Intervista di Angelo Ferrari a Silvia Montevecchi
per la rivista Piroga maggio 2000
1) Silvia, cosa te lo ha fatto fare di andare fin in Sierra Leone per esprimere compiutamente il tuo desiderio di stare nel mondo e di esprimere la tua professionalità?
Beh, il mio desiderio di stare nel mondo, così come la mia professionalità, certo li posso esprimere in molti altri paesi. Cosa che avviene, in effetti. Ho lavorato anni in Italia prima di partire per queste lunghe permanenze in Africa. Diciamo che nel mio lavoro di pedagogista, ho sempre lavorato maggiormente per le situazioni di disagio e di emarginazione. Si trattasse di handicap, di giovani a rischio nelle nostre metropoli italiane, formazione docenti, bambini immigrati o bambini lavoratori. Ora, anche se la Sierra Leone può colpire di più, per me non vi è una differenza di genere, ma solo - se vogliamo - quantitativa. Certo lavorare a
Freetown, con il coprifuoco alle 9 di sera e un piede sempre pronto a evacuare in caso di guerriglia, è più faticoso e più rischioso che non lavorare per i giovani di un quartiere degradato della periferia di Roma o Palermo, o per bambini nomadi di Bologna. E così pure la problematica è più profonda e più sconvolgente. Ma si tratta dello stesso impegno "di campo". Voglio dire: anche se stessi in Europa, non mi troverei mai a lavorare, che so, alla direzione di una scuola per la formazione di ricchi manager. Non lo dico in senso denigratorio, c'è bisogno anche di esperti in educazione di questo tipo, ovviamente, e anche lì ci vorrebbe grande senso umanitario, persone capaci di educare ai valori.
Ma non è il mio genere. Sono sempre stata dalla parte di chi ha più bisogno. Quando mi hanno proposto questo lavoro per gli ex-bambini soldato, ho accettato subito perché era una problematica che conoscevo, per la quale mi interessava lavorare. Certo, per quanto sapessi che era penosa, non me l'aspettavo così sconvolgente come si è poi rivelata.
Temo di poter dire che si sia trattato dell'esperienza più lacerante che abbia mai fatto. Ne ho viste di tutti i colori in giro per il mondo. In tanti paesi, dal Brasile al Madagascar, al Burundi… ho visto livelli di degrado, di sopruso, di umiliazione, che non si possono immaginare fino a ché non ci si è in mezzo. Ma non avevo mai visto tanta violenza e tanto dolore come ho potuto vedere in Sierra Leone. E' stato davvero difficile. Ogni bambino che avevo davanti, rappresentava una storia allucinante. Era un girone dantesco.
Purtroppo, quando passi tanto tempo in paesi in guerra, ti fai una certa immagine del mondo, e ti rendi conto che l'inferno, sulla terra, esiste davvero.
2) Un'altra domanda: mi racconti la tua giornata tipo in Sierra Leone?
Le giornate, dalle 8 di mattina alle 6 o 7 di sera, erano tutte piuttosto diverse, ma scandite da impegni regolari, per cui parlerei più di settimana tipo. Infatti, poiché seguivo diversi gruppi di lavoro vi era un incontro settimanale con ciascuno di loro. Il lunedì con il responsabile della Ong locale con cui lavoravo, per fare il piano settimanale; il martedì con il responsabile dei centri d'accoglienza per il piano dei conti e i finanziamenti; il mercoledì con l'amministratrice dei gruppi di educatori di
Freetown, per tutti gli aiuti da dare alle centinaia di famiglie seguite in città; poi con i diversi educatori. In particolare vi è un gruppo di 8 persone che seguono i bambini riunificati e uno di 3 che lavora per l'affidamento dei bambini di cui non si è rintracciata la famiglia. Il giovedì era con gli educatori dei centri d'accoglienza, per discutere delle necessità, dei problemi, delle attività da fare con i ragazzi; il venerdì con l'équipe di sensibilizzazione, che si occupa di campagne pubbliche, workshop per la formazione ai diritti del bambino, e il sabato con il gruppo che si occupa delle bambine e ragazze vittime di violenza sessuale. Oltre a questi vi erano poi incontri ufficiali una o due volte al mese, con il ministero degli affari sociali e con
l'Unicef, su temi diversi, per lavorare in maniera coordinata sul tutto il territorio del paese; e incontri con l'osservatorio Onu per i diritti umani. Ogni incontro poteva durare due o quattro ore, secondo le necessità. Oltre a questo poi, poiché si trattava di un progetto piuttosto grosso economicamente, vi era un enorme lavoro di gestione, di amministrazione, di database. In 8 mesi si è lavorato con circa 2000 bambini rilasciati dai gruppi guerriglieri, tutti seguiti uno ad uno in termini di bisogni psicologici, medici, educativi, ricreativi, della reintegrazione scolastica o al lavoro, di supporto economico alle famiglie più indigenti. Poiché si trattava di un progetto con tante sfaccettature, un aspetto faticoso e affascinante al contempo, era la sua grande varietà, e la necessità di mettere in atto tante competenze diverse. Infatti, quando fai un lavoro del genere, ti ritrovi ad essere tante cose: animatore, formatore, amministratore, arredatore, esperto in mass media…
Finalmente poi, vi erano i momenti in cui semplicemente me ne andavo in spiaggia con i bambini, ed erano quelli più belli…
3) Qual' è stata l'esperienza più bella che ricordi e quella peggiore?
Uno dei momenti più belli era quando arrivavo a Lakka alla sera, e stavo a dormire lì. I bambini erano estremamente felici di questo, allora non facevo neanche in tempo a uscire dalla macchina, e me li trovavo tutti intorno, gridanti. E così mi sentivo a casa, e pensavo "Eh sì, è proprio un centro d'accoglienza. Accolgono anche me!"
Poi era bello quando io ero nella mia stanza, e sentivo le loro vocine sul terrazzo: erano loro che venivano a trovarmi, a stare con me. A volte si stava insieme senza fare assolutamente nulla. Io leggevo o lavoravo, e un ragazzino veniva lì, si metteva seduto vicino, e stava in silenzio, a guardare il mare. Mi chiedevo quali cose potessero passargli per la mente, e pensavo quanto bisogno di affetto vi era, e come era bello poter stare così. Senza fare o dire nulla, semplicemente sentire che "ci si è", l'uno per l'altro.
E poi ho un ricordo molto bello di quando andavo in spiaggia con le bimbe più piccole, e alcune erano letteralmente terrorizzate dall'acqua, e io cercavo di farle familiarizzare poco a poco con le onde oceaniche. Era buffa la piccola Anne Marie che mi si aggrappava al collo, mi tirava i capelli gridando "Silvia take me, take me !!"
Era così piccola. Eppure anche lei, era stata rapita, e aveva passato un anno tra i ribelli. Adesso vive a
Lakka, con la madre.
Il ricordo più allucinante è di quando io e un educatore abbiamo seguito l'iscrizione di una bambina alla scuola per ciechi. A questa ragazzina, come a molti altri, quando arrivarono i guerriglieri a casa sua, a sud del paese, distrussero tutto e le uccisero il padre davanti agli occhi. Lei piangeva e loro le dissero "smettila di piangere, se non la smetti piangerai per il resto della vita". E detto questo l'hanno accecata. Vi risparmio le modalità. Posso solo dire che l'ho sognata per giorni e stavo malissimo. Per fortuna in un paese distrutto come la Sierra Leone esiste una buona scuola per ciechi, cosa che non avrei osato sperare. Così facemmo tutto il necessario per iscriverla: visita medica, acquisto di tutti i materiali che richiedevano, pagamento delle tasse.
Infine, arrivò il momento del "deposito". Uno di quei momenti in cui vorresti sparire sotto il suolo della terra.
L'educatore ed io, con lei, la mamma, una povera contadina a cui non era rimasto più nulla, e il bimbo piccolo sulla schiena. La bambina, che non parlava neanche più. Qualunque cosa dicessi rispondeva con un
"em..". E tu devi lasciarla lì. Sola. Una bambina sana, che aveva la famiglia, la casa, poteva andare a scuola e aveva un futuro davanti a sé. Adesso qual è il suo futuro? Io inorridisco se solo me lo chiedo. Dover lasciare una bambina in un posto così, efficiente ma pur sempre decadente. Lei non vede il colore dei muri, ma tu sì. E devi pensare che tutto questo non è per cause naturali, perché è nata così, e purtroppo a volte capita. No. Tutto questo è per la follia umana. Per pura e semplice pazzia.
La madre, come è tipico nella gestualità africana, rimase molto compita per tutto il tempo. Non lasciava trapelare segni di dolore. Pianse solo dopo, uscita dalla camera, allora ci abbracciammo, poi partì per tornare a casa, perché per lei stare a Freetown era molto oneroso. Tornò qualche settimana dopo, venne a cercami in ufficio e mi aspettò molto tempo. Mi aveva portato un pollo, vivo. Che immagino fosse una ricchezza per lei. Non so. Come fai a non sentirti a pezzi davanti a queste cose?
4) Come è possibile conciliare esperienza umana e attività professionale in un luogo così "tremendo" per gli orrori che hai conosciuto?
Scusa, ma veramente mi sembra il contrario. Più una situazione è difficile, più DEVI essere professionale. E in un mestiere come il mio, in qualunque posto, in situazioni gravi o meno gravi, l'essenza umanitaria è parte integrante e imprescindibile della professionalità. Si lavora con materiale umano, non con scatole, o stoffe, o tubi. Puoi fare il medico senza spirito umanitario? Sì puoi, essendo un pessimo medico.
5) Ora, in questo momento senza l'ambiente sierraleonese intorno, ritieni che si possa sperare in un futuro di bene per quei bambini?
Un problema non può essere risolto se permane la causa che lo genera. Tra i bambini che noi abbiamo seguito, vi sono situazioni molto diverse. Per i bambini più piccoli, che hanno ritrovato almeno un genitore, FORSE sarà possibile ricostruirsi. Per quelli già in età adolescenziale, francamente, vedo un futuro molto grigio. In ogni caso, gli uni e gli altri hanno perso anni di scuola. Quando ritrovano la famiglia, ritrovano dei brandelli di famiglia: una nonna, uno zio. Uno o entrambi i genitori sono stati uccisi, o sono ancora in zone controllate dai ribelli. La casa generalmente è stata distrutta. Ritornare a scuola è difficile, sia per gli anni persi, sia perché devono contribuire al bilancio familiare. Se vorranno farcela a vivere una vita "normale", hanno davanti anni in cui arrampicarsi sugli specchi. In cui lottare contro i pregiudizi della gente. Lottare per la disoccupazione. Lottare per dimenticare.
E quando sei in una lotta continua per sopravvivere, puoi uscirne come una persona felice e positiva? Se poi la guerra non si arresta (e per il momento non vi è nulla di garantito) il futuro potrà essere solo, ancora, di grande miseria, perché con la guerra la Sierra Leone non potrà tornare alla ricchezza che aveva un tempo. Quando i turisti affollavano le sue coste meravigliose, le strade erano asfaltate, le cabine del telefono funzionavano e tutti potevano andare a scuola pacificamente, e all'università. La più antica Università dell'Africa Occidentale.
Il problema maggiore per i ragazzi è quello del lavoro. Trovare attività che consentano di vivere in maniera decorosa, non sbarcare il lunario. Quando vivi per sbarcare il lunario, è molto facile, per ragazzi così, continuare a sentirsi sconfitti, quindi essere aggressivi, cercare di continuare l'uso di droghe che hanno imparato stando in guerra. Per questo si punta molto alle attività di formazione professionale, come la pesca, la meccanica, la scuola guida, la sartoria, l'allevamento,… Ma la PACE è l'elemento sine qua non.
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