di mio padre si infilò nell'ovulo di mia madre.  Mi piace pensarlo. Sperare che ci sia un senso nascosto, in tutto questo, da qualche parte. Che ci sia un disegno che non possiamo comprendere, ma che esista qualcosa da qualche parte per giustificare la sofferenza di tanti, e l'idiozia dei più.

Ho scritto altri libri. Uno sul mio lavoro con i bambini in guerra, per continuare a riflettere, per continuare a fare in modo che la sofferenza di quei bambini possa almeno servire a qualcosa.

Un altro sulla felicità. Forse perché avevo bisogno di convincermi che la felicità è possibile, nonostante tutto. Se è una felicità intelligente.

Sono entrambi molto auto e  biografici, perché parlano di me e di altri. Un'integrazione di saggio e narrazione, che amo molto. C'è anche qualche fotografia. Perché "ogni vita è degna di un romanzo", recita il motto di chi fa scrittura auto / biografica.  E la bellezza di questa scrittura la si coglie sempre di più facendola. Io amo scrivere per me, così come amo raccogliere storie di vita. Ho ancora un ricordo meraviglioso delle storie raccolte tra i contadini profughi del Burundi, con i loro sorrisi timidi, la loro voce  delicata e sottomessa. La voce dei poveri. Che in genere non ne hanno.

Mi resta la difficoltà di vivere qui. Tra i vestiti di Sanremo e i morti della Palestina, e del Kurdistan. Tra il freddo dell'inverno, e il ricordo degli eucalipti.

Con affetto, Silvia Montevecchi. Marzo 2002.

  

* Articolo scritto per Saverio Tutino, e pubblicato su Primapersona nel numero di settembre 2002