10 settembre 2004. Da quando sono partita per il Ciad, un mese e mezzo fa, il panorama internazionale si fa sempre più allucinante. L'uccisione del giornalista italiano, il massacro di Beersheva, con il ritorno dei kamikaze (Sharon pensa di estinguerli con un muro...? non farà che farli riprodurre), il rapimento dei due giornalisti francesi, poi il massacro pazzesco, da sgomento, dei bambini in Ossezia... Ho visto le immagini di dolore e violenza nel sito di Repubblica. Ho sentito il bisogno di scrivere alla redazione. Con le lacrime agli occhi, ho ringraziato questo servizio gratuito del giornale, che per me che non ho la tv, costituisce l'unico approdo per vedere - oltre che sentire alla radio - ciò che passa nel mondo. Dalla redazione mi hanno risposto subito, cortesi. E altrettanto sgomenti. Andavo in macchina verso sud, alla missione di Bekamba. Due giorni di viaggio ad andare. Due giorni di viaggio a tornare. Km e km in mezzo alle spighe di sorgo rosso, che ormai sono mature. Altissime. Meravigliose. E quegli alberi incredibili. E quei cieli infiniti. E continuavo ad avere negli occhi le immagini della tragedia in Ossezia. Quegli occhi pieni di orrore. Quelle facce ferite e insanguinate. Quelle bare piccole tra una folla immane. Forse per la prima volta nella mia vita ho pensato all'esistenza del demonio. Mentre io sono qui immersa nella bellezza di una natura che ci era stata data intatta e fantastica, sufficiente a farci vivere di rendita fino alla fine dei tempi, lo shock di immagini così mi fa pensare che tutto questo odio, tutta questa follia, non so, "non ci sta". Non trova spazio nell'essere umano. E' troppo grande. Troppo crudele. Troppo diabolica. Mi viene da pensare che davvero un essere sadico, infinitamente sadico, si stia divertendo a rovesciarci, come si rovescia la piaga quando un coltello ci gira dentro. Ha infilato la sua mano nel pianeta, e ce la sta girando, frullando, stringendo. Felice di vedere che riesce a portare odio e distruzione tra tutti noi. Piccoli esseri inermi, che nella fatica quotidiana vorremmo solo trovare pace, mangiare, amarci, prendere il sole e respirare a pieni polmoni. Invece dobbiamo arrabattarci con problemi che diventano sempre più grandi. Sempre più grandi. Sempre più grandi. E mentre ancora non si hanno notizie dei giornalisti francesi, ecco che arriva l'altra batosta: due italiane rapite in Iraq. Due mie colleghe. Cooperanti. Di una ong italiana. Mie corregionali, fra l'altro. Ed ecco che molti amici mi scrivono. Che mi pensano. Perché loro fanno lo stesso lavoro che faccio io. Mi chiedo quali siano ora i sentimenti in Italia verso queste due donne. In tutte queste settimane, mi ha colpito moltissimo sentire alla radio francese che in Francia chiamano "nos deux confraires" (i nostri due confratelli) i due giornalisti rapiti. E' un termine che noi in Italia non useremmo mai. Ci suonerebbe estremamente clericale. Cattolico. Bigotto. Forse anche idiota. E questa è la differenza. Credo che tra noi italiani questa solidarietà "nazionalistica" sia molto più esigua. E noi cooperanti italiani, in Italia siamo sempre degli zerbini. Come se fossimo in giro per il mondo a fare vacanza. O come se scegliere questo mestiere, e scegliere il nomadismo, fosse un peccato che in qualche modo gli altri ti fanno scontare. E' così a livello di sentimenti collettivi, ed è così sul piano amministrativo. Se torno in Italia il mio lavoro fatto qui, le mie competenze, non contano un accidente. Faccio la maestra precaria. Ed è lo stesso per tutti, a meno ché uno non sia statale, e può prendersi l'aspettativa. Se hai passato un po' di anni all'estero, quando torni a casa scopri che hai perso tutti i treni possibili. Non è così in Francia, dove i "confraires" che lavorano all'estero hanno tante agevolazioni, riconoscimenti, professionali, fiscali. E' sempre il vecchio discorso, un po' come per gli artisti. Quando crepi, gli altri si accorgono che facevi qualcosa di buono. Però anche per queste due donne rapite, il termine "confraires", anzi "sorelle", i giornalisti italiani non lo adoperano. Dobbiamo stare attenti, a non volerci troppo bene. Scusate se è su questo che metto l'accento, ma proprio perché quelle due donne sono mie colleghe, proprio perché so cosa vuol dire rischiare la pelle nei paesi sfigati del mondo, posso dirvi che queste cose fanno la differenza. Un conto è fare un lavoro sapendo di avere un paese alle spalle. Un paese che riconosce il tuo lavoro. Che si sbatte se ti succede qualcosa ovunque sei. Ben altra cosa è sapere che fai il tuo lavoro e che sei solo. Qualunque cosa ti capiti. O poco più. Che il tuo lavoro a casa tua non conta niente. E che se ti succede qualcosa al massimo avrai qualche manovra diplomatica, ma certo nessuno ti chiamerà "confraire". Saluti da N'Djamena. Sperando che fratelli e sorelle rapiti, tanto più quelli che quella schifosa guerra non la volevano, riescano a resistere. Silvia.
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