Intervista di Daniele Novara a Silvia Montevecchi
(pubblicata su Marcondiro, dicembre 2000)
L'Africa è diventata una delle zone più pericolose per i bambini: in certe regioni le guerre sono diventate endemiche. Si tratta di guerre di natura etnica, almeno apparentemente, oppure di altra natura. I bambini rappresentano il barometro umano di queste tragedie. Da ultimo è scoppiato l'interesse dei mass media sui bambini-soldato, in particolar modo in Sierra Leone, ma è soltanto l'ultimo episodio di una serie di situazioni già note. Ne parliamo con Silvia Montevecchi, pedagogista, che da quattro anni lavora in Africa in vari progetti attinenti queste realtà infantili. In Italia Silvia ha lavorato sull'educazione allo sviluppo nell'ambito dell'associazione Amici di Raoul
Follereau, poi al CIPSI di Roma, un organismo di coordinamento di varie ONG. Quindi è partita per l'Africa, ove ha lavorato in diversi paesi tra cui Burundi, Somalia e Sierra Leone, come collaboratrice di progetti UNICEF e dell'Unione Europea. Nell'agosto 2000 la troviamo a Bologna, in attesa di rientrare in Africa.
Silvia, chi sono i bambini-soldato e perché ci sono?
In linea generale i bambini-soldato sono bambini che vengono catturati durante i combattimenti dall'una o dall'altra fazione in lotta, molto spesso dopo aver visto trucidare i loro familiari. Cercano di scappare dalle loro case in fiamme, ma vengono presi con la forza, anche se molto piccoli, e rapiti dai loro villaggi.
Quando si parla di bambini-soldato bisogna fare delle distinzioni. Non tutti i bambini presi in guerra vengono utilizzati come soldati. Molti sono costretti a lavorare nei campi militari, come degli schiavi. Fanno la legna, preparano da mangiare, puliscono le scarpe, fanno il bucato… I campi si trovano in mezzo alla foresta, ove i bambini vengono tenuti isolati, in condizioni di vita pressoché animalesche. Non hanno nulla, mangiano quello che capita. Vengono trattati senza nessun riguardo. Una parte di loro viene invece costretta a compiere altre violenze: questi bambini vengono drogati e costretti a diventare a loro volta combattenti.
In genere i bambini rapiti sono molto piccoli, hanno 7/8 anni; a seconda di come evolvono le situazioni rimangono con i militari pochi mesi oppure anni. Molti rimangono fino all'adolescenza e oltre. Non sono solo i bambini a venire rapiti dai militari o dai ribelli: anche le bambine vengono costrette a combattere, o vengono utilizzate come possono essere utilizzate le femmine dai maschi… Anch'esse subiscono, da un'età a volte bassissima (7/8 anni), violenze a non finire: vengono violentate davanti ai genitori durante gli scontri, poi vengono rapite, e nei campi vengono violentate da più soldati, finché uno non decide di prenderle come "moglie" in maniera definitiva. Ovviamente le gravidanze precoci e le malattie sessuali sono diffusissime.
Gli adolescenti hanno anni di questa vita alle spalle.
Ti sei trovata a lavorare con questi bambini sul piano del recupero. Quand'è che scatta il bisogno del recupero?
Alcuni bambini vanno spontaneamente presso i centri d'accoglienza, altri no. Molti scappano dai campi, molti sono rilasciati ufficiosamente, solo una parte viene rilasciata ufficialmente. Ogni rilascio ufficiale è il frutto di un accordo fra l'ONU da una parte e l'esercito o i guerriglieri dall'altra.
Ovviamente ogni gruppo presenta problematiche diverse. Sicuramente è molto diverso il tipo di trauma che presentano i bambini a seconda che fossero realmente soldati o camp
followers, cioè servitori. Nel primo caso sono assassini, che hanno ucciso centinaia di persone, o come nel caso della Sierra Leone, hanno amputato braccia e gambe per molto tempo, seguendo un macabro rituale. I ragazzi che hanno perpetrato una triste serie di violenze per un periodo più o meno lungo sono schedati come criminali di guerra (ricevono un tesserino identificativo in tal senso) e seguono un percorso di recupero particolare, previsto da accordi internazionali.
Gli altri hanno ferite diverse: il trauma della separazione, il trauma della perdita della famiglia, il trauma della violenza subita, il trauma dell'isolamento (a volte molto lungo) nella foresta.
Potresti raccontarci la storia di un bambino che hai conosciuto?
Le storie purtroppo sono tutte uguali. Abbiamo trovato tante bambine violentate. Ne abbiamo schedate molte all'interno del nostro progetto (ho lavorato in un progetto
Coopi/Milano, finanziato da Unicef Freetown). In particolare quelle (non poche) che tornavano dai campi incinte e venivano di conseguenza ripudiate dalla famiglia. Queste madri spesso si ritrovano da sole, le famiglia non le aiuta, e l'unica strada che rimane loro aperta è quella della prostituzione: ragazzine che prima andavano a scuola e avevano una vita normale si trovano a non essere più niente. Soffrono anche per un trauma loro specifico: non avendo più un'identità sociale in città, spesso esprimono il desiderio di ritornare nella foresta.
Per quel che riguarda i maschi, le storie sono tutte pesanti. Molti bambini e adolescenti raccontano come hanno fatto carriera all'interno dell'organizzazione militaresca che li ha assorbiti, guadagnandosi a poco a poco i gradi di colonnello o di generale. Questi ragazzini sono perfettamente consapevoli del potere che hanno nei confronti degli altri e lo gestiscono con una serie di rituali difficili da descrivere. In questi casi si mescolano vari elementi: da un lato la criminologia di guerra, dall'altro lato la vita in foresta, con i suoi tratti animaleschi.
Come viene affrontato il problema del recupero dei bambini-soldato?
Vi sono dei centri di prima accoglienza per i bambini e le bambine che scappano o che vengono rilasciati ufficialmente, e una organizzazione volta a facilitare la seconda fase del recupero, cioè la riunificazione familiare. I bambini e le bambine vengono seguiti in entrambe le fasi, con un percorso specifico per le ragazzine violentate.
In ogni centro sono tante le attività di recupero. In primo luogo viene posta un'attenzione particolare nel tenere i bambini e le bambine costantemente occupati: arrivano al centro con una grande carica aggressiva, ma spaesati. Non sanno più dove sono, non conoscono nessuno. C'è un grande bisogno di dare loro dei punti di riferimento. Ovviamente sono lasciati molto liberi, perché non devono avere la sensazione di essere di nuovo inseriti in una struttura rigida. Hanno bisogno di "strutture aperte", radici cui sentano di potersi attaccare. I nuovi arrivati vengono tenuti separati dagli altri: con loro c'è bisogno di educatori molto forti, anche fisicamente, e pronti a cambiare sempre attività per tenerli costantemente occupati e interessati. Ci si dedica alle attività sportive, si va in spiaggia, si nuota e si pesca; c'è poi la musica, la danza, il teatro…
Si cerca di tenere i bambini e le bambine poco tempo all'interno dei centri, tranne nei casi più gravi. Quando vengono riunificati alle famiglie, vengono seguiti da operatori sociali che fanno visite domiciliari e seguono strategie diverse a seconda dell'età e dei problemi che ciascuno ha (la reintegrazione a scuola, la ricerca di corsi professionali, etc.).
A coloro che non riescono a ritrovare la propria famiglia si cerca di offrire le stesse risposte all'interno dei centri: la reintegrazione nella scuola pubblica che sorge vicino al centro, ad esempio. Oppure li si inserisce in corsi di formazione professionale: la scuola guida, la falegnameria, il laboratorio per la tintura tradizionale dei tessuti, la fabbricazione del sapone, la sartoria, la pesca, l'intreccio delle reti. Ciascuna di queste attività contribuisce all'economia del centro: ad esempio, il pesce pescato dai ragazzi viene dedotto dalle spese di sostentamento; alcuni tentano il commercio, grazie anche a piccoli prestiti agevolati.
Parliamo degli altri paesi che hai conosciuto, la Somalia e il Burundi, altre zone segnate tragicamente dalla violenza. Quali differenze e quali elementi ricorrenti hai rilevato nella situazione dei bambini e delle bambine?
L'elemento ricorrente, soprattutto in Burundi e in Sierra Leone, e in maniera diversa anche in Somalia, è la grande deprivazione psicologica conseguente al trauma della violenza. Le genti del Burundi e della Sierra Leone hanno subito un grave trauma a causa della violenza. La Somalia ha subito una guerra lunghissima in cui per molti anni la scuola non è sopravvissuta. In molte zone del paese ancora oggi non ci sono scuole. Molti giovani di oggi sono analfabeti, e non conoscono niente altro che la fatica e la violenza. È questo il dramma maggiore di questi paesi: tanti persone che non hanno nessun sogno, non riescono a immaginare che ci sia qualcos'altro oltre ciò che loro hanno vissuto. Questo è uno degli elementi su cui si lavora maggiormente quando si ha a che fare con bambini e bambine traumatizzati: cercare di recuperare la dimensione del sogno, della gioia, dare loro la possibilità di avere un progetto in cui credere, per ricostruire la loro vita.
Dopo aver lavorato in situazioni di emergenza in questi paesi difficili riesci a darti una ragione, da un punto di vista pedagogico, di quello che è successo? Riesci a trovare un orientamento pedagogico utile per intervenire in questi casi, o l'unica cosa da fare è far fronte alle emergenze in un'ottica assistenziale? Qual è il ruolo di una pedagogista nelle aree calde del pianeta?
Da un punto di vista pedagogico, dopo questa esperienza in Africa, ho rivalutato alcuni aspetti della vita e dell'educazione in Europa. Mi sono convinta che noi europei abbiamo sì tanti difetti, ma che se non andiamo più incontro a situazioni di violenza così forte, è anche grazie all'educazione che in linea di massima riceviamo, da molti anni. Come sempre accade, non dobbiamo generalizzare, ma credo che se nei paesi occidentali da cinquant'anni non ci sono guerre catastrofiche a largo raggio il merito è anche della diffusione dell'istruzione.
Dell'istruzione scolastica?
Non solo, ma in gran parte. Sono convinta del ruolo determinante giocato dalla scuola, e anche del ruolo dell'educazione prescolare. Qui i bambini e le bambine vanno a scuola presto e imparano fin dalla più tenera età a litigare e a socializzare, a fare i conti con la diversità e il conflitto.
Tuttora nelle scuole africane viene mantenuta un'organizzazione gerarchica per cui ai bambini e alle bambine non viene insegnato a pensare né ad esprimersi, a domandare, a criticare. Come avveniva nelle scuole italiane fino agli anni Cinquanta, i bambini ripetono la lezione a memoria; non hanno libri, non hanno altri strumenti di informazione. Nella grande maggioranza dei casi, le scuole africane sono caserme che educano greggi. Dal punto di vista pedagogico questo scava un abisso fra l'Europa e l'Africa.
Un'altra caratteristica di molte scuole africane è l'inflessibilità nell'applicazione dei curricula. In Italia seguendo le direttive del Ministero della Pubblica Istruzione ciascun insegnante può dedicare il tempo che ritiene opportuno ad uno stesso argomento: un giorno, una settimana o un mese, a seconda delle caratteristiche del territorio e degli interessi degli studenti.
Nei paesi ex-coloniali che ho visitato questo è impensabile, per non dire vietato: gli insegnanti seguono i testi ministeriali come fossero la Bibbia perché alla fine dell'anno scolastico i bambini e le bambine devono sostenere un esame (strutturato come un test per il nostro esame di guida) su tutti gli argomenti trattati dai manuali. Non si può dedicare tempo a un argomento a scapito di un altro, perché questo comprometterebbe la riuscita degli studenti nel test finale. Ogni insegnante mira solo a far ottenere alla sua classe il più alto punteggio possibile; in una struttura simile, che è profondamente competitiva, non ha altra scelta. Non può ad esempio concentrarsi sulla storia dei Turkana in una classe in territorio
Turkana, facendo un discorso di approfondimento della cultura locale, non solo perché talvolta non ha la necessaria sensibilità per farlo, ma anche perché viene formato a seguire pedissequamente il manuale.
È quanto accade anche in Kossovo: anche lì l'educazione è improntata al modello della caserma, e non solo il modello scolastico è rigidissimo, ma anche l'educazione familiare. Basti pensare che sopravvive l'usanza di fasciare i neonati.
Sono convinta che se vogliamo dare aiuto a questi paesi in una prospettiva temporale lunga l'aiuto vero può venire solo dall'educazione. Tutti gli altri interventi, sanitari, agricoli, e così via, servono per dare risposte economiche nel breve e medio termine, ma non per cambiare le cose radicalmente.
C'è ancora in Africa un'immagine dell'infanzia che deve obbedire. Nella cultura contadina i bambini e le bambine tradizionalmente lavoravano, e ricoprivano perciò un determinato ruolo sociale: la raccolta della legna, o dell'acqua.
Probabilmente la tipologia della scuola così come è stata esportata all'epoca delle colonie, fondata su una concezione dell'infanzia simile a quella tradizionale, ha creato un cocktail tuttora attivo in Africa, dove è molto difficile parlare di diritti dei bambini. È ancora viva la teoria (diffusa anche in Italia fino a pochi anni fa) che riconosce un valore pedagogico alle percosse e considera le punizioni corporali un elemento fondamentale nell'educazione dei piccoli. Nella mia esperienza a contatto con gli educatori e gli insegnanti locali ho incontrato una forte resistenza all'idea, tutta occidentale, che picchiare i bambini non serva a nulla, anzi sia controproducente, e generi altra violenza. Poco tempo fa mi sono scontrata con un direttore didattico a causa di un episodio per me sconvolgente (per lui normale) avvenuto nella sua scuola: ho trovato un bambino accasciato vicino ad un albero con i gomiti legati dietro la schiena, per scontare non so che punizione.
In base alla tua esperienza di pedagogista in Africa puoi dirci qual è secondo te il senso di un intervento educativo di aiuto?
Ho notato in tutti i progetti cui ho preso parte l'assoluta mancanza di una riflessione pedagogica. Si fanno progetti educativi senza pensare a quale tipo di educazione si vuole esportare nei paesi del Terzo Mondo, con quale fine. Spesso nei progetti educativi non lavorano esperti di educazione, bensì esperti di cooperazione in generale. Anche poi quando si tratta di education
experts, manca una vera elaborazione comune; ognuno si attiene alla propria prospettiva pedagogica senza confrontarla con gli altri. Io partecipo ai progetti partendo dalla mia prospettiva di pedagogista italiana, bolognese, cresciuta alla Facoltà di sinistra della mia città dove ho avuto la possibilità di conoscere le filosofie di Paulo
Freire, Don Milani, Gandhi, Mario Lodi,… e di conoscere l'educazione alla pace. I pedagogisti
kenyani, indiani o comunque provenienti da paesi con uno sviluppo più recente, vedono nello sviluppo la tecnologia, il diritto di avere tutti l'automobile, e quello per loro è il fine dell'educazione: il progresso.
Per me l'educazione ha un fine politico: nel momento in cui seguo una determinata strategia e applico determinate metodologie [attive e partecipative] desidero innescare un processo di cambiamento, che porti all'eliminazione di scuole come caserme, e al diritto
all'autoderminazione, per tutti. Ma si tratta di un impegno puramente personale: dietro il piano della Scuola per tutti
(Education for all) promosso da Nazioni Unite e Banca Mondiale a partire dal 1990 non c'è una logica comune, un'ottica pedagogica di base. Si persegue solo un obiettivo numerico, senza sapere bene per andare dove, e perché.
Purtroppo oggi le grandi agenzie internazionali ragionano solo in termini quantitativi, e non qualitativi. Sono convinta che in molti casi la diffusione delle scuole di tipo occidentale sia negativa, perché produce false aspettative, che portano alle grandi
baraccapoli. Nei paesi poveri, ci sono scuole in cui i bambini impiegano due anni per imparare a scrivere; qualunque nozione viene insegnata con metodi direttivi. Gli insegnati sono sottopagati, e lavorano poco e male.
Un altro dato dannoso che ho notato tante volte in questa struttura scolastica così terribilmente gerarchica, è l'aumento dell'arroganza del sapere. Nel nostro mondo riceviamo talmente tante informazioni da essere per forza consapevoli della nostra ignoranza come singoli: ci basta entrare in una libreria per sapere quanto non sappiamo. In un piccolo villaggio africano chi ha frequentato la scuola o un corso ritiene spesso di sapere tutto sugli argomenti trattati. Non possono immaginare che sugli stessi argomenti esistono biblioteche di migliaia di volumi.
Il nozionismo è spesso un ostacolo anche alla collaborazione con gli educatori locali: anch'essi condividono un pensiero gerarchico, e mancano di strumenti di formazione e di informazione. Quando mi chiedono delle informazioni, desiderano apprendere delle nozioni. E' l'unico metodo di conoscenza che conoscono. In Burundi, dove ho lavorato per l'educazione alla pace, i formatori locali mi chiedevano di spiegare loro "come si fa l'educazione alla pace in Italia", per poter ripetere il processo tal quale lì nel loro paese. Far capire che in campo pedagogico non esistono ricette pronte e universali aveva l'effetto di gettarmi in una cattiva luce come educatrice impreparata, o poco chiara. Questa impostazione del sapere come insieme di sillogismi rende il lavoro molto faticoso.
Le ONG attive nei paesi che hai visitato hanno una qualche consapevolezza di queste difficoltà?
Direi proprio di no! Innanzitutto i progetti educativi rappresentano una percentuale minima dei progetti di aiuto, che dedicano quasi tutte le risorse a campagna sanitarie o alla costruzione di opere edili essenziali, come i pozzi per l'acqua potabile, o strutture per il commercio o la pesca, ecc. In Somalia l'Unione Europea spende molto per l'educazione, ma non tanto perché vi sia una maggiore attenzione verso i bambini somali, quanto per obiettivi politici: per evitarne la trasformazione in un altro paese appartenente alblocco musulmano integralista.
Gli investimenti educativi sono pochi, e anche là dove sono corposi manca un dibattito sulle metodologie da applicare, sulle culture diverse con cui si viene a contatto, anche all'interno di uno stesso paese. In Kenya, paese in gran parte alla deriva, dove mi reco spesso perché la base operativa per la Somalia è a Nairobi, non si fa nulla in difesa delle minoranze etniche ormai in via di estinzione. Non esiste una forma pedagogica rispettosa di queste popolazioni, e nessuno se ne occupa. L'educazione è vista solo come strumento per portare l'Africa allo sviluppo, non attraverso la liberazione dei singoli, bensì la loro competizione, perché vadano nelle scuole migliori quindi nelle migliori università del mondo. Si persegue perciò la produzione di una scuola assolutamente omologante.
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