Caleidoscopio Colombia 2013 tra guerra e pace
Di Stefania Sinigaglia
I páramos sono spazi di nebbie, piogge lievi e nubi volteggianti che aderiscono alle rocce e al vento. Luoghi d’ombra, foschi e ignoti, dove gli orizzonti si moltiplicano e la totalità ci appare. Il páramo condensa attorno a sé le energie della vita e l’uomo le ha sempre associate ai suoi dei, a queste forze che non riesce a comprendere né a dominare. (Josan, 1982, http://palabrasenextincion.blogspot )
Questa bella e poetica descrizione di uno dei sistemi ecologici più caratteristici dell’ambiente andino, che si può ammirare in vari punti della cordigliera colombiana tra i 3000 e i 4000 metri di altezza e che dispiega piante, fiori e arbusti caratteristici e unici, suggerisce l’incanto che coglie chi li attraversa e che mi ha colto nei due mesi in cui ho percorso la Colombia da sud a nord e poi di nuovo a sud, utilizzando solo autobus di linea e camminando per decine di km.
Il paese comprende una varietà enorme di paesaggi (e climi), dai picchi andini sempre coperti da cappelli di nuvole e nebbia alle coste della penisola della Guajira a nord-est, arse dal sole ogni giorno dell’anno, al deserto della Tatacoa con i suoi cactus e le architetture naturali di sabbia rossa, alle foreste i cui alberi immensi sono spesso ammantati di lunghe frange cineree chiamate “barbas de viejo”, che pendono come liane ma assomigliano di più a scialli di pizzo, apparizioni di fiaba.
I musei archeologici rigurgitano di ceramiche precolombiane dalle forme eteroclite perfette e capolavori di oreficeria unici al mondo. Le città coloniali ben conservate, dalla meridionale Popayan alla centrale Villa de Leyva, alla nordica e più conosciuta Cartagena de Indias sono belle e accoglienti, le persone che incontri per le strade e negli autobus pronte non solo a dare indicazioni ed aiutarti ma anche disponibili a chiacchierare, ad accompagnarti, a passare del tempo con te. I trasporti, a parte l’obiettiva pericolosità delle strade, troppo strette per le centinaia di migliaia di TIR che le percorrono, sono ragionevolmente comodi e puntuali, i prezzi , ovviamente per chi viene dall’Europa, molto convenienti.
Così l’immagine minacciosa di un luogo pieno di insidie, di banditi e narcotrafficanti, pericoloso e inaffidabile, si attenua e sembra scomparire. La Colombia di inizio 2013 appare operosa, aperta al turismo, al commercio e al progresso tecnologico, pronta a mettersi alle spalle un passato di guerra e conflitti sociali sanguinosi dopo che il Governo Santos ha accettato di sedersi al tavolo dei colloqui di pace all’Avana insieme ai guerriglieri delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia) che combattono dagli anni ’60 una guerra che ormai non si può più vincere sul piano militare. L’ultima edizione della guida Lonely Planet è tranquillizzante: uno dei paesi più sicuri del Sudamerica.
Ma presto, conversando più approfonditamente con colombiani e leggendo i giornali, diviene lampante che il paravento turistico è illusorio. La militarizzazione del paese è evidente, l’esercito è dappertutto , ci sono frequentissimi posti di blocco con perquisizioni dei passeggeri (e una volta, prima della partenza, un soldato sale sul pullman e riprende tutti con la fotocamera “per la vostra sicurezza”). Dopo pochi giorni, se non vuoi chiudere gli occhi e far finta di niente come molti compagni di viaggio che ho incontrato, un altro quadro molto diverso emerge: i colloqui dell’Avana si svolgono senza che sia stata patteggiata una tregua bilaterale, quindi la guerra continua e miete vite ogni giorno. Anzi, ciascuna delle due parti ha interesse ad alzare la posta e il prezzo della pace. Nel Putumayo, a sud, la violenza è aumentata durante i negoziati a tal punto che le autorità stanno discutendo seriamente se viaggiare fino all’Avana per parlare direttamente con i guerriglieri e supplicarli di non attentare più contro la popolazione. Continuano i sequestri di persona : William Ospina” (El Espectador, 10 marzo 2013), commentando la morte di Chavez e paragonando i recenti percorsi storici divergenti di Venezuela e Colombia, menzionava il fatto che “nei mesi di gennaio e febbraio 2013 contiamo (in Colombia) già più di mille desaparecidos”. Uomini incappucciati assassinano tre contadini a Yondó ( El Espectador, 9 marzo 2013). Vedi baraccopoli a perdita d’occhio arrampicate sui fianchi delle montagne della città sbandierata come la più innovatrice del mondo, Medellin, dove, in pieno centro vicino a Parque Botero, devi stare attenta a non calpestare i mendicanti stesi per strada a dormire, magri stecchiti e luridi. Le sacche di povertà sia rurale che urbana sono enormi, le lotte sociali scoppiano fortissime e rischiano (a ragione) di paralizzare il paese. In febbraio, per quasi un mese migliaia di minatori del Cerrejón, la più grande miniera di carbone del Sudamerica, si sono fermati per rivendicare salari più dignitosi, e tutto il settore si è paralizzato anche perché il governo stesso ha imposto il fermo di un mese alla Drummond, multinazionale U.S.A. del carbone. Per risparmiare, invece di usare un sistema meccanizzato per caricare il minerale sulle navi, la Drummond impiega delle enormi chiatte, una delle quali, in avaria, per non affondare il 12 gennaio aveva scaricato una quantità imprecisata, da 500 a 1800 tonnellate, di carbone nella baia di Santa Marta, provocando una emergenza ambientale tuttora irrisolta (economia.terra.com.mx›Noticias , 1 marzo 2013).
E ancora: in marzo ci sono state le lotte dei coltivatori di caffè , i cafeteros, che chiedevano sussidi al governo ( e li hanno ottenuti), perché i costi di produzione aumentati non rendono più accettabilmente redditizia la loro attività, soprattutto dopo il crollo sui mercati internazionali del prezzo del grano, e hanno bloccato per vari giorni la Panamericana. I conducenti dei TIR si sono fermati per alcuni giorni per protesta contro gli alti pedaggi e l’eccessivo prezzo del carburante che favorisce il contrabbando (nel confinante Venezuela è praticamente gratis). Normali proteste sociali, sì, ma proiettate su un fondale di guerra ancora guerreggiata.
In un mondo dove si dilata il ruolo dell’economia della conoscenza e dell’immaterialità delle reti telematiche , si sbatte il naso contro la super-materialità di un conflitto armato che ha al suo centro una risorsa ancestrale: la terra. “Gran parte di tutto ciò che ha fatto scorrere il sangue in Colombia è legato principalmente alla terra. Al suo uso.” (El Espectador, 4 marzo 2013). E ne ha fatto scorrere, fiumi. In un articolo del 7 settembre 2008, rievocando quello che è passato alla storia come “il massacro del Trujillo”, Vladimir Melo Moreno rievoca come tra il 1986 e il 1994, furono assassinate almeno 245 persone da gruppi di narcotrafficanti alleati alle forze della polizia e dell’esercito, in funzione “contro-insurrezionale”, in tre piccoli centri rurali della Valle del Cauca, tra cui Trujillo. Si intimidivano i contadini con il terrore per appropriarsi delle loro terre, e dopo averli mutilati e assassinati con incredibile ferocia, usando motoseghe, i “frammenti” (parola usata dall’articolista) dei corpi venivano gettati nel fiume Cauca.
Nei 50 anni dell’interminabile guerra che squassa la Colombia si è creata una massa enorme di sfollati, tra i 3.8 e i 5.3 milioni di persone secondo l’Internal Displacement Monitoring Center, Norwegian Refugee Council , Global Displacement Report 2011). 3.888.309 secondo l’ UNHCR Report 2012. Per lo più sono contadini cacciati dalle loro terre perché presi tra il fuoco incrociato della guerriglia e dell’esercito, oppure, più spesso, terrorizzati dalle formazioni paramilitari come le famigerate AUC, Autodefensas Unidas de Colombia. Nate alla fine degli anni ’80 come forze contro-insurrezionali per combattere le FARC dall’ iniziativa di piccoli proprietari terrieri, sono degenerate in formazioni di pura criminalità, spalleggiate dall’esercito e dai servizi dell’intelligence colombiana. Le AUC hanno seminato distruzione e terrore per anni, rendendosi colpevoli di eccidi come quello del Trujillo, così numerosi che per far scomparire i cadaveri nella regione del Catatumbo, a nord-est, tra il 2000 e il 2005, sono stati “costretti” a ideare un sistema nazista: hanno costruito forni crematori dove sono scomparsi a centinaia i cadaveri delle vittime.
Le AUC sono state sciolte tra il 2003 e il 2006, ma molti componenti non si sono consegnati e hanno dato vita alle attuali “bacrim”, abbreviazione di bandas criminales, organizzate come vere e proprie formazioni paramilitari (impongono il coprifuoco), che vivono di narcotraffico, di sopraffazione e razzie, usate come manovalanza armata dalle multinazionali dell’agribusiness per impadronirsi di terre da destinare a piantagioni di palma da olio o di canna da zucchero, o per arraffare concessioni minerarie. Sono anche loro in combutta con l’esercito e godono di evidenti appoggi in alto loco.
Le loro radici fasciste sono evidenti: ad Ocaña, Norte de Santander, sono stati distribuiti volantini che ingiungono a omosessuali, uomini con i capelli lunghi e con orecchini ad andarsene, pena il taglio delle orecchie e l’eliminazione a machete. Sono bacrim los Rastrojos, los Urabeños, las Aguilas Negras, sigle che ricorrono nelle cronache attuali, bande di migliaia di uomini che a volte si combattono come rivali, a volte si spalleggiano a vicenda. (Gary Leech, The shifting contours of Colombia’s armed conflict, 2012) E continuano a impedire il re-insediamento di chi è stato cacciato via dalla propria terra e cerca di tornarci.
La questione della terra e della iniqua ripartizione della ricchezza e delle proprietà agricole è quindi alle origini del conflitto armato che iniziò negli anni ’60 con la formazione degli eserciti guerriglieri (non solo FARC ma anche ELN, ELP e M-19), ma la cui gestazione si può rintracciare già negli anni ‘ 40. Il 9 aprile 1948 il difensore dei diritti dei contadini e dei diseredati colombiani, Jorge Eliecer Gaitán, è assassinato a Bogotà, apparentemente da una mano isolata, un “pallido giovane” chiamato Juan Roja Sierra, che viene prontamente ucciso a furor di popolo, così che sia più facile per i mandanti rimanere occulti. L’ ultimo discorso pubblico di Gaitán, nel febbraio del 1948, fu la “Oracion por los humildes” che non necessita traduzione. Nelle elezioni generali di due anni dopo, la sua popolarità lo avrebbe senz’altro fatto eleggere Presidente, ma le sue grida: "¡A la carga! ¡Contra la oligarquía! ¡Por la restauración moral de la República!" non potevano essere tollerate dal potere, nemmeno dal partito Liberale, contrapposto ai conservatori ma pur sempre ancorato agli interessi oligarchici. Se fosse vissuto e fosse stato eletto, se avesse potuto realizzare una riforma agraria, sarebbero nate le formazioni guerrigliere?
Quindi anche la storia attuale della Colombia ha alle sue (recenti) radici un assassinio politico generato dall’imperativo della difesa degli interessi di pochi contro quello di molti, dall’odio e dalla lotta di classe, questo motore della storia oggi così misconosciuto e negato. E’ toccante la lettera che la figlia di questo leader, assassinato al colmo della sua popolarità, ha indirizzato al Presidente Santos e al Comandante Londoño Echeverri all’inizio di quest’anno:
“…(si deve riconoscere che) il conflitto che viviamo (ora) lo ha
iniziato lo Stato Colombiano nel 1946 per aver scatenato in quel
preciso momento il genocidio premeditato, sistematico e
generalizzato degli esponenti
gaitanisti
che avanzavano vittoriosi
alla conquista del potere sotto la guida di mio padre
Jorge Eliecer
Gaitán” Gloria Gaitán aggiunge di avere tutta la documentazione originale che prova che questo genocidio del Movimento Gaitanista, come “delitto di lesa umanità”, è all’origine del conflitto. Menziona anche il fatto che il periodico Jornada, portavoce del Movimento Gaitanista, con i suoi articoli che dettagliavano i nomi delle vittime, i fatti circostanziati e i delitti relativi all’annientamento dei partigiani del padre, è scomparso misteriosamente dagli archivi della Biblioteca Nazionale, ma fortunatamente lei ne detiene le copie e le mette a disposizione, come tutto il resto della documentazione, delle massime autorità colombiane cui si rivolge.
E’ quindi naturale che la questione agraria sia stato il primo punto in discussione ai negoziati che si stanno svolgendo (dalla fine del 2012) all’Avana tra le delegazioni rispettive delle FARC e del Governo colombiano e che si spera porteranno ad un accordo di pace. Nel 2006 il Land Gini index, che misura il grado di concentrazione della proprietà agraria, era 0,85, quando il massimo di 1 per assurdo indicherebbe che tutta la terra coltivabile è nelle mani di UN solo proprietario, mentre 0 rappresenterebbe eguaglianza assoluta (UNDP Report on Colombia, 2011), che puntualizza: “La terra è prevalentemente controllata da un oligopolio della narco-borghesia, da grandi proprietari di bestiame, speculatori, e più recentemente dalle multinazionali del settore minerario. Insieme, questi gruppi hanno contribuito a una diminuzione radicale delle coltivazioni alimentari . Attualmente, di un totale di 21,5 milioni di ettari adatti alla produzione alimentare, solo 4,9 milioni sono coltivati, cioè il 22,7% del totale”.
Intanto i contadini e le loro associazioni che dovrebbero essere interlocutori ineludibili nel processo di pace non sono presenti al tavolo delle trattative. Fino a che punto le FARC rappresentano i loro interessi quando, per favorire lo sviluppo agricolo, propongono 53 “Zonas de Reservas Campesinas” relativamente autonome? Feliciano Valencia, portavoce della Associazione dei Cabildos (capi tradizionali) indigeni della Valle del Cauca, presenziando il Congresso Nazionale per la Pace che si è svolto dal 18 al 22 aprile a Bogotà dice : “La pace è più della fine del conflitto armato”( www.lasillavacia.com, 18 aprile 2013). E secondo lui all’Avana dovrebbero sedere tutte le parti in causa: i rappresentanti della società civile, ma anche le altre formazioni guerrigliere e i gruppi paramilitari. E sottolinea che:”… finora i dialoganti non hanno sfiorato le questioni di genere, come la guerra ha coinvolto le donne, né gli investimenti sociali, né la riduzione dell’apparato militare”, perché non si può fare la pace con una politica di guerra. I movimenti popolari del Cauca chiedono l’estromissione totale di tutti gli attori armati, legali e illegali, dal loro territorio, una demilitarizzazione completa.
Inoltre, aggiunge Feliciano, deve essere rimesso in discussione il modello economico “estrattivo” in senso lato perseguito dalla Colombia e la politica neo-liberista, esemplificata dal Trattato di libero commercio (NAFTA) del 1994, che ha portato il paese ad importare quasi tutte le sue derrate alimentari e ha rovinato i contadini che le producevano. Mentre tuttora prosperano e si moltiplicano le piantagioni dell’agribusiness di palma da olio e canna da zucchero. Il modello “estrattivo” è ribadito dalle politiche governative anche in senso stretto. La Colombia sta vivendo un boom del settore minerario: non solo carbone, ma anche oro e ferro-nickel, il che crea enormi problemi di inquinamento ambientale. E aumenta l’illegalità diffusa. Delle 55,8 tonnellate d’oro estratte nel 2011, solo il 14% è stato esportato legalmente ( CIT pax, Actores armados ilegales y sector extractivo en Colombia, p.6, 2012). La “mineria ilegal” nutre le casse sia delle FARC che delle formazioni paramilitari. Non solo: c’è anche il petrolio e sempre nuovi giacimenti vengono scoperti, l’ultimo a César a inizio 2013. Non sarà facile combattere il modello estrattivo.
Non ci può essere pace senza riparazione e ricerca di giustizia. Per reintegrare gli sfollati nelle loro terre e risarcire le vittime è stata emanata nel 2011 la Ley de Víctimas y Restitución de Tierras che “ mira a riparare il male inferto a persone che hanno sofferto a causa del conflitto armato in Colombia e così risarcire i danni e la violazione dei loro diritti”. Nel 2012, secondo il Ministero competente, 140.000 vittime sono state indennizzate in qualche modo, e il programma per il 2013 è di risolvere 150.000 casi di famiglie. Ma di fronte a milioni di desplazados che vivono tuttora in condizioni di miseria o addirittura degradanti, cosa sono queste cifre? E le centinaia di migliaia di assassinati? Inoltre chi rivendica il diritto a tornare può essere di nuovo minacciato, cacciato ancora via o perfino assassinato.
E’ successo a Alba Mery Chilito Peñafiel, leader dell’Associazione delle vittime dell’atroce massacro del Trujillo già menzionato, che il 7 febbraio di quest’anno è stata uccisa da tre pallottole in testa. Aveva perso la figlia e il genero nella mattanza del Trujillo e si batteva da allora per i diritti delle vittime: dopo 26 anni ci sono state appena due condanne penali (El Espectador, 14 marzo 2013). La complicità di settori delle alte sfere è palese.
La storia di Alba si appaia a quella di Angela Bello, anche lei rifugiata interna colombiana sin dagli anni ’90. Dovette lasciare precipitosamente Saravena, nel dipartimento di Arauca, dopo che gli esponenti della Unione Patriottica, partito di sinistra che suo padre aveva contribuito a fondare, furono trucidati. Con i suoi quattro figli errò tra Bogotà fino a Villanueva dove dovette subire l’atroce sfregio dei paramilitari che le sequestrarono, torturarono e violentarono le due figlie adolescenti, ingiungendole poi di andarsene immediatamente. Fuggirono a Villavicencio, di notte, con il terrore di essere raggiunte. A Villavicencio Angela fondò un’associazione di difesa dei diritti delle donne. Ma i suoi persecutori non mollano: subisce un attentato che la lascia zoppa. A Bogotà finalmente lo Stato le riconosce diritto alla protezione: è il 2008, ma continua a ricevere minacce che si concretizzano quando tre sicari intercettano il taxi dove si trova, la sequestrano, torturano e violentano ripetutamente. Deve fuggire di nuovo, a Codazzi , nel dipartimento di César, a nord. Finalmente riesce ad ottenere una scorta. Ma ancora riceve minacce e intimazioni ad andarsene. Questa volta non ne può più: prende la pistola di un componente della sua scorta e si tira un colpo in bocca (Maria Elvira Bonilla, El Espectador, 3 marzo 2013).
Anche la vicenda dei falsos positivos è esemplare del livello di ferocia indotto dal conflitto armato in Colombia. Alla radice, la politica del “body count”, la conta dei corpi, dei vertici dell’esercito. Per ogni guerrigliero ucciso si guadagnavano soldi e si poteva facilmente salire di grado. Con questa “politica” migliaia di poveri contadini e inermi passanti sono stati uccisi dall’esercito ed additati come militanti o sostenitori delle FARC. Attualmente, il Procuratore Generale di Bogotá sta indagando 1.666 casi (Gary Leech 2012, cit.) Fabio Augusto Reyes e Luis Alejandro Londoño, impiegati, stanno andando al lavoro la mattina del 28 giugno del 1996 e si trovano intrappolati tra una banda di rapinatori e la polizia che li insegue. Dileguatisi i rapinatori, gli agenti bloccano i due impiegati, li immobilizzano e li uccidono mentre loro implorano in ginocchio di risparmiarli. I loro cadaveri sono spacciati per quelli degli assalitori del carro valori, e gli agenti guadagnano una promozione, ricompense e lodi dai superiori. Inutili le denunce delle famiglie e dei colleghi dei due impiegati che increduli protestano la loro innocenza, non solo in virtù di una specchiata carriera delle vittime, ma anche perché la pistola nella mano destra di Reyes, che era mancino, denuncia chiaramente la macchinazione. Ci sono voluti quasi 17 anni per arrivare ad una sentenza, lo scorso gennaio, che riconosce le responsabilità dei poliziotti e li condanna penalmente, oltre a sancire il diritto a un indennizzo delle famiglie.
Solo nel 2008 si è cominciato a indagare sui falsos positivos come vengono designati in Colombia i disgraziati uccisi per favorire le carriere e ingrassare le tasche dei vertici militari, a partire da 19 cadaveri di giovani di un sobborgo povero di Bogotà che vengono trovati in una zona remota tra Ocaña e Cimitarra, Norte de Santander. Erano stati attirati a nord con il miraggio di un buon posto di lavoro. Appena arrivati, erano stati consegnati all’esercito, trucidati per essere esibiti poi come guerriglieri delle FARC uccisi in combattimento. E poi ci sono le complicità internazionali: documenti declassificati dimostrano come la CIA e funzionari dell’Ambasciata USA fossero a conoscenza di questa politica sin dal 1994, che si intensificò durante il governo di Uribe, con il “Plan Colombia” (Gary Leech, 2012, cit.).
Con questo retaggio di morte e di ingiustizie, con il peso di tali interessi, nazionali e internazionali, che prospettive per una pace giusta?
“La storia è un incubo dal quale cerco di uscire”, dice Stephen nell’Ulisse di Joyce.
I sondaggi degli ultimi mesi mostrano che ancora meno del 50% dei colombiani crede che i colloqui con le FARC possano avere uno sbocco positivo. Si può solo sperare che siano smentiti, che lo scetticismo si trasformi in pressione politica per arrivare a dei risultati positivi, e che le forze progressiste legate alle associazioni rurali, ai movimenti sociali, alle numerose organizzazioni di vittime e della memoria storica, gli intellettuali, la stragrande maggioranza della popolazione, riescano a imporre una svolta e a cominciare la lunga uscita dal tunnel della guerra. Una guerra che riguarda anche noi. Le multinazionali e la cocaina non hanno confini.
Stefania Sinigaglia, aprile 2013
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